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  Giappone 1945-1965
     
 

Alla fine della seconda guerra mondiale, il Giappone era in condizioni disperate.

Nel corso del conflitto, erano morte circa 2 milioni di persone, un terzo delle quali civili; le città, attaccate con bombe incendiarie (Tokyo) e con ordigni nucleari (Hiroshima e Nagasaki) erano ridotte a cumuli di macerie.
Dopo la firma della resa, gli americani procedettero alla completa occupazione del Paese; in teoria, come in Germania, al controllo

avrebbero dovuto collaborare anche altre forze alleate: in pratica, invece, gli Stati Uniti non permisero a nessun’altra potenza di

interferire nella propria politica giapponese.

La gestione dell’occupazione fu assegnata al generale Douglas Mac Arthur, che in primo luogo procedette al rimpatrio di tutti i giapponesi (circa 6 milioni) che si trovavano sparsi  nelle varie regioni dell’Asia.

Oltre ai soldati e ai prigionieri, si dovette provvedere al ritorno anche dei numerosi civili che vivevano da tempo a Taiwan e in Corea, territori che l’impero nipponico aveva conquistato all’inizio del secolo e che, dopo il 1945, divennero indipendenti.

Inseguito, il generale americano organizzò a Tokyo un grande processo per punire i criminali di guerra, cioè, in pratica, i principali responsabili della politica estera giapponese negli anni compresi tra il 1941 e il 1945.

Furono eseguite sette condanne a morte; l’imperatore Hirohito, tuttavia, non fu né processato né destituito: semplicemente, gli fu imposto di dichiarare che la sua figura non era di origine divina e che egli era soltanto

 « il simbolo dello Stato e dell’unità del popolo».
Chiusi i conti con il passato, Mac Arthur assegnò a una commissione di funzionari americani, il compito distendere una nuova Costituzione, che entrò in vigore il 3 maggio 1947.

Fu dunque la potenza occupante a fissare i principi giuridici che avrebbero dovuto regolare in futuro la vita politica nipponica; questo gesto clamoroso, tuttavia, non venne accolto come un’intollerabile intrusione e un atto di imperialismo culturale.
La disfatta aveva completamente screditato il nazionalismo tradizionale, in nome del quale il conflitto era stato iniziato e condotto: pertanto, il modello democratico occidentale fu accettato come la sola strada praticabile per far risorgere il paese.
La nuova Costituzione dedicò molti articoli ai diritti umani, insistendo sul fatto che lo Stato doveva rispettare le libertà fondamentali dell’individuo (di stampa, di pensiero, di associazione...) e che non dovevano esserci discriminazioni di sorta tra i cittadini (per motivi di sesso, di censo o di religione). per impedire al parlamento (bicamerale) di oltrepassare i propri limiti, venne poi istituita una Corte suprema, incaricata di sorvegliare la costituzionalità delle leggi.
Tokyo 1950Infine, è importante ricordare che il testo della nuova legge fondamentale proclamava ufficialmente la

«rinuncia alla guerra»

per sempre da parte del Giappone, che in effetti, negli anni Cinquanta, ricostituì una piccola forza militare, ma scelse pure di impiegare al massimo l’1% del proprio prodotto nazionale lordo in spese destinate agli armamenti.
In principio, questa auto-limitazione parve umiliante a molti giapponesi; con il tempo, invece fu universalmente accettata, nella misura in cui essa si rivelò fondamentale ai fini della crescita economica del paese, che di fatto delegò agli StatiUniti tutte le spese per la propria sicurezza nazionale e poté investire in attività produttive tutto il capitale disponibile.


La crescita economica degli anni Cinquanta e Sessanta

Il regime d’occupazione americano si concluse nel 1952;

il 1950, invece, può essere individuato come l’inizio della grande espansione economica, che in un primo tempo trovò un eccezionale incentivo nella guerra di Corea.

Per la sua vicinanza geografica al teatro delle operazioni militari, il Giappone divenne infatti il principale fornitore di beni
e di servizi all’esercito americano impegnato nel conflitto. Una volta rimessa in moto, l’industria assunse in fretta un accelerato ritmo produttivo, tornando ai livelli degli anni Trenta già verso il 1955.
Per circa vent’anni, il tasso di sviluppo del Giappone fu straordinariamente elevato: più del 10% all’anno (con punte del 14%).

I motivi di tale successo economico furono molteplici.

In aggiunta alle esigue spese militari, va ricordato che gli StatiUniti aprirono i loro mercati alle esportazioni giapponesi, non immaginando che i prodotti nipponici sarebbero presto diventati pericolosi concorrenti dei manufatti americani.
Risultati:
Elevato tasso di scolarizzazione
Bassi salari
Scarsa conflittualità sociale
Forte tendenza al risparmio
Sostegno economico americano
Guerra di Corea
Ridottissime spese nel settore militare
Basso costo del petrolio
Situazione internazionale
Tasso di sviluppo medio del 10% tra il 1955 e il 1973
Passaggio dal 2% al 10% nella produzione mondiale globale
 

Negli anni precedenti la guerra mondiale, il Giappone aveva utilizzato in prevalenza, come
fonte d’energia, il costoso carbone delle proprie miniere; inseguito, aveva conquistato l’Indonesia per rifornirsi di petrolio, di cui il territorio nipponico è privo.

Nel dopoguerra, il problema energetico fu risolto importando petrolio dalla regione del Golfo Persico, a prezzi estremamente contenuti, utilizzando navi-cisterna sempre più capienti. Per questo motivo, e per ridurre anche i costi di trasporto delle materie prime d’importazione, la maggior parte delle nuove fabbriche fu costruita in prossimità del mare.
Il ministero del Commercio e dell’Industria internazionale si assunse il compito di regolare almeno in parte lo sviluppo economico; fu tale organismo governativo, almeno all’inizio, a prendere contatto con i paesi occidentali, a contrattare i termini dell’acquisto all’estero di nuove tecnologie e a sorvegliare che esse fossero utilizzate al meglio dalle aziende giapponesi più competitive.

Infine, bisogna ricordare la precoce diffusione di una scolarizzazione superiore di massa, che rese i giovani giapponesi particolarmente qualificati nel loro campo di attività.

Per molto tempo, la maggior parte dei lavoratori si identificò completamente nella ditta in cui era impiegata e divenne fiera dei suoi successi, atteggiamento che riduceva i motivi di conflittualità fra i dipendenti e i datori di lavoro. Oltre tutto, perfino con salari bassi i lavoratori nipponici furono ottimi risparmiatori, permettendo alle banche di disporre sempre di notevoli risorse per il credito.
Intorno alla metà degli anni Sessanta, il Giappone arrivò a costruire oltre la metà del tonnellaggio mercantile mondiale, si collocò al terzo posto nella produzione di acciaio e di motoveicoli e occupò il secondo posto nel settore elettronico.

La sua capacità produttiva aveva ormai assunto un volume quasi quadruplo di quello dell’intera Africa, doppio
di quello dell’America Latina e pari a quello del resto del continente asiatico. Su scala mondiale, era ormai divenuto la
terza potenza economica, dopo gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
I problemi degli ultimi decenni

La vertiginosa crescita economica degli anni Cinquanta e Sessanta non fu del tutto priva di problemi.
Le città giapponesi crebbero in maniera elefantiaca: Tokyo, ad esempio, già negli anni Sessanta raggiunse gli 8 milioni di abitanti. Per far fronte a un simile boom urbanistico si fece massiccio ricorso alla costruzione dei grattacieli; gli appartamenti della maggior parte della popolazione, tuttavia, finirono per assumere dimensioni sempre più piccole, a causa degli elevati costi delle abitazioni.

Per contenere le spese, molti giapponesi furono costretti a cercare casa lontano dal posto di lavoro, ma il problema dei trasporti fu solo in parte risolto dal potenziamento delle metropolitane e dalla costruzione di ferrovie ad alta velocità.  Inoltre, il problema dell’inquinamento divenne precocemente acuto.

Nel  1973, l’aumento del prezzo del greggio deciso dai paesi esportatori di petrolio ebbe in Giappone ripercussioni particolarmente forti: il tasso di crescita, infatti, dapprima scese al 5-6%, e poi si stabilizzò su un 3% annuo. L’industria giapponese, nel frattempo, modificò in parte le proprie caratteristiche, investendo capitali soprattutto in prodotti ad alta tecnologia, che richiedevano una quantità minore di materia prima e minori risorse energetiche rispetto alla tradizionale industria pesante.
Nel corso degli anni Ottanta, la crescita economica del paese avanzò ulteriormente, soprattutto a danno degli StatiUniti
Gli USA importarono a lungo prodotti giapponesi in quantità elevatissime tanto che, verso la fine del Novecento, numerosi giornalisti e studiosi avevano previsto che il Giappone, nel XXI secolo, sarebbe diventato la prima potenza economica mondiale.

Come spesso accade per le profezie, anche questa si è rivelata un’ipotesi azzardata, che non ha tenuto in sufficiente conto la forza del sistema americano e ha ampiamente sottovalutato l’emergente e dinamica economia cinese.

Inoltre, i profeti dell’imminente supremazia nipponica non avevano valutato a fondo alcuni nuovi e gravi problemi strutturali che l’economia e la società giapponese devono affrontare.
La popolazione nipponica, ad esempio, sta invecchiando rapidamente, al punto che una parte notevole e crescente delle risorse deve essere impiegata per spese assistenziali e previdenziali, su scala molto più ampia che in passato.

I giovani, dal canto loro, appaiono insofferenti verso la scadente qualità della vita che caratterizza i grandi centri urbani
giapponesi e gli elevatissimi ritmi di lavoro tipici delle imprese giapponesi.

Infine, il sistema bancario del paese ha mostrato alcuni preoccupanti segni di debolezza, fornendo ingenti prestiti a nazioni come la Corea del Sud, Taiwan o  Singapore, che dopo un periodo di espansione economica e produttiva hanno incontrato notevoli difficoltà, verso la fine degli anni Novanta, a mantenere i ritmi di crescita del decennio precedente.

Le difficoltà degli anni Settanta
La storia dello sviluppo economico giapponese nel dopoguerra può essere schematicamente divisa in due grandi fasi.

Dal 1950 al 1973, la crescita fu impetuosa e disordinata; la crisi energetica del 1973 e il brusco rialzo dei prezzi del petrolio

provocarono una riduzione del tasso di sviluppo, ma anche una razionalizzazione dell’intero sistema produttivo nipponico.


Nell’ottobre 1973 i paesi arabi e i loro alleati bloccarono le esportazioni di petrolio e la cosa mise a repentaglio l’esistenza stessa del Giappone. A differenza degli StatiUniti, il Giappone aveva risorse energetiche limitate, e utilizzava il petrolio importato non solo per i trasporti e il riscaldamento, ma anche per alimentare le sue industrie. A quel tempo il petrolio importato costituiva approssimativamente i tre quarti delle risorse energetiche totali del Giappone, e più dell’80 per cento di questo proveniva dal Golfo Persico.

Fortunatamente per il Giappone l’embargo non durò a lungo, ma il grosso delle nazioni esportatrici di petrolio, l’OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries) formarono un cartello che quadruplicò i prezzi.

E ciò colpì il Giappone più che qualsiasi altra grande potenza industriale. Mentre infatti gli StatiUniti potevano parlare ragionevolmente di autosufficienza energetica, i giapponesi furono costretti ad arrampicarsi sugli specchi per assicurarsi i rifornimenti di petrolio necessari.

Da allora il mondo non sarebbe loro mai più apparso sicuro, e i dubbi riguardo alla compatibilità di interessi con gli americani aumentarono.
Ovviamente la crisi del petrolio del 1973 ebbe dei grossi effetti negativi sull’economia giapponese, come in tutte le nazioni industrializzate.

Altri problemi avevano già costretto il governo ad affrontare un bilancio in deficit e la prima bilancia commerciale sfavorevole da vari anni, ma entrambe queste condizioni peggiorarono nettamente in conseguenza della crisi del petrolio. 
L’intera economia rallentò notevolmente e il prodotto nazionale lordo del Giappone per la prima volta dall’inizio della ripresa del dopoguerra si contrasse leggermente (0,6 per cento).

L’inflazione invece aumentò, raggiungendo per un po’ il 20 percento e più, e causando una penuria di beni di consumo, in particolare di carta igienica.

I giapponesi tuttavia riuscirono a riavere la situazione sotto controllo più rapidamente della maggior parte dei paesi industrializzati, anche se erano stati colpiti più a fondo di tutti.

Il tasso della crescita economica venne riportato a circa il 5 o 6 per cento e, dopo che una seconda crisi del petrolio fece aumentare nuovamente i prezzi nel 1979, si stabilizzò gradualmente sul 3 o 4 per cento. Erano tassi di incremento assai più bassi

degli aumenti del 10 percento dei giorni gloriosi del miracolo giapponese, ma complessivamente erano notevolmente più alti di quelli degli altri paesi industrializzati. [...]
Il rallentamento del ritmo dello sviluppo economico causato dalla crisi del petrolio portò, comunque, dei benefici. Diede ai
giapponesi un attimo di respiro per riflettere sui danni causati dalla crescita vertiginosa della loro economia. Questa crescita infatti

aveva provocato non solo un terribile affollamento urbano, ma un inquinamento senza precedenti dell’aria e dell’acqua.

All’inizio degli anni sessanta in alcune aree metropolitane l’aria era così inquinata che i vigili erano costretti a indossare maschere e vennero installate delle stazioni di ossigeno per i pedoni.

Il monte Fuji, che una volta si vedeva bene da Tokyo per la maggior parte dell’anno, si riusciva a distinguere solo in condizioni atmosferiche eccezionali, troppe volte all’anno i fiumi erano troppo sporchi per poterci pescare e alcuni tratti della costa avevano lo stesso problema.

La consumazione di pesce contaminato con il mercurio, pescato vicino a un’industria chimica a Minamata, nel Kyushu, causò il
morbo di Minamata, noto in tutto il mondo, e l’inquinamento provocò il diffondersi di varie malattie.

Le condizioni del traffico peggioravano, rendendo sempre più penoso lo spostamento dei pendolari.

La situazione delle case nelle aree urbane era gravissima, e alla fine degli anni settanta provocò un commento casuale da parte

di un inglese, che disse che i giapponesi vivevano in gabbie per conigli, cosa che offese molto l’orgoglio giapponese.
I grattacieli facevano perennemente ombra agli appartamenti e alle case private piùindustria giapponese basse, impedendo ai residenti di usufruire di ciò che essi consideravano un diritto: godere dei vantaggi del sole, particolarmente importanti per il riscaldamento in inverno e per asciugare la biancheria.

L’inquinamento acustico, come veniva chiamato dai giapponesi, prodotto dalle autostrade, dai treni ad alta velocità e dai jet affliggeva la vita di milioni di persone. I giapponesi raggrupparono tutti questi inconvenienti della vita moderna sotto il nome di kogai, che significa fastidi pubblici.
Dopo molti anni di casi giudiziari dall’esito poco  soddisfacente, tra il 1971 e il 1973 ci fu una conquista nella lotta contro l’inquinamento, poiché una serie di grossi casi giudiziari stabilirono chiaramente il principio che chi inquinava doveva pagare per il danno arrecato.

Velocemente il Giappone emanò una serie di leggi sul controllo dell’inquinamento, rigorose come quelle di qualsiasi altro paese del mondo, e nel 1975 fu l’unico paese ad avere un sistema di controllo sull’inquinamento che prevedeva sanzioni sia alle fabbriche che perfino ai privati motorizzati che avevano causato danni all’ambiente o alle persone. I risultati furono incredibili: i cieli di Tokyo e delle altre città si schiarirono di anno in anno e l’inquinamento idrico diminuì notevolmente.

A causa del sovraffollamento urbano, il problema dell’inquinamento rimase piuttosto grave, ma, in ogni caso, era avvenuto un grosso cambiamento nell’indirizzo di iniziative e investimenti, che dalla crescita industriale indiscriminata si erano spostati verso il miglioramento dei servizi sociali e il controllo dell’ambiente, in modo da elevare la qualità della vita.