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Il concetto di America Latina, benché complesso e poco unitario data la
disparità delle nazioni che ne fanno parte, non essendo né totalmente geografico
né omogeneamente culturale, permette tuttavia di inglobare in una categoria
riconosciuta e definita una regione che condivide certi elementi essenziali e un
destino comune: la propria appartenenza all' area periferica del sistema
capitalista, la prossimità e l'influenza degli Stati Uniti e le caratteristiche
storico-culturali che la fanno "essere" un terzo Occidente.
Nell'America latina la situazione economica e politica non
migliorò nel
dopoguerra, anche per l'acuirsi di problemi sociali quali l'esplosione
demografica, l'abbandono delle campagne, la conseguente formazione d'un
sottoproletariato urbano, l'arretratezza industriale e i forti squilibri tra
classi sociali. In questo clima d'instabilità politica si inserirono gli
interessi di grossi gruppi capitalistici statunitensi che intendevano continuare a
sfruttare le ricchezze naturali dei paesi sudamericani.
Nel 1956 a CUBA un gruppo di intellettuali, guidati da FIDEL CASTRO, diede il
via a un'accanita guerriglia contro la dittatura militare che da molti anni
soffocava il paese. All'appello castrista alla lotta risposero le masse
sfruttate dei contadini.
Nel giro di tre anni la rivoluzione trionfò.
Castro
avviò una radicale riforma agraria, indirizzando Cuba verso l'istituzione d'un
regime di tipo socialista.
Gli Stati Uniti, preoccupati che si turbasse
l'equilibrio dei blocchi, avversarono fin dall'inizio, anche con la forza, il
governo cubano.
Nel 1962, in effetti, l'installazione di basi missilistiche
sovietiche a Cuba parve una grave minaccia per gli Stati Uniti e persino una
violazione della tradizionale dottrina di Monroe ("l'America agli Americani").
La crisi internazionale che ne seguì rischiò di far precipitare il mondo nella
tragedia d'una nuova guerra.
L'esperienza cubana veniva esportata da uomini come Ernesto "Che" Guevara, poi
ucciso in Bolivia, in altre nazioni dell'America latina, dove vennero
organizzati importanti movimenti rivoluzionari e focolai di guerriglia, i quali
tuttavia non hanno portato al rovesciamento delle dittature militari quasi
ovunque imperanti nel sub-continente americano e che si sono estese anche a
paesi in precedenza retti da governi democratici, come il Cile, dove nel 1973 fu
rovesciato con la forza il governo di Unità Popolare di Salvador Allende.
Tra il dopoguerra e gli anni Settanta a livello politico, quell'evoluzione che l'inizio del secondo
dopoguerra in America Latina aveva preparato un passaggio verso regimi di tipo democratico,
sfumò a causa
dell'inasprimento provocato dalla guerra fredda, nel cui contesto gli Stati
Uniti adottarono nuove strategie rispetto all' America Latina stessa. La
dottrina della difesa globale permise l'interventismo nordamericano sin dagli
inizi del conflitto bipolare, stravolgendo così le aspettative create nel
dopoguerra riguardo i progressi democratici nella regione.
Mentre l' OEA fu uno
dei pilastri fondamentali sui quali si resse il concetto di sicurezza globale
preconizzata dagli Stati Uniti, un altro dei nuclei di detta concezione
strategica e politica fu la costituzione del Trattato interamericano di
assistenza reciproca nel 1947.
Gli Stati Uniti prevennero così una possibile
evoluzione dell'America Latina verso il socialismo, timore acutizzato dalla
rivoluzione cubana e dal suo possibile contagio al resto delle nazioni
dell'emisfero.
Per questo motivo, nel 1954 gli Stati Uniti invasero il
Guatemala
e rovesciarono il governo radical-nazionalista di Jacobo Arbenz Guzmàn, che
aveva dato ordine di espropriare e nazionalizzare la United Fruit Company, una
compagnia statunitense che controllava gran parte del terreno agricolo
guatemalteco.
Arbenz aveva proseguito la riforma agraria già iniziata, e tale
riforma scatenò il conflitto con la United Fruit, le cui proteste verso il
governo guatemalteco furono appoggiate dagli USA. Di conseguenza, la X
Conferencia Internacional de Estados Americanos emanò la Declaraciòn de Caracas,
che firmarono tutti gli stati eccetto il Guatemala. Con questa dichiarazione si
cercava di legittimare l'intervento statunitense in Guatemala; si dichiarò che la
trasformazione comunista delle istituzioni di uno stato latinoamericano avrebbe
implicato una minaccia per la pace dell'America nel suo insieme.
Il governo
dittatoriale instaurato nel 1954 perpetrò gravi violazioni ai diritti umani, tra
cui: la soppressione delle garanzie costituzionali, l'incarcerazione e la
tortura, la destituzione di funzionari statali, la repressione delle
organizzazioni contadine e operaie e dei partiti politici dell'opposizione.
Decine di persone contrarie al regime del generale Carlos Castillo Armas furono
costrette all'esilio.
Sempre nel 1954, all'interno del concetto di sicurezza
globale di cui sopra, avvenne in Paraguay il colpo di stato di Alfredo Stroessner, il cui governo generò gravi violazioni dei diritti umani durante la
sua lunga dittatura (1954-1989).
Solo dopo molti anni di convulsione politica e
di lotte civili, nel 1950 si era arrivati alla pacificazione del paese. Ma
l'intesa tra l'Argentina di Juan Peròn e il governo paraguaiano di Federico Chaves non fu vista di buon occhio dagli Stati Uniti. Questo favorì il colpo di
stato capeggiato da Stroessner; la dittatura paraguaiana aumentò i livelli di
ingiustizia sociale e accrebbe smisuratamente il debito estero, permettendo una
maggiore influenza dei creditori stranieri sul paese.
Colombia - Con il nome di El Bogotazo
si ricorda una rivolta sociale di particolare gravità in Colombia, nel 1948,
dove ci furono centinaia di morti oltre a incendi e saccheggi in città. Si aprì
allora un periodo di violenza che si trasformò in un aspetto strutturale
caratteristico del paese.
Tra il 1950 e il 1953, il governo di ispirazione franchista capeggiato da
Laureano Gòmez perpetrò in Colombia gravi violazioni ai diritti umani, con
sequestri e fucilazioni di massa, e ricorrendo allo stato d'assedio come pratica
abituale; il paese si preparò così a uno scontro che sarebbe durato anni,
causando decine di migliaia di morti.
Nel frattempo in
Bolivia si era propiziata
la tendenza democratica, ma nel 1964 Paz Estenssoro pose fine a ciò e inaugurò
un periodo di repressione. In questo periodo in Bolivia era presente la
guerriglia di Ernesto Che Guevara, che voleva estendere la rivoluzione a livello
continentale, ma venne assassinato nel 1967. La dittatura di Fulgencio Batista,
iniziata nel 1952, aveva scatenato un movimento di opposizione
rivoluzionaria(guidato da Fidel Castro) che culminerà con il suo trionfo nel
1959. Molti sostenitori della dittatura furono giustiziati dai rivoluzionari nel
1959, senza un regolare processo. Nel 1961 si dichiarò il carattere socialista
della rivoluzione cubana e si strinsero vincoli con l'Unione Sovietica. A
partire dalla rivoluzione cubana e dallo scontro con la dottrina statunitense,
gli USA lanciarono la proposta dell'Alleanza per il Progresso, cercando di
contrastare, mediante politiche basate sullo sviluppo, i pericoli dell'avanzata
del comunismo dell'emisfero. Diversi paesi dell' America Latina subiscono colpi
di stato di tipo preventivo il cui obiettivo è evitare l'estendersi della
rivoluzione comunista. Tra gli anni Trenta e i Cinquanta, la scena politica in
Brasile è dominata dai governi populisti di Getùlio Vargas. Durante il varghismo
venne incarcerata l'opposizione e fu praticata la tortura. Con l'elezione di
Janio Quadros la crisi economica precipitò, accompagnata dalla crescente
inquietudine popolare di fronte all'assenza di riforme. Quadros abdicò e il
vicepresidente, Joao Goulart, si fece carico del governo, oscillando tra la
difesa dei lavoratori, che lo appoggiavano, e la necessità di contenere
l'inflazione, all'interno di una grave perdita di controllo dell'economia. Le
forze conservatrici risposero con un colpo di stato appoggiato dagli USA, nell'
Aprile del 1964, che inaugurò una dittatura militare per i successivi 21 anni.
Migliaia di persone vennero torturate, incarcerate, obbligate a rifugiarsi
all'estero, licenziate, represse nei propri diritti. Gli Squadroni della Morte,
organizzazioni paramilitari già presenti nel decennio precedente, operarono
eliminando gli oppositori politici.
L'Argentina fu un altro dei paesi latinoamericani in cui si susseguirono colpi
di stato nel corso degli anni Sessanta. Il modello di militarismo instaurato in
Argentina e in Brasile in questi anni corrisponde ad un tipo militarista
permanente che permetterà di includere questi paesi nella categoria delle
"repubbliche pretoriane".
E' possibile distinguere quattro tipi di regimi
militari negli anni Sessanta e Settanta in America Latina: in primo luogo vi
sono i regimi "patrimoniali familiari", in secondo le dittature
"riformiste", in terzo i regimi "democratici per lo sviluppo" ed infine in
quarto luogo i regimi "terroristi e neoliberali".
Nei due decenni che vanno dagli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta, in
molti Paesi latinoamericani si sono registrate svolte autoritarie
concretizzatesi in colpi di stato guidati dai militari. Lo scopo era quello di
abbattere i regimi democratici che in questa sfera del nuovo continente hanno
sempre stentato a consolidarsi. L’eco della rivoluzione cubana, che a partire
dal 1959 instaura nell’isola caraibica un regime che legherà la sua
sopravvivenza, in epoca di guerra fredda, all’alleanza con l’Unione Sovietica,
era destinato ad avere un seguito in tutto il continente latinoamericano dove
invece gli Stati Uniti d’America, per motivazioni strategiche e geopolitiche,
non intendevano far sviluppare gli ideali promossi dalla rivoluzione. Le
dittature militari di questi anni, quindi, sono caratterizzate dalla paura che
in alcuni Paesi possano prevalere regimi politicamente ostili agli Stati Uniti.
La politica degli Stati Uniti riguardo alle altre Nazioni americane, agli inizi
del XX° secolo, si fondava sulla dottrina di Monroe e sul “corollario” che il
Presidente Theodore Roosevelt aveva formulato nel 1904 secondo il quale
Washington ammetteva l’intervento negli affari delle Repubbliche americane.
Progressivamente gli americani abbandonarono il “corollario” Roosevelt ed il
metodo dell’intervento militare, iniziando così a stemperare questa politica ma
senza tuttavia rinunciare mai al diritto di intervento. Questo atteggiamento,
che sembrava in qualche modo annunciare la politica di buon vicinato che
Roosevelt inaugurerà nel 1933, si manifestò nelle riunioni delle conferenze
panamericane e negli sforzi americani per mettere fine ai conflitti tra i Paesi
dell’America del Sud. Il dopoguerra, tuttavia, portò ad un raffreddamento tra i
Paesi latinoamericani e gli Stati Uniti. Sul piano economico, infatti, il
programma Marshall aveva provocato lo scontento di numerose Repubbliche di
questa regione in quanto gli aiuti governativi degli Stati Uniti erano in
effetti limitati e gli investimenti principali in questi Paesi provenivano
solamente da capitali privati.
Tra tutti gli Stati sudamericani, l’Argentina fu quello che intrattenne i
rapporti meno buoni con gli Stati Uniti. Durante la guerra, grazie alla presenza
di numerosi immigrati tedeschi, le organizzazioni naziste furono molto attive in
Argentina e la Germania vi investì importanti capitali. Sebbene all’inizio si
rifiutasse di rompere le relazioni diplomatiche ed economiche con l’Asse, il 27
marzo 1945, a guerra praticamente già finita, l’Argentina si decise finalmente a
dichiarare guerra alla Germania e al Giappone, senza dubbio per essere ammessa
alle Nazioni Unite e regolarizzare di conseguenza i suoi rapporti con
l’Inghilterra e gli Stati Uniti.
Riprese le relazioni diplomatiche fra i due paesi, Spruille Braden, nominato
ambasciatore Usa a Buenos Aires, ingaggiò una lotta accanita contro il governo
argentino rimproverandogli la sua mansuetudine verso l’Asse e il suo carattere
dittatoriale: lo scopo era quello di rendere impopolare il colonnello Perón e di
impedirgli di essere eletto alla Presidenza della Repubblica. Invece Perón fu
eletto presidente il 24 febbraio 1946, e fece mostra di avvicinarsi all’Urss, ma
questa politica non durò molto e il 2 agosto il generale dichiarò che
l’Argentina sarebbe stata sempre nel campo degli Stati Uniti precisando che “il
comunismo è un grande pericolo che minaccia tutte le democrazie occidentali”. I
rapporti tra i due Paesi americani migliorarono ma senza divenire mai realmente
buoni.
Sebbene in piena guerra fredda l’America Latina fosse stata dichiarata zona di
influenza degli Stati Uniti, ciò non si tradusse subito in un maggior dominio,
grazie anche al rafforzamento del meccanismo panamericano, il quale tuttavia non
valse ad impedire che l’America latina diventasse campo di infiltrazione della
propaganda o degli interessi commerciali europei. Così, dopo la fase costruttiva
degli anni del buon vicinato, sotto la superficie di una crescente
collaborazione, si formavano le crepe di un nuovo e più profondo dissenso. La
guerra aveva accelerato il cambiamento socio-economico dell’America Latina e
l’impegno finanziario degli Stati Uniti e le relazioni tra le due Americhe non
potevano che risentire sia dello spostamento del fulcro degli interessi degli
stessi Stati Uniti sia del crescente peso che la superpotenza americana
esercitava nel mondo.
I rapporti con l’Argentina non furono segnati dal problema del comunismo ma dal
proseguire della rivalità già esistente prima e dopo la seconda guerra mondiale.
La diffusa ostilità verso gli Stati Uniti, che si era attenuata durante la fase
della politica di buon vicinato, era ricomparsa massicciamente nel dopoguerra.
L’esempio argentino divenne ben presto contagioso ma incominciò a preoccupare
gli Stai Uniti solo allorchè apparvero in esso venature filosovietiche o
filocomuniste.
Fu solo a partire dagli anni Sessanta che l’America latina venne investita dalla
competizione Usa-Urss. La crisi di Cuba nel 1962 e l’affermazione del suo leader
Fidel Castro, imposero al governo di Washington di riconsiderare la sua
strategia latinoamericana e, in secondo luogo, mostrava che l’America Latina
attraversava fasi di tensione socio-economiche che potevano spalancare le porte
al ripetersi di casi uguali a quello cubano; questa situazione portò quindi una
politica di sorveglianza che oltrepassava la soglia dell’attenzione generica con
forme di intervento più diretto. La percezione del mutamento in atto era stata
chiaramente mostrata dall’allora Presidente Kennedy con questa frase: “Pur di
evitare infiltrazioni comuniste, anche i regimi dittatoriali devono essere
tollerati e aiutati” e con l’avvio dell’Alleanza per il progresso nel 1961.
All’inizio degli anni Settanta la svolta generale verso la formazione di governi
militari venne accolta senza turbamenti da parte dell’amministrazione Nixon, se
non altro perché buona parte degli ufficiali che li sostenevano erano stati
formati in accademie degli Stati Uniti. Nel corso di questi anni, dunque, i
governi democratici di molti paesi latinoamericani vengono progressivamente
abbattuti per essere sostituiti da regimi militari dittatoriali. L’esilio, la
prigione, la tortura, le esecuzioni, diventano in questa fase un fenomeno di
massa, armi di repressione sistematicamente usate dai militari per eliminare
dissidenti, oppositori politici o presunti tali.
Nelle nazioni in cui si
instaurano tali regimi ha inizio una vera e propria “guerra interna” contro il
“nemico interno” che provoca numerose vittime e ripetute violazioni dei diritti
umani. Negli anni Sessanta e Settanta, il concetto di “nemico interno” venne
adottato in America Latina dai vertici militari delle dittature golpiste in
funzione “difensiva”, anticomunista e antisovversiva in generale.
In un clima di Guerra Fredda e di scontro tra Est ed Ovest, l’idea alla base è
quella per cui si considera che il pericolo per uno Stato non provenga più tanto
da minacce esterne, che possono quindi minare le frontiere geografiche della
nazione, bensì da minacce interne, dai “sovversivi”, che possono minacciare le
“frontiere ideologiche” dello Stato. In sintesi, in nome dell’anticomunismo e
per paura che gruppi e partiti d’ispirazione marxista, presenti negli Stati
latinoamericani, potessero destabilizzare o minacciare gli interessi economici e
geopolitici, gli Stati Uniti iniziano a promuovere e finanziare colpi di stato e
repressioni in diversi paesi del Sud America. Posto in questi termini però il
discorso risulta riduttivo e, come spesso si è fatto, si rimanda a fattori
unicamente esterni la complicata analisi legata alle dittature militari degli
anni Sessanta e Settanta. Infatti va ricordato che in molti Paesi
latinoamericani l’intervento diretto e indiretto dell’esercito nella politica e
nell’amministrazione dello Stato è una pratica consolidata sin dai processi di
indipendenza dal regno iberico avvenuti durante la prima metà dell’Ottocento .
Nel corso degli anni Settanta, quindi, i regimi militari prendono
progressivamente il potere in tutto il Cono Sud del continente latinoamericano,
anche in quei Paesi con consolidate tradizioni democratiche quali il Cile e
l’Uruguay, mentre in altri paesi come Brasile, Paraguay, Argentina e, più in
generale, nelle Repubbliche centroamericane, l’esercito, che a più riprese
interviene nella vita politica dello stato, inaugurerà una nuova stagione di
colpi di stato militari che si differenzieranno notevolmente dai precedenti
soprattutto per l’intensità e la brutalità dei metodi repressivi.
Particolarmente complicato risulta analizzare le ragioni per cui anche in
Argentina nel 1976 i militari si impossessarono, attraverso un colpo di stato,
del potere politico. Per spiegarlo occorre immediatamente dire che l’Argentina,
a differenza del Cile e dell’Uruguay, nel corso della sua storia politica ha
assistito a numerosi colpi di stato, tanto che questa pratica sembra quasi
acquisita all’interno del normale alternarsi dei governi del paese. La lunga
notte dei “golpe”, dittature e contraccolpi armati in Argentina, inizia nel 1930
e termina veramente solo nel 1983. In più di cinquanta anni di storia solo due
presidenti
riescono a giungere alla fine del loro mandato di governo, che la
Costituzione argentina fissa in sei anni, e non è un caso che siano entrambi ex
generali dell’esercito in congedo. Ogni dieci anni, infatti, il paese vede
alternarsi un golpe militare. Il 6 settembre 1930 il generale José Félix Uriburu
prende il potere deponendo il presidente Hipólito Yrigoyen. Da questo momento
fino al 1940 i militari di fatto sono l’ago della bilancia della politica
argentina, nessun Presidente di nessun partito può governare la nazione senza il
loro consenso. Nel giugno del 1943, mentre i politici dei vari partiti sono
divisi tra interventisti e chi invece preferisce tenere fuori l’Argentina dal
secondo conflitto mondiale, i militari escono dalle caserme per prendere
nuovamente le redini del potere politico. Perón arriva al potere con
l’intenzione di fare dell’Argentina una nazione “economicamente libera,
politicamente sovrana e socialmente giusta”.
Per capire un po’ meglio questo movimento sociale e politico, il “peronismo”,
che prende nome dal suo leader carismatico a cui ancora oggi nell’Argentina
contemporanea partiti, leader politici e presidenti si rifanno, è utile
ricordare che, come movimento politico, non dà solo voce e protagonismo a strati
sociali fino a quel momento invisibili e silenziosi. Con la sua particolare
struttura argomentativa il messaggio peronista compie infatti una doppia
operazione: mentre innalza le masse allo status di soggetto di cittadinanza
politica, rafforza i tratti carismatici di un leader che appare come
l’enunciatore di una proposta di giustizia sociale unificatrice di entità quali
la Nazione, il Popolo, la Patria. Inoltre l’avvio del fenomeno peronista
significò il superamento di vecchie differenze e contrapposizioni, giacchè a
partire da Perón l’accettazione o il rifiuto della sua leadership divennero
elementi di definizione politica. Perón si trasformò quindi nell’incarnazione
dell’identità argentina, era riuscito a recuperare l’Argentina dalle mani degli
stranieri vendicando anche il vecchio senso di umiliazione nei confronti
dell’Europa e degli Stati Uniti.
L’Argentina resta sotto i controllo di Perón fino al 1955. A settembre di questo
anno le forze armate, con un colpo di stato, lo allontanano dalla presidenza. Il
generale Eduardo Lonardi diventa Presidente provvisorio dichiarando l’avvento di
una revolución libertadora che non avrà “né vincitori né vinti”. Ha inizio, da
questo momento in poi, un periodo in cui i peronisti saranno esclusi dalla vita
politica del paese, un periodo in cui i governi che si avvicendano cercheranno
sistematicamente di smantellare il modello politico costruito nel decennio
precedente. Appare chiaro come la vita politica di un Paese, in cui si assiste
all’esclusione di una consistente forza politica e sociale come il peronismo,
non possa procedere verso la stabilità e l’equilibrio democratico. Negli anni in
cui Perón è costretto all’esilio (1955-1973) l’Argentina è infatti percorsa da
continue tensioni sociali che vedono contrapporsi due parti in cui da un lato
operano i settori popolari che si identificano con il peronismo e che sono
spesso costretti ad esercitare la loro pressione in maniera extra-istituzionale,
e dall’altro quei settori che intendono ricostruire le libertà e il pluralismo.
Questo “dualismo” costringe l’Argentina ad una lacerazione interna dovuta alla
polarizzazione tra settori popolari e fronte antiperonista. Il nazionalismo
restauratore continuava a influenzare ideologicamente i diversi governi
militari: questi accoglievano con soddisfazione l’eredità totalizzante ed
escludente che dalla fine dell’Ottocento serviva a definire l’identità e si
proponevano come i depositari assoluti dell’argentinità e gli artefici della
salvezza della nazione.
Furono questi i principi con i quali il golpe del 1976, comandato dal generale Rafaél Videla, insediò nel paese la dittatura più sanguinosa della storia
argentina. Tre anni prima, l’11 Settembre 1973, un altro generale, Augusto
Pinochet, rovesciava in Cile il regime democratico socialista di Salvador
Allende, instaurando il terrore nel Paese. Videla e Pinochet sono stati in
seguito processati e condannati per crimini contro l’umanità.
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