Morte = Fine?

Perché in tutte le cose c'è un inizio e una fine? E soprattutto perché la fine ha sempre una strana somiglianza con l'inizio?

La morte ha qualcosa di paradossale: pur essendo uno dei momenti più significativi nella vita di una persona, perché la conclude e perché intorno ad essa il pensiero ha elaborato riflessioni e rappresentazioni a non finire, non è traducibile in alcuna esperienza.

Ai fini di un'esperienza di vita è, in tal senso, molto più importante il dolore, anche perché di questo noi possiamo conservare un ricordo, che poi può servirci per sopportare meglio il dolore la volta successiva.

Il dolore ci fortifica, la morte ci distrugge o, se vogliamo, ci libera dal peso di un dolore insopportabile, vero o immaginario che sia, sempre che la morte sia per così dire "naturale" e non ci colga di sorpresa.

Noi possiamo avere esperienza solo della morte altrui, che ci addolora in misura proporzionale ai sentimenti provati per quella persona in vita.

Il motivo per cui non riusciamo ad accettare la morte è dovuto al fatto che per istinto rifiutiamo l'idea che ci venga a mancare una persona amata. Altri motivi sono più astratti: ci chiediamo p.es. che senso abbia la morte di un bambino o la morte di un adulto che dalla vita non ha ottenuto che dolori.

Se la morte di un essere umano fosse qualcosa di assolutamente sconvolgente, le sue conseguenze sarebbero irreparabili. Invece la vita continua. Questa stessa espressione generica "la vita continua" la intendiamo in riferimento a quella terrestre; in realtà dovremmo intenderla in riferimento alla vita in generale, quella, per intendersi, dell'universo, di cui la terra è parte e di cui, in fondo, gli esseri umani sanno ancora molto poco.

 La vita continua è un'espressione metafisica, che va al di là dell'apparenza. La vita continua "per tutti" - così andrebbe interpretata. Cioè la vita è un concetto che include la morte e che caratterizza l'intero universo. La morte, dunque, è solo trasformazione.

La morte fa parte della vita, nel senso che ne è un aspetto fondamentale, imprescindibile. La morte dà addirittura significato alla vita, poiché una vita senza morte non sarebbe umana o terrestre, non apparterrebbe neppure all'universo.

Nell'universo infatti tutto ha un inizio e una fine. Combattere la morte o ritardarla artificialmente significa andare contro la vita, e quindi vivere nell'illusione, al di fuori della realtà. Voler vivere a tutti i costi è non meno innaturale che voler morire a tutti i costi. Voler vivere da eroi è non meno alienante che voler morire da martiri.

 La vita e la morte sono aspetti naturali che andrebbero vissuti in maniera naturale, secondo le leggi della natura. E nella natura la morte, in realtà, non esiste se non come forma di passaggio. La morte è l'anticamera di una nuova vita. Tutto è trasformazione. Vita e morte fanno parte di un immane processo di trasformazione, di cui noi non vediamo né l'inizio né la fine.

La consapevolezza di questo dovrebbe portarci a relativizzare le questioni personali, i limiti soggettivi. Ognuno di noi fa parte di una specie particolare e al tempo stesso universale: il genere umano.

Ciò che conta in realtà non è né la vita né la morte, ma la dignità dell'essere umano, l'essenza della sua umanità. Vita e morte coincidono quando è in gioco la difesa del valore del senso di umanità. Aver paura della morte, quando è in gioco questo valore, significa non saperlo vivere con coerenza, sino in fondo.

L'unica cosa di cui bisogna aver paura è proprio questa incapacità a essere naturali, a vivere con naturalezza la propria umanità.

Tra vita e morte, dal punto di vista fisico, non c'è alcuna differenza: la morte non è che la modalità del passaggio da una forma di vita a un'altra.

 

La novità della vita eterna dopo la morte
Nel mondo pagano era normale considerare il futuro come una semplice ripetizione del passato. Il cosmo esisteva da sempre e, pur con grandi mutazioni cicliche, sarebbe durato per sempre. Secondo il mito dell’eterno ritorno, tutto ciò che ha avuto luogo prima, sarebbe riapparso nel futuro.

In questo contesto antropologico-religioso, l’uomo poteva salvarsi solo sfuggendo alla materia, in una specie di estasi spirituale separato dalla carne; o vivendo in questo mondo, come diceva S. Paolo, senza meta né speranza. Nei primi secoli del Cristianesimo i pagani seguono un’etica più o meno retta; credono in Dio o negli dei e rendono loro un culto frequente, in cerca di protezione o consolazione; ma manca loro la speranza certa di un futuro felice. La morte era soltanto un baratro, qualcosa senza senso.
D’altra parte la volontà di vivere per sempre è profonda nell’uomo, come mostravano già allora i filosofi, i letterati, gli artisti, i poeti e, in modo particolare, gli innamorati. L’uomo ha brama di infinito e tale desiderio si manifesta in diversi modi: nei progetti, nel desiderio di avere figli, nell’aspirazione di influire sulla vita delle altre persone, di essere riconosciuto e ricordato; in tutto questo si può indovinare il desiderio umano di eternità. C’è chi pensa all’immortalità dell’anima; ma c’è chi intende l’immortalità come reincarnazione; c’è, infine, chi di fronte al fatto certo della morte decide di impegnarsi al massimo per ottenere il benessere materiale o il riconoscimento sociale: beni che non saranno mai sufficienti, perché non saziano e non dipendono solo dalla propria volontà.

In questo il cristiano è realista, perché sa che la morte è la fine di tutti i sogni vani dell’uomo.
Nel dilemma tra la morte e l’immortalità, il cristiano ha la certezza che Dio gli ha dato la vita creandolo a sua immagine e somiglianza.

Sa che quando prova l’angoscia della morte che si avvicina, Cristo agisce in lui, trasformando le sue pene e la sua morte in forza corredentrice.

Ed è sicuro che lo stesso Gesù, che ha servito, imitato e amato, lo riceverà in Cielo, colmandolo di gloria dopo la sua morte. La grande e gioiosa verità della fede cristiana è che, per la fede in Cristo, l’uomo può con certezza vincere l’ultimo nemico la morte, aprendosi alla visione perpetua di Dio e alla risurrezione del corpo alla fine dei tempi, quando tutte le cose si saranno compiute in Cristo.
La vita non termina qui; siamo sicuri che il sacrificio nascosto e la donazione generosa hanno un senso e un premio che, per la magnanima misericordia di Dio, vanno ben oltre quello che l’uomo potrebbe sperare con le sue sole forze. “Se qualche volta ti inquieta il pensiero di nostra sorella morte, perché ti vedi così piccola cosa, fatti animo e considera: che cosa sarà il Cielo che ci attende, quando tutta la bellezza e la grandezza, tutta la felicità e l’Amore infiniti di Dio si riverseranno nel povero vaso d’argilla che è la creatura umana, per saziarla eternamente, sempre con la novità di una felicità nuova?“ (San Josemaría).

Nel tempo presente
Benché sia certo che la novità cristiana si riferisce principalmente all’altra vita, all’aldilà, la Chiesa insegna che la novità della Risurrezione di Cristo è già presente, in qualche modo, sulla terra. Per quanto l’universo possa durare così come lo conosciamo, siamo già “negli ultimi tempi”, sicuri che il mondo è stato redento, perché Cristo ha sconfitto il peccato, la morte, il demonio.
Il regno di Dio è in mezzo a voi; in mezzo non solo come una presenza esterna, ma anche dentro al credente, nell’anima in grazia, con una presenza reale, attuale, efficace, anche se non ancora del tutto visibile e completa.
Il cristiano vive unito a Dio e per Dio e si sforza per comunicare i beni divini agli altri. Nella vita futura, la grazia, o vita soprannaturale, si trasformerà in gloria e l’uomo raggiungerà un’immortalità completa nella risurrezione dai morti. Nella vita presente, invece, anche se perfezionata dalla grazia, l’esistenza umana possiede una propria autonomia, che si deve applicare ai diversi ambiti: personale, famigliare, sociale e politico. La vita soprannaturale accoglie, perfeziona e porta a pienezza la natura, senza annullarla né sostituirla.
Questa tensione si manifesta pure nella nozione cristiana del tempo e della storia. Per il pensiero pagano quasi sempre fatalista, gli eventi della storia erano previsti e determinati in anticipo dal fatum, dal destino. Il tempo trascorreva intoccabile e imperterrito, spettatore muto e passivo, e abbracciava il corso della storia. Ma il tempo cristiano non è solo tempo che passa, è spazio creato da Dio per una crescita e un progresso, per la storia e la redenzione. Dio agisce con la sua Provvidenza nel tempo, per portare il mondo e la storia alla loro pienezza.
Il Signore ha voluto contare sulla risposta intelligente e libera degli uomini, sulle preghiere dei santi e le buone azioni di molti, per influire sul corso degli eventi. Poiché sono immagine di Dio, le creature umane possono cambiare la storia; alcune volte in peggio, come è accaduto con il peccato di Adamo ed Eva; ma soprattutto in modo positivo, partecipando attivamente alla realizzazione del disegno divino, proprio perché l’evento più rilevante ed efficace, quello che ha dato alla storia del mondo il cambio più radicale, è stato l’Incarnazione del Figlio di Dio. E la collaborazione umana più profonda e duratura ai piani divini per cambiare il corso della storia è stata portata a termine dalla Madonna, quando accolse con il fiat il Figlio di Dio nel suo seno.
Per questo il Signore invita alla piena fiducia: Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.