Fino alla metà del secolo
XIII° l'Italia
settentrionale e centrale può dirsi ancora "il paese dei liberi Comuni": anche
attraverso i progressivi cambiamenti della loro costituzione, i Comuni sono
rimasti, nella loro struttura repubblicana, sostanzialmente intatti.
Dopo
il 1250 si manifesta una generale tendenza verso forme, più o meno larvate, di
governo personale e assolutistico, tendenza che si protrae per i due secoli XIV
e XV e trasforma a poco a poco l'Italia settentrionale e centrale, in un paese
dapprima di grandi e piccole Signorie, e più tardi di vasti e potenti
Principati.
Il
sorgere delle Signorie -
La
maggiore debolezza della vita comunale nel medioevo è dovuta alla mancanza di
tranquillità interna, conseguenza inevitabile delle competizioni tra le parti
sociali per la conquista del potere. Nel secolo XIII vediamo infatti i maggiori
Comuni italiani, benché fiorenti di attività e di ricchezze, travagliati da
continue discordie tra nobili e borghesi, tra famiglia e famiglia, tra popolo
grasso e plebe, tanto che la normale vita cittadina è continuamente turbata da
sconvolgimenti. Ad ogni vago allarme suonano a stormo le campane; da ogni parte
arriva gente, si viene alle armi per le strade e le piazze, si corre alle case
dei nemici, si assalta, si devasta, s'incendia.
Tutti
sentono la mancanza di un governo forte, che al di sopra delle competizioni di
classe, sappia dare alla città una pace duratura col rispetto delle leggi e con
la forza delle armi. Così la democrazia comunale, che è già arrivata allo
sfacelo, lascia libero il campo al dominio di uno solo; al Comune si sostituisce
a poco a poco la Signoria.
Siccome nella vita comunale molte e varie sono le occasioni per un uomo energico
di afferrare il potere, così il trapasso dal Comune alla Signoria avviene in
modi diversi.
Si
tratta talvolta di un Podestà, di un Capitano del popolo, stimato per la sua
saggezza o temuto per la sua forza, che dagli stessi cittadini si vede
annualmente rinnovare i poteri. Altre volte è il capo di un partito, il quale
nel giorno della vittoria della sua parte caccia gli avversari dalla città e ne
diventa il padrone.
A
volte il potere è preso mediante colpo di stato, altre volte mediante la
paziente opera di un ricco mercante che, conquistandosi le clientele, raggiunge
senza clamori il potere supremo.
Nel periodo iniziale la Signoria lascia intatte le forme dell'ordinamento
comunale, perché essa vuole apparire come rappresentante legittima dell'intera
cittadinanza. Ma col passare del tempo il signore tende ad accentrare nelle sue
mani i maggiori affari dello Stato e riduce le cariche tradizionali del Comune a
semplici mansioni decorative, che distribuisce agli amici, legandoli alla sua
fortuna. Quasi sempre poi si adopera abilmente per preparare ai propri figliuoli
la successione nella Signoria, creando in tal modo una stabile dinastia con
diritti ereditari.
Tra
il XIII e il XIV secolo sorgono così nei principali Comuni d'Italia le Signorie,
parecchie delle quali daranno alle città uno splendore nuovo.
Ricorderemo i Della Torre e i Visconti a Milano, i Della Scala a Verona, i Da
Carrara a Padova, i Da Camino a Treviso, gli Estensi a Ferrara, i Da Polenta a
Ravenna, i Bonacolsi e i Gonzaga a Mantova, gli Scotti a Piacenza, i Da
Correggio a Parma, i Pepoli a Bologna, i Manfredi a Faenza, gli Ordelaffi a
Forlì, i Malatesta a Rimini, i Da Varano a Camerino.
Il
trapasso dalla Signoria al Principato -
Caduto il regime comunale, il signore si sente più libero e comincia ad agire
senza preoccuparsi del volere della cittadinanza, della quale si considerava
dapprima il rappresentante. Il signore cerca una base legale al proprio potere e
ricorre perciò a colui che, in teoria, é la fonte unica dell'autorità, cioé
l'imperatore. Da esso ottiene con omaggi e con doni il riconoscimento ufficiale
della propria Signoria e il titolo di conte o di duca, titolo che è la prova
tangibile di una investitura imperiale. La Signoria non ha allora più nulla che
la leghi al vecchio Comune, e diviene un Principato, con diritto ereditario.
Così sorgono in Italia i Ducati di Milano, di Ferrara, di Mantova e, più tardi,
di Firenze: essi sono veri Stati secondo il significato moderno della parola;
come Stati hanno un completo ordinamento amministrativo e finanziario, una loro
politica di espansione, un loro armamento.
La trasformazione dell'ordinamento militare: dall'esercito comunale alle
"Compagnie di ventura" -
Come
il feudalesimo aveva creato un suo speciale ordinamento militare, di cui la
cavalleria feudale rappresentava il fulcro, così il Comune aveva istituito un
proprio esercito, del quale la parte più numerosa era composta dagli stessi
cittadini, tumultuariamente armati e ordinati. L'esercito comunale aveva avuto
il suo periodo aureo nel secolo XII: la vittoria di Legnano (1176) poteva dirsi
il più glorioso dei suoi fasti. Ma già sessanta anni dopo, nella sconfitta di
Cortenuova (1237), esso rivelava i sintomi di una decadenza, le cui origini sono
da ricercarsi nelle vicende stesse della vita comunale. È noto infatti che nei
maggiori Comuni la lunga lotta tra la nobiltà e la borghesia si concluse, al
declinare del secolo XIII, con la sconfitta o con l'espulsione o con il disarmo
della nobiltà. Questo fatto ebbe sull'efficienza dell'esercito comunale una
ripercussione immediata.
I
nobili erano i soli che nel Comune avessero pratica d'armi e di guerra; essi
nell'esercito comunale erano gli ufficiali, addestravano e dirigevano il popolo
in armi. Scomparsi o esautorati i nobili, l'esercito cittadino fu una folla
senza capi autorevoli ed esperti, un'armata senza efficienza militare. Della sua
debolezza profittò allora la Signoria per imporsi con pochi armati a tutta la
cittadinanza. Quando poi la Signoria si fu trasformata in una istituzione
dispotica, a carattere ereditario, l'esercito comunale perdette lo scopo della
sua esistenza. Sorto per la difesa della libertà cittadina non
poté
adattarsi a servire gli interessi di un solo: non era questo il suo compito.
Una forza militare era necessaria: il signore cominciò ad assoldare mercenari,
retribuiti coi denari del Comune, ma che comandava personalmente, legandoli a sé
con donativi o col miraggio di laute razzie in territorio nemico. Più la
Signoria accentuava il suo carattere dispotico e dinastico, e più l'esercito
mercenario s'ingrandiva e si distaccava dalla cittadinanza. E allora il signore
poteva servirsi di questa milizia anche contro i vecchi istituti cittadini che
si opponevano al suo potere personale. Così dalla fine del secolo XIII si venne
formando la milizia mercenaria, la quale concepì l'esercito come mestiere, tanto
più appetibile, quanto meglio compensato.
Le Compagnie di ventura e i più famosi
Condottieri -
Divenuto lucroso il mestiere di soldato, sorsero presto capitani, i quali,
raccogliendo gente atta alle armi, con essa costituirono piccoli eserciti, che
si dissero Compagnie di ventura, perché combattevano dovunque se ne offrisse
l'occasione. Di questi capitani di ventura (detti anche "Condottieri" perché
andavano in condotta, cioé erano assoldati) non pochi furono valorosi, risoluti
nell'azione, ottimi conoscitori dell'animo del soldato, geniali tattici e
strateghi.
Le prime Compagnie di ventura furono composte di stranieri (svizzeri e tedeschi
in maggioranza), i quali diffusero intorno il terrore con l'aspetto feroce, la
violenza dei modi, il disprezzo della pietà. Famosa fu la Gran Compagnia,
composta quasi tutta di Tedeschi, e condotta dal duca Guarnieri di Urslingen:
costui si faceva chiamare "nemico di Dio, di pietà, di misericordia".
Di Bretoni era composta la Compagnia, che fu messa agli ordini del cardinale
Roberto di Ginevra (il futuro antipapa Clemente VII) e commise le stragi e il
saccheggio di Cesena (1377).
Inglese era Giovanni Hawkwood, che con la sua Compagnia servì a lungo i
Fiorentini, i quali gli aggiustarono il nome in Giovanni Acuto, gli diedero
onori e ricchezze e, morto (1394), lo ricordarono con un dipinto in Santa Maria
del Fiore.
Ben presto anche gl'Italiani impararono l'arte dagli stranieri e formarono
Compagnie di ventura, composte di gente nostrana, forte e coraggiosa. I capi
furono piccoli feudatari, signorotti del contado, e qualche volta anche popolani
o contadini, saliti in fama per bravura militare.
Il
primo fra i "Condottieri" nostri fu Alberico da Barbiano, signore di alcune
terre di Romagna, che fondò la Compagnia di San Giorgio e con essa prestò man
forte a papa Urbano VI, quando si trattò di cacciare dall'Italia i Bretoni, che
il cardinale Roberto di Ginevra, divenuto antipapa, aveva richiamato perché lo
aiutassero ad entrare in Roma e a cacciarne il papa legittimo. Sconfitti a
Marino (1379), i Bretoni si portarono il loro antipapa ad Avignone.
Alberico da Barbiano fu un caposcuola: discende da lui la schiera dei più famosi
Condottieri italiani del secolo XV, tutti suoi scolari o discendenti di scolari.
Ricorderemo Braccio da Montone (detto Fortebraccio) e il suo rivale Muzio
Attendolo (detto lo Sforza), il quale fu padre di Francesco Sforza, divenuto poi
duca di Milano, esso pure famosissimo condottiero. E furono illustri e valorosi
Jacopo Dal Verme, di nobile famiglia lombarda, Nicolò Piccinino di Perugia,
Facino Cane, e quel Francesco Bussone (detto il Carmagnola), che da contadino
divenne generale della repubblica veneta e finì sul patibolo per sospetto di
tradimento.
Fortunato fu invece il condottiero bergamasco Bartolomeo Colleoni, la cui
fedeltà a Venezia fu premiata con grandi ricchezze e con una statua equestre
bellissima.
Questi condottieri italiani non furono né brutali saccheggiatori né spadaccini
volgari: essi si dimostrarono uomini di straordinario valore, perché come
politici seppero spesso formarsi e conservarsi uno Stato, e come uomini d'armi
riuscirono a creare una vera scuola di guerra, schiettamente italiana.
Gli Stati italiani fino alla metà del secolo XV: la politica di espansione
territoriale -
Con
l'inizio del secolo XIV si apre in Italia un lungo periodo di guerre, che si
protrae fino al 1454, anno della pace di Lodi. Questo periodo é detto
comunemente della espansione territoriale, perché le Signorie, i Principati, le
Repubbliche tendono ad ampliare il proprio territorio a danno dei più deboli
vicini, per divenire vasti e potenti Stati unitari, senza peraltro riuscirvi
mai. Nell'Italia settentrionale sembrano prevalere dapprima i Della Scala di
Verona, padroni di molte città del Veneto; presto però tramontano, per cedere il
posto ai Visconti di Milano, i quali nei loro momenti più felici signoreggiano
nella Lombardia, su parte del Veneto e dell'Emilia, raggiungono Genova, che
diviene loro possesso, e da Bologna, che è loro, puntano sulle città della
Toscana, della Romagna, dell'Umbria.
Un fatto nuovo arresta l'espansione viscontea: la politica continentale di
Venezia. La fiorente repubblica sulla fine del secolo XIV ha già abbattuto le
Signorie dei Carraresi di Padova, degli Scaligeri di Verona, e tende a penetrare
nella Lombardia per raggiungere Milano e conquistare tutta l'Italia
settentrionale; essa trova spesso un'alleata in Firenze, la quale si vede
minacciata dalla potenza viscontea. Attorno ai due maggiori contendenti, Venezia
e Milano, si dispongono gli altri Stati d'Italia, regolando la loro politica
secondo le esigenze proprie. Alla contesa centrale vengono poi ad affiancarsi
tutte le controversie particolari di Napoli, di Roma, di Genova, di Ferrara: la
storia politica d'Italia é in quei giorni un caos di alleanze e di tradimenti,
di paci e di guerre, di improvvisi trionfi e di crolli precipitosi.
Forse fu una sventura per l'Italia che nessuno dei suoi stati fosse abbastanza
forte da sottomettere gli altri: gli stranieri non avrebbero trovato un'Italia
debole, facile preda delle grandi monarchie di Francia e di Spagna.
Invece, dopo tante guerre, alla metà del secolo XV le forze di Milano e Venezia
si bilanciano, e insieme con esse si equilibrano i pesi delle rispettive
alleanze: é giunto il momento della pace di Lodi (1454), a cui aderiscono i
maggiori Stati dell'Italia. Questa pace inizia il periodo di equilibrio, che
assicura un quarantennio (1454-1494) di tranquillità alla penisola.
La
Signoria degli Scaligeri a Verona -
Verona, un tempo libero Comune guelfo, aveva subìto per più di trent'anni
(1227-1259) la dura oppressione di Ezzelino da Romano, fortissimo signore
ghibellino, grande amico di Federico II e degli Svevi. Caduto il tiranno nella
battaglia di Cassano d'Adda (1259), Verona restaurò l'antico governo comunale,
ma non riuscì a conservarlo a lungo, perché nel 1277 Alberto della Scala, eletto
capitano del popolo a vita, cominciò a governare da padrone la città, iniziando
la Signoria degli Scaligeri.
Di
questi il più famoso fu Can Grande della Scala (1308-1329), che, insieme con
Matteo Visconti di Milano, esercitò un vero predominio sui Ghibellini d'Italia e
prese parte a quasi tutte le guerre del tempo in appoggio a Enrico VII e
Lodovico il Bavaro. Signore di Verona e della media valle dell'Adige, egli
allargò i suoi possessi nel Veneto, contro i Carraresi di Padova e i Da Camino
di Treviso: la Signoria scaligera, oltre che su Verona, si distese su Padova,
Vicenza, Feltre, Belluno, Treviso, dominando le valli dell'Adige, del Brenta,
del Piave. Nessun signore in Italia, neppure Matteo Visconti, era allora così
potente.
Can Grande scomparve a soli 38 anni, nel 1329, quando la sua potenza era giunta
all'apogeo.
Dante, dopo aver trovato presso gli Scaligeri il suo primo rifugio, a Can Grande
dedicò più tardi il Paradiso.
I successori di Can Grande, Alberto II e Mastino II, estesero ancor più i loro
possessi, conquistarono Brescia minacciando di là la potenza viscontea di
Milano, assoggettarono Parma e Lucca puntando verso Firenze; si rafforzarono
sulla linea del Po premendo sui Gonzaga di Mantova, sugli Estensi di Ferrara, e
incalzando i Veneziani. Scoppiò allora una guerra generale: gli Scaligeri,
accerchiati da ogni parte dai nemici (Lega anti-scaligera, 1336), dovettero
abbandonare terre e città, riducendosi al possesso di Verona e di Vicenza,
mentre i Visconti occupavano Brescia, i Veneziani si stabilivano a Treviso e a
Bassano, i Carraresi rientravano in Padova. Da quei giorni Verona perdette gran
parte della sua forza e fu perennemente insidiata da Milano e da Venezia, due
Stati ai quali premeva assai il possesso delle vie verso il Brennero. Invano gli
ultimi Scaligeri lottarono valorosamente: Verona nel 1387 fu presa da Gian
Galeazzo Visconti; morto il duca di Milano (1402), la città cadde sotto
Francesco Novello da Carrara, signore di Padova (1404), per finire poi nelle
mani dei Veneziani (1405).
Il Ducato di Milano: sua contrastata espansione territoriale -
Nei
giorni in cui l'imperatore Enrico VII di Lussemburgo era in Italia per
pacificare i partiti e restaurare la dignità imperiale, Matteo Visconti, da lui
richiamato in Milano, invece di secondare la politica di pace del sovrano,
sollevò il popolo contro i Torriani, li cacciò dalla città, e iniziò così la
Signoria viscontea in Milano. Egli ebbe dall'imperatore il titolo di vicario
imperiale e fu tra i maggiori capi del partito ghibellino in Italia, emulando in
valore e in audacia lo scaligero Can Grande.
Dominò (1311-1322) sopra undici città, da
Bergamo a Novara, e mirò alla conquista di Genova, la quale fu salvata per
l'intervento di re Roberto di Napoli, che papa Giovanni XXII in Avignone aveva
nominato "vicario d'Italia" e capo del partito guelfo.
Le conquiste di Matteo nelle valli della
Scrivia, della Trebbia e della Magra rinnovarono la minaccia su Genova, onde il
papa, che già aveva scomunicato il Visconti perché imponeva tasse ai preti e si
mostrava poco devoto alla Chiesa, si adoperò per promuovere una lega di tutti i
Guelfi, inviò il proprio legato Bertrando del Poggetto, e bandì la Crociata
contro Matteo, accusato di eresia e nuovamente scomunicato.
Nel bel mezzo della guerra, Matteo Visconti moriva (1322), lasciando in
difficili condizioni il suo successore Galeazzo I (1322-1327). Questi continuò
la guerra per qualche tempo e nel 1324 sconfisse i Guelfi al ponte di Vaprio
sull'Adda, riconquistando la città di Monza, nel cui castello il crudele
principe fece costruire le famose prigioni, dette i forni. Rappacificatosi col
pontefice, non seppe resistere al desiderio di riprendere il suo posto nel
partito ghibellino, quando scoppiò più viva la lotta tra papa Giovanni XXII e
Lodovico il Bavaro. Galeazzo Visconti accolse infatti splendidamente
l'imperatore in Milano; ma poi, caduto in disgrazia, fu arrestato e buttato a
languire nei forni di Monza, di cui, egli, che li aveva costruiti, fece per
primo l'esperienza (1327).
In questo fatto ebbero mano certamente altri due
Visconti, Marco e Lodrisio, sospettosi di Galeazzo I per la sua grande crudeltà.
Azzone Visconti, figlio di Galeazzo I, poté tre
anni dopo, assumere la guida dello Stato (1329-1339) : giovane d'ingegno, un po'
bizzarro, ma abile ed astuto, rinsaldò la sua Signoria con aumenti territoriali
e con saggi ordinamenti. Combatté contro gli Scaligeri di Verona, e in tale
occasione si vide venire contro la Compagnia di San Giorgio, istituita da
Lodrisio Visconti con mercenari tedeschi; ma lo zio Luchino, signore di Pavia,
la sconfisse a Parabiago sull'Olona (1339). Azzone morì pochi mesi dopo, a 37
anni appena: era stato un vero principe, amante delle arti e dello sfarzo;
lasciava a Milano un bel palazzo, con torri e mura merlate, e magnifici
giardini.
Dopo Azzone, governarono insieme Luchino,
signore di Pavia (1339-1349), e Giovanni, signore di Novara e arcivescovo di
Milano. Luchino, che ebbe la direzione effettiva del governo, conquistò molte
città del Piemonte (Tortona, Alessandria, Asti, Cuneo), una parte della
Lunigiana e la città di Parma. Quando morì (1349), prese le redini dello Stato
l'arcivescovo Giovanni Visconti (1349-1354), il quale accrebbe enormemente
l'importanza della sua Casa con la conquista di Genova e di Bologna, e fu "quasi
regolus super Lombardis", come dice di lui un cronista. Tanta prosperità svegliò
le invidie degli Stati vicini, che, morto l'arcivescovo, attaccarono il dominio
visconteo, indebolito già
dal
frazionamento dei tre successori di Giovanni, Matteo Galeazzo II e Bernabò,
violenti e crudeli più che abili: essi perdettero Genova e Bologna; salvarono
però la compagine del dominio, che trovò presto un valido restauratore in Gian
Galeazzo Visconti, figlio di Galeazzo II ed erede anche dello zio Matteo II.
Gian Galeazzo Visconti (1378-1402) -
primo duca di Milano Giovane, ambizioso,
audacissimo, Gian Galeazzo Visconti (detto anche Conte di Virtù dalla contea di
Vertus, portatagli in dote dalla moglie francese) s'impadronì di tutto il
territorio visconteo, facendo arrestare a tradimento lo zio Bernabò, e
mandandolo a morire prigioniero nel cupo castello di Trezzo d'Adda (1385); poi
riprese con entusiasmo la politica di espansione e sconvolse quasi tutta
l'Italia con le sue guerre. Alleato coi Carraresi di Padova, piombò sugli
Scaligeri e s'impadronì di Verona e Vicenza; più tardi, unitosi ai Veneziani,
batté i Carraresi e ad essi sottrasse per qualche anno Padova; allargò i suoi
possessi nell'Emilia, ed ebbe Bologna; di qui entrò in Toscana, prese per sé
Pisa, consegnò Lucca a Paolo Guinigi, suo alleato, e si fece proclamare signore
di Siena; poi procedette in Umbria, dove Perugia e Assisi lo accettarono come
signore: Firenze, accerchiata ormai da ogni parte, temé più volte in quei giorni
per la sua libertà.
Gian Galeazzo fu certo il più grande dei Visconti per l'ingegno e il valore
personale, per la ricchezza e l'ampiezza dei suoi domini; egli trasformò la sua
Signoria in un vero principato, ottenendo, nel 1395 da Venceslao dì Lussemburgo,
re di Germania e dei Romani, l'ambitissimo titolo di duca di Milano e il
riconoscimento ufficiale del suo dominio con diritto ereditario. Né fece mistero
mai di aspirare a ben più grandi successi, mirando forse a divenire signore di
tutta Italia e alleandosi da pari a pari col re dì Francia, Carlo VI, al cui
fratello Luigi d'Orléans diede in moglie la propria figliuola Valentina, con la
signoria di Asti per dote: matrimonio questo che, aprendo un varco ai Francesi
in Italia, fu più tardi causa di gravi sciagure al nostro paese. Gian Galeazzo
fu munifico mecenate delle arti e delle lettere: della sua generosità rimangono
oggi due monumenti solenni, la Certosa di Pavia, iniziata da lui con grandiosità
principesca, e il Duomo di Milano, alla cui costruzione egli contribuì con
sovrana larghezza.
Filippo Maria Visconti (1412-1447) e la fine della Signoria viscontea -
Il primo duca di Milano, benché fosse ancora
abbastanza giovane, morì nel 1402 lasciando un figliuolo quattordicenne,
Giovanni Maria, erede del titolo ducale, ma non delle sue virtù. In dieci anni
(1402-1412) la maggior parte delle conquiste, fatte da Gian Galeazzo, andò
perduta, cosicché quando nel 1412 il giovane duca morì assassinato, era
grandissimo il disordine nelle terre del ducato, a causa dell'arroganza di
parecchi condottieri di ventura e dello spirito di rivolta diffuso in molte
città. Ma il fratello del duca morto, Filippo Maria Visconti, fu pronto ad
afferrare le
redini
del potere, sposò la vedova di Farina Cane, famoso condottiero, che si era fatto
quasi uno Stato in Lombardia, e divenuto padrone della Compagnia di Facino,
affermò energicamente il proprio potere, rivelando qualità di uomo politico non
inferiori a quelle del padre Gian Galeazzo.
Durante il suo lungo governo (1412-1447) Filippo
Maria riconquistò i possessi del Piemonte e dell'Emilia, riebbe Genova, occupò
la Romagna puntando da una parte verso la Toscana, dall'altra verso l'Adriatico.
Si levarono allora contro di lui Firenze e Venezia, ambedue timorose della
rinnovata minaccia viscontea, e iniziarono una lunga guerra, trascinando seco
gli Estensi e i Gonzaga.
Il duca aveva al suo servizio un brillante capitano di ventura, Francesco
Bussone, detto il Carmagnola dal suo paese natale: questi
passò improvvisamente con la sua Compagnia al
soldo di Venezia, e nel 1427 sconfisse a Maclodio, nel Bresciano, le milizie
viscontee, costringendo il duca a fare la pace e a cedere Bergamo e Brescia alla
Serenissima.
Erano allora i giorni splendidi del dogato di
Francesco Foscari (1423-1457), il più fiero nemico dei Visconti e il più tenace
assertore della espansione territoriale di Venezia. Un'altra guerra si era
accesa intanto nel Regno di Napoli, dove si contendevano il trono Renato d'Angiò
e Alfonso d'Aragona. Il duca Filippo Maria, fedele alla tradizione viscontea di
amicizia verso gli Angioini, inviò abbondanti aiuti a Renato e riuscì a far
prigioniero Alfonso. Ma poi, preoccupato che la vittoria del partito angioino a
Napoli rafforzasse troppo l'influenza francese, già così minacciosa per il
Ducato di Milano a causa della vicinanza del feudo francese di Asti,
improvvisamente cambiò politica, lasciò libero l'Aragonese e fece lega con lui.
Ora, mentre la lotta proseguiva nel Napoletano, di nuovo Firenze e Venezia
prendevano le armi contro il duca di Milano, assoldando le compagnie di
Francesco Sforza e di Erasmo Gattamelata, ambedue valorosi capitani di ventura,
mentre da parte viscontea prevaleva un altro forte condottiero, Nicolò
Piccinino.
Ma ormai anziché una lotta tra vari Stati, questa guerra si rivelava ogni giorno
più una contesa fra i principali condottieri, tutti desiderosi di formarsi una
propria Signoria: lo Sforza si era impadronito di parte delle Marche,
sottraendole al dominio del papa; il Piccinino avanzava pretese esorbitanti
presso il duca di Milano. Questi allora preferì accordarsi con Francesco Sforza,
il quale fece da intermediario e riuscì a concludere fra i belligeranti la pace
di Cremona (1441).
Francesco Sforza, duca di Milano (1450-1466)
Chi più aveva guadagnato in questi affari era stato Francesco Sforza, il quale
aveva ottenuto la mano di Bianca Maria, figliuola illegittima del duca, e il
possesso di Cremona e Pontremoli per dote. Figlio del famoso capitano di ventura
Muzio Attendolo, detto lo Sforza, Francesco aveva ereditato dal padre, insieme
con la Compagnia, il coraggio, l'ambizione, l'ingegno; divenuto di colpo così
potente, egli non faceva mistero della sua forza e delle sue mire sul ducato,
del quale si considerava naturale erede. Allora il duca Filippo Maria, timoroso
di essere da lui spodestato, gli si voltò contro, iniziando una nuova guerra, in
cui lo Sforza trovò naturalmente alleati i Veneziani e i Fiorentini, sempre
fermi al tradizionale loro programma di abbassare la potenza del ducato
milanese.
Si riaccese quindi la guerra con gran fortuna dei Veneziani, che penetrarono ben
addentro nel ducato e minacciarono di farlo crollare definitivamente. Ed ecco
all'improvviso nel 1447 morire lo stesso duca Filippo Maria Visconti, senza
lasciare alcun erede legittimo. Fu da ogni parte un levarsi di pretendenti,
essendo molte le famiglie principesche imparentate coi Visconti e interessate
alla successione: accampavano seri diritti Francesco Sforza per il suo
matrimonio con Bianca Maria, figlia illegittima, ma unica, del morto duca; gli
Orléans per la loro discendenza da Valentina Visconti; il duca Lodovico di
Savoia, cognato di Filippo Maria Visconti. In mezzo a tale caos, i Milanesi si
affrettarono a proclamare la Repubblica Ambrosiana (1447), illudendosi di
ristabilire, in tempi così diversi, le ormai sorpassate forme dell'antico
Comune; non trovarono però appoggio nelle altre città, che rifiutarono di
riconoscere il governo di Milano e provocarono il disgregamento del ducato. Le
disperate, condizioni in cui si venne a trovare
la Repubblica Ambrosiana indussero i Milanesi a chiedere aiuto a Francesco
Sforza.
Questi accondiscese e con grande energia e
fortuna riprese la guerra contro i Veneziani. Salvata così Milano, il prode
condottiero manifestò apertamente le proprie ambizioni sul ducato; ma essendosi
opposta la Repubblica Ambrosiana, egli marciò su Milano, la prese, e dal popolo
si fece nominare duca di Milano (1450). Gli altri aspiranti al ducato si unirono
a Venezia nel combattere il nuovo duca, il quale si difese strenuamente,
togliendo ai nemici ogni speranza di vittoria.
Intanto giungeva in Italia una grave notizia: i Turchi avevano conquistato
Costantinopoli (1453), abbattuto l'Impero d'Oriente e costituito un forte Stato,
minaccioso per tutta la cristianità, e specialmente per Venezia e i suoi
possessi coloniali nel Levante. La stanchezza dei belligeranti e la paura dei
Turchi indussero gli Italiani alla pace di Lodi (1454), che è la più importante
di tutto il secolo XV. Per essa non soltanto veniva garantito allo Sforza il
possesso del ducato milanese, ma si formava in Italia quell'equilibrio tra i
maggiori Stati, che assicurò la tranquillità per quaranta anni in quasi tutta la
penisola.
Il Dogato di Venezia e la sua politica di
espansione nell'Italia settentrionale.
Il Dogato di Venezia ha sugli Stati italiani di
questi tempi una indiscutibile superiorità: esso solo possiede un governo forte
e duraturo. Avvenuta fino dal 1297 la famosa Serrata del Maggior Consiglio,
stabilitasi saldamente la nuova casta aristocratica, e consolidatosi il dominio
oligarchico dopo la ribellione di Baiamonte Tiepolo (1310) con l'istituzione del
Consiglio dei Dieci, Venezia mantiene salda la sua compagine, ignora le lotte
tra Guelfi e Ghibellini e soffoca senza pietà ogni tentativo di sovvertimento
costituzionale: così nel 1355 il doge Marino Falier, accusato di volersi far
signore della repubblica, è fulmineamente deposto, processato e giustiziato come
traditore della patria.
Ma se all'interno la vita politica di Venezia è
generalmente tranquilla, singolarmente nervosa appare invece la sua politica
estera e coloniale.
Fin dall'inizio del secolo XIV Venezia non
ritrova più i facili successi di un tempo nel Levante, dove i Turchi sono
divenuti tanto potenti per terra e per mare, da rendere ormai precaria la sua
situazione coloniale.
D'altra parte le Signorie dell'Italia
settentrionale, sempre più vaste e potenti, mirano a chiudere al commercio
veneto le vie alpine, specialmente quella dell'Adige, e incombono con le loro
forze militari sulla città, priva di territorio e forte solo sul mare. Ecco
dunque imporsi la necessità di una politica continentale.
Così Venezia, dal XIV secolo in poi, abbandonata
la politica di isolamento, seguita fino ad allora, esce dalla cerchia ristretta
della sua laguna, pone il piede energicamente sulla terraferma e inizia la sua
avanzata verso occidente, partecipando a tutte le più gravi competizioni
territoriali d'Italia.
Il primo urto avviene contro la Signoria degli
Scaligeri di Verona: battuto Mastino II della Scala dalla lega anti-scaligera
del 1336, Venezia, che vi ha preso parte, ottiene Treviso e Bassano, che sono i
primi possessi veneziani di terraferma (1339). La via é ormai aperta per la
rapida formazione di uno Stato continentale; onde, finita la guerra di Chioggia
(1376-1381) contro Genova, ecco Venezia riprendere l'offensiva continentale,
abbattere i Da Carrara, che le hanno carpito Treviso e si sono impadroniti dello
Stato scaligero, e incorporare al territorio della Serenissima Padova, Vicenza,
Verona (1405), portando i confini occidentali della repubblica fino al fiume
Adige, al di là del quale si erge la Signoria viscontea.
Il doge imperialista: Francesco Foscari
(1423-1457)
Il confine è sicuro e Venezia potrebbe anche fermarsi, per attendere con più
calma alla difesa del suo impero coloniale, martellato continuamente dai Turchi.
Intorno al 1423 il vecchio doge Tommaso Mocenigo, in un discorso fatto poco
prima di morire, esorta i suoi concittadini a ritornare alla vecchia politica
mercantile, che ha dato alla repubblica la ricchezza e il dominio dei mari.
Il suo consiglio non è ascoltato. Appena morto il Mocenigo, viene eletto doge
Francesco Foscari (1423-1457), capo del partito imperialista, e per oltre trenta
anni Venezia non ha più un giorno di quiete. Ormai é chiaro: la repubblica
aspira alla conquista del ducato milanese e delle maggiori Signorie, mirando al
possesso di quasi tutta l'Italia settentrionale. Perciò ha bisogno di un
esercito forte e fedele; se lo procura con enorme dispendio, assoldando i più
valenti capitani di ventura, come Francesco Carmagnola, Erasmo Gattamelata,
Bartolomeo Colleoni; ma, gelosa della loro potenza, li sorveglia perché non
tentino, come altrove, di formarsi forti Signorie a danno della repubblica, e al
loro fianco mette due senatori incaricati della gestione amministrativa
dell'esercito.
Terribile e inesorabile sarà poi nel punirli, se in essi scorgerà ombra di
tradimento. E' nota la fine del Carmagnola: passato al servizio di Venezia dopo
aver abbandonato il duca di Milano, egli aveva condotto vittoriosamente le
truppe della repubblica, vincendo a Maclodio e conquistando Bergamo e Brescia
(1426-1427); ma poi cominciò a tergiversare, dando sospetto di voler mettersi di
nuovo al servizio di Filippo Maria Visconti e si lasciò battere a Cremona.
Allora la Signoria lo chiamò a Venezia sotto pretesto di concertare il nuovo piano
di guerra; quando l'ebbe tratto a palazzo, lo fece arrestare e, dopo un sommario
processo, decapitare fra le due colonne della Piazzetta (1432). La lezione fu
ammonitrice per gli altri condottieri, i quali servirono poi la repubblica con
fedeltà.
Gli eserciti veneziani, sebbene comandati da esperti capi, non riuscirono però
ad attuare il sogno imperialista del doge Francesco Foscari. Abbiamo già visto
come, giunti con le loro conquiste all'Adige, i Veneziani trovassero un ostacolo
alla loro avanzata nel Ducato di Milano; essi riuscirono a sconfiggere il duca
Filippo Maria Visconti, gli sottrassero Brescia e Bergamo, ma non poterono
occupare il ducato. La morte improvvisa del duca (1477) e le contese per la
successione parvero rianimare nella repubblica la speranza della conquista; ma
l'abilità di Francesco Sforza salvò il ducato (1450).
Venezia non si rassegnò a riconoscere il nuovo
duca e riaccese la guerra, finché la notizia della presa di Costantinopoli fatta
dai Turchi (1453) non scosse la posizione politica del doge imperialista. Il
vecchio partito mercantile, esasperato per i disastri finanziari prodotti dal
crollo bizantino e ossessionato dal pericolo, a cui vedeva esposte le isole
veneziane dell'Egeo, impose ad ogni costo la pace di Lodi (1454), con la quale
Venezia vide confermati i suoi possessi lombardi fino all'Adda con Brescia,
Bergamo e Crema, ma rinunciò di fatto al grande sogno di conquista dell'Italia
settentrionale. Il cambiamento avvenuto nella politica veneziana in quegli anni
fu confermato dalla caduta di Francesco Foscari, il quale, attaccato dai suoi
nemici, dovette dimettersi dal dogato, per morire pochi giorni dopo di
crepacuore
(1457).
La guerra con Ferrara e la pace di Bagnolo
(1484)
Nella sua espansione la Repubblica di Venezia aveva urtato contro il Ducato di
Ferrara, minacciandone l'assorbimento. Questa città, che dominava il corso
inferiore del Po e dell'Adige, aveva una grande importanza come incrocio delle
vie del traffico fluviale tra il Veneto, l'Emilia e la Lombardia. Ferrara era
salita ad una notevole prosperità fino dal secolo XIII, quando con Azzo VI la
nobile Casa d'Este ne aveva ottenuto dal popolo la Signoria. Gli Estensi
allargarono il loro dominio su tutto il Polesine, e verso occidente penetrarono
fino nei territori di Modena e di Reggio. Al tempo di Azzo VIII (1293-1308) la
Signoria estense era certo tra le più promettenti dell'Italia settentrionale.
Morto quel principe, Venezia e la Santa Sede si erano per parecchi anni contese
il possesso di Ferrara, finché nel 1317 Rinaldo d'Este aveva ristabilito la
Signoria della sua Casa.
Nicolò III d'Este (1393-1441), divenuto marchese
di Modena, Reggio, Rovigo, Parma e della Garfagnana, aveva trasmesso questi
titoli a Borso d'Este (1450-1471), il quale poté aggiungere quello più ambìto di
duca di Ferrara.
In quei giorni la ricca città vide tutta una
fioritura d'arte e di poesia, che preludeva ai tempi dell'Ariosto e del Tasso.
Il Ducato di Ferrara attirava le cupidigie di Venezia, soprattutto per il
Polesine, possesso ferrarese, a cavallo tra il Po e l'Adige. Il conflitto
scoppiò tra il 1482 e il 1484; presero parte alla guerriglia quasi tutti gli
Stati italiani, e anche il pontefice Sisto IV, desideroso di creare uno Stato
per i suoi nipoti Riario con l'aiuto di Venezia. Si combattè nel Ferrarese e
nello Stato romano, ma con esito indeciso per la consueta tendenza delle forze
opposte a equilibrarsi. La pace fu firmata a Bagnolo (1484), presso Brescia. Il
Ducato di Ferrara rimase libero, ma il Polesine passò a Venezia. Nulla ebbero
gli altri belligeranti. Così Venezia divenne arbitra assoluta del commercio
fluviale nelle regioni del Po e dell'Adige.
Il Dogato di Genova - debolezza di governo -
ultime guerre navali con Venezia
Genova non ebbe nei secoli XIV e XV un'importanza politica degna del suo grande
passato. Ciò che maggiormente danneggiò la repubblica fu la mancanza di un
governo forte e duraturo. Essa fu continuamente travagliata dalle lotte civili
fra le maggiori famiglie di antica nobiltà feudale, come i Fieschi, i Grimaldi,
i Doria, gli Spinola. Né il popolo poté creare uno stabile governo, capace di
resistere alle turbolenze dei grandi. Il più noto tentativo, fatto dal popolo
per assicurarsi il potere, fu l'istituzione del dogato (1339) con l'elezione di
Simone Boccanegra, proclamato doge a vita. Ciò peraltro non portò la pace né
stroncò la forza dei nobili, i quali anzi ridussero in pochi anni a così mal
partito il nuovo governo, che nel 1344 Simone Boccanegra fu costretto a
rinunziare al potere. Egli riebbe il dogato più tardi e lo tenne fino alla sua
morte (1356-1363), ma non riuscì ad assicurare al popolo il predominio. Infatti
il dogato, pur rimanendo la fondamentale istituzione repubblicana, da allora fu
sempre tenuto dalle maggiori famiglie degli Adorno, dei Fregoso, dei Montaldo,
dei Giustiniani.
Minacciata e spesso conquistata dai Visconti, Genova cominciò nel secolo XIV a
perdere la piena indipendenza.
Sprovvista di buoni eserciti, essa fu costretta a bilanciarsi tra le più forti
potenze territoriali, che le stavano intorno, oscillò tra Francesi e Lombardi,
offerse la signoria ora ai principi angioini, ora ai marchesi del Monferrato, e
finì per divenire uno Stato di scarsa importanza nel gioco della complicata
politica italiana.
L'attività marinara e le ultime lotte con Venezia: la guerra di Chioggia
(1376-1381)
Saldissime rimasero per molti anni la potenza marinara e l'attività mercantile
di Genova, specialmente nel Levante dove, dopo la risurrezione dell'Impero dei
Paleologhi (1261), i Genovesi avevano in Costantinopoli e nel Mar Nero un
primato commerciale, che mantennero fino alla conquista turca (1453).
La tradizionale rivalità con Venezia ebbe il suo ultimo episodio nella famosa
guerra di Chioggia (1376-1381), la quale scoppiò a causa dell'isola di Tenedo,
contesa tra le due rivali per la sua posizione strategica rispetto ai
Dardanelli. I Genovesi parvero dapprima avere il sopravvento, battendo i
Veneziani a Pota, prendendo Chioggia e minacciando la stessa città di Venezia;
ma la repubblica assediata non si perdette d'animo, e con uno di quei colpi
d'energia, che sono così frequenti nella sua storia, sotto la guida di Vettor
Pisani riconquistò Chioggia, riducendo a così mal partito i Genovesi, da indurli
ad accettare la mediazione del conte Amedeo VI di Savoia (il Conte Verde). Nel
1381 fu firmata la pace di Torino, per la quale i Veneziani sgombravano l'isola
di Tenedo, ma salvavano la loro piena libertà di commercio nell'Egeo.
Origine e vicende della Casa di Savoia fino alla
morte di Amedeo VIII
Per tutto il medioevo la Casa di Savoia stette quasi appartata dalla vita
italiana, intervenendo solo occasionalmente nelle lotte tra i singoli Stati.
Posta coi suoi domini a cavallo fra l'Italia e la Francia, fu per molto tempo
oscillante fra le due nazioni, finché il trionfale affermarsi della monarchia
francese non l'indusse ad orientarsi verso l'Italia, dove era possibile un
aumento di territorio.
Le origini della Casa di Savoia sono oscure; esse forse risalgono ai primi
decenni del secolo XI, quando Umberto Biancamano (di antica e nobile famiglia
borgognona), signore della valle d'Aosta, ottenne da Corrado II il Salico la
Contea di Moriana nelle valli dell'Arc e dell'Isére, in compenso dell'aiuto
prestato nella conquista della Borgogna. In tale occasione (1033), a fianco di
Corrado II e di Umberto Biancamano, combatterono Ariberto, il famoso arcivescovo
di Milano, che come vicario imperiale aveva portato al suo signore l'aiuto delle
milizie lombarde, e Bonifacio, marchese di Canossa, capo delle milizie toscane.
Il figlio di Umberto Biancamano, Oddone (1056-1061) sposò Adelaide, discendente
da Arduino d'Ivrea, la quale portò in dote al marito le contee di Torino e di
Susa, estendendo così verso l'Italia i possessi sabaudi. Adelaide fu la prima
delle grandi donne di Casa Savoia: rimasta vedova assai presto, tenne la
reggenza per i figli e anche per un nipote: diede in sposa la propria figliuola
Berta all'imperatore Enrico IV, e quando costui andò a Canossa, l'accompagnò
intercedendo per lui presso la contessa Matilde di Toscana e il pontefice
Gregorio VII.
Alla morte di Adelaide (1091), la Casa di Savoia traversò un periodo difficile
per la potenza di alcuni Comuni piemontesi, tra i quali soprattutto Asti, il più
vivace centro comunale e mercantile del Piemonte. Inoltre all'estendersi della
signoria sabauda in Italia facevano ostacolo, da una parte i marchesi di
Saluzzo; fiorenti già nei primi anni del secolo XII, e i nobilissimi marchesi
del Monferrato, detti anche Aleramici, da un oscuro capostipite Aleramo
(967-991), che avrebbe ottenuto quel feudo dall'imperatore Ottone I di Sassonia.
Verso
la fine del secolo XIII la Casa di Savoia ritornò fiorente, divisa però in due
rami, quello dei Conti di
Savoia, che possedeva i territori francesi e le
valli d'Aosta e di Susa, e quello dei Principi di Acaia, che occupava Torino e
le altre terre del Piemonte: egli portava quel nome, perché il suo capostipite
aveva sposato una principessa francese, erede nominale dell'antico Principato di
Acaia in Grecia, ottenuto in feudo perpetuo dalla famiglia di lei al tempo della
quarta Crociata (1202-1204).
Solo intorno alla metà del secolo XIV la Casa di Savoia cominciò a premere verso
la Lombardia; ma qui si trovò di fronte la potenza dei Visconti, con i quali fu
più volte in guerra. Così questa dinastia, che fino ad allora si era chiusa nei
suoi feudi e si era preoccupata solamente di combattere i vicini signori
feudali, prese parte più attiva alla politica italiana ed ebbe allora i suoi
migliori sovrani. Amedeo VI, detto il Conte Verde dal colore di una veste da lui
indossata in un torneo, durante il lungo suo governo (1343-1383) diede grande
lustro alla Casa sabauda con le sue imprese: ampliò infatti i domini, rese
vassalli i marchesi di Saluzzo, del Monferrato e i principi di Acaia, combatté
con fortuna contro i Visconti, ebbe fama di audace guerriero, specialmente per
un'avventurosa impresa contro i Turchi a Gallipoli, e liberò dai Bulgari
l'imperatore d'Oriente, Giovanni V Paleologo. Il valoroso conte salì a tanta
reputazione anche come uomo politico, che Venezia e Genova lo scelsero loro
arbitro nella guerra di Chioggia, inducendosi a firmare la pace di Torino
(1381), da lui dettata. Egli fondò il cavalleresco Ordine del Collare, che più
tardi si chiamò della Santissima Annunziata. Il Conte Verde mori in Puglia
(1383), dove aveva accompagnato Luigi I d'Angiò, fratello del re di Francia,
Carlo V di Valois.
Amedeo VII, detto il Conte Rosso (1383-1391), conquistò la Contea di Nizza,
importantissimo sbocco dello Stato sabaudo verso il mare, e riprese la politica
forte del padre; mori però giovane nel 1391, lasciando lo Stato sotto una debole
reggenza. Suo figlio Amedeo VIII (1391-1434), divenuto maggiorenne nel 1398,
prese nelle sue forti mani le redini del governo e portò a grande potenza la sua
Casa, unificando i possessi sabaudi, divisi fra i vari rami della famiglia,
annettendo una parte del territorio di Ginevra, conquistando la città di
Vercelli, dando al suo popolo una completa legislazione, e finalmente ottenendo
nel 1416 dall'imperatore Sigismondo il titolo di duca di Savoia, per cui egli
sali a un grado di nobiltà pari a quello dei Visconti di Milano.
Stanco delle cure dello Stato, nel 1434 si ritirò in solitudine a Ripaglia,
fondando con alcuni cavalieri l'Ordine di S. Maurizio. Nell'ultimo periodo della
sua vita egli aderì allo scisma del Concilio di Basilea, accettando la nomina ad
antipapa (Felice V - 1439-1449). Dopo pochi anni rinunciò a questo titolo,
riconciliandosi col papa. Due anni appresso (1451) l'irrequieto duca moriva.
Vicende di Firenze: dal Comune alla Signoria dei
Medici
La morte dell'imperatore Enrico VII di Lussemburgo (1313) era stata salutata con
gioia dai ricchi mercanti che governavano Firenze. Ma il tripudio pubblico cessò
quando giunse in città la notizia che Uguccione della Faggiola, già vicario di
Enrico VII a Genova, era divenuto signore di Pisa e Lucca e, aiutato da Matteo
Visconti e da Can Grande della Scala, si dava da fare per rialzare il prestigio
del partito ghibellino in Toscana, mirando a Firenze, cuore del guelfismo
italiano.
I Fiorentini, che già avevano proclamato loro
signore Roberto, re di Napoli e capo del partito guelfo, ottennero da lui un
aiuto di ottocento cavalieri, e con quelli e col loro esercito comunale uscirono
contro Uguccione. La battaglia avvenne a Montecatini (1315) e fu un disastro: i
Fiorentini sconfitti si racchiusero tra le mura della città, attendendo l'arrivo
del vincitore.
Giunse invece dopo qualche tempo la notizia che Pisa si era ribellata ad
Uguccione, e che in Lucca Castruccio Castracani degli Interminelli, il quale
fino allora aveva servito Uguccione e ne era stato mal ricompensato, aveva
indotto il popolo a proclamarlo signore della città. Il coraggioso, ma poco
abile Uguccione andò a finire i suoi giorni a Verona. Ben presto però
Castruccio, ghibellino anch'egli e non meno avido di dominio, divenne una nuova
minaccia per Firenze, e avendo preso Pistoia, si accinse, come già Uguccione,
alla conquista di tutta la Toscana e alla lotta col partito guelfo. Rinacque
allora la guerra, e i Fiorentini, sebbene aiutati dai Guelfi di Bologna, di
Romagna e di Perugia, subirono un'altra pesante sconfitta ad Altopascio, fra
Lucca e Pistoia (1325).
Preoccupata di tanti disastri, Firenze, che nel frattempo aveva lasciato scadere
la signoria di re Roberto (1313-1322), pensò di dare il potere a un principe che
garantisse la sicurezza esterna e la pace interna. Fu scelto Carlo, duca di
Calabria, figlio di re Roberto di Napoli, il quale divenne signore di Firenze
(1325-1327), ricevendo un largo stipendio per sé e per i suoi, godendo di
moltissimi diritti e privilegi, salvo però sempre il rispetto agli Ordinamenti
di giustizia del popolo di Firenze. La presenza di un grosso numero di
cavalieri, condotti dallo stesso duca, indusse Castruccio ad allontanarsi da
Firenze e a rinunciare alla conquista.
Così anche il classico Comune fiorentino riconosceva la decadenza delle antiche
istituzioni repubblicane e si piegava alla necessità della Signoria, unico
rimedio per uno Stato, che, in preda alle contese di parte, sentiva il bisogno
di pace e stabilità.
Questo primo esperimento di una vera e stabile
Signoria costò troppo caro a Firenze: il duca di Calabria non fece grandi cose
né per la pacificazione interna né per la guerra; s'interessò tuttavia, e in
modo veramente angioino, di far danari, tanto che quando il 28 agosto 1327 egli
usciva di Firenze per rientrare nel Regno di Napoli, minacciato dall'imperatore
Lodovico il Bavaro, i Fiorentini si trovarono ad aver sperperato per lui la
bellezza di 900.000 fiorini in poco più di un anno. Perciò non piansero troppo
quando il loro signore morì prematuramente nel 1328.
Di Signoria e di principi non si parlò più per allora. Si volle invece un
ritorno al governo comunale: la borghesia riprese in pugno le redini dello Stato
e continuò la sua tradizionale politica mercantile. Infatti, morto
all'improvviso Castruccio (1328), i Fiorentini si gettarono sulle terre di lui,
riconquistarono Pistoia, e per 250.000 fiorini comprarono Lucca, che si era data
a Mastino della Scala; la perdettero però assai presto in seguito a una guerra
disgraziata con Pisa. L'umiliazione subita indusse allora il governo a
vagheggiare nuovamente una Signoria di tipo militare: un avventuriero francese,
Gualtiero di Brienne, detto Duca d'Atene, uomo d'armi, cupido e astuto, già al
seguito di Carlo di Calabria, fu nominato conservatore della repubblica e
capitano generale (1342). Egli accettò, ma, alleatosi coi nobili, sbalzò dal
potere il popolo grasso, e si fece proclamare signore a vita; poi per farsi una
base politica più larga, lasciò da parte i nobili e si diede a proteggere le
Arti minori, i piccoli mercanti, i beccai, i vinai, i tintori, tutta gente che
egli soleva chiamare il buon popolo. Allora le maggiori famiglie del popolo
grasso, paurose della crescente baldanza della plebe, fecero lega coi nobili,
irritati per il tradimento del Duca d'Atene, scesero in piazza, assaltarono il
palazzo e costrinsero il duca ad uscire dalla città (agosto 1343). La nuova
Signoria era fallita.
Firenze diviene un Comune democratico sotto il
controllo del popolo grasso
Cacciato il Duca d'Atene, il popolo grasso ritornò al potere; dovette però
ripagare a caro prezzo l'aiuto dei nobili, revocando gli Ordinamenti di
giustizia e riammettendo i magnati alle cariche del Comune. Si tornava dunque
indietro di mezzo secolo. Ma la tradizionale alterigia dei nobili rinacque
minacciosa: "Noi vedremo" — dicevano — "chi ci toglierà la parte nostra della
Signoria e chi ci vorrà cacciare di Firenze, che la campammo dalle armi del
duca". Il popolo grasso delle Arti maggiori ebbe
di nuovo paura dei grandi, e per scalzarli si strinse questa volta più
strettamente ai modesti artigiani delle Arti mediane e minori; con l'aiuto di
essi poté ristabilire gli Ordinamenti di giustizia e cacciare i nobili dalla
Signoria; dovette però rassegnarsi ad accettare una nuova costituzione, per cui
tutte le ventuno Arti, e non solamente le maggiori, avevano parte nel governo.
Così il Comune fiorentino prese un aspetto insolitamente democratico, essendo il
popolo minuto, per il numero e per l'audacia dei suoi rappresentanti, quasi
sempre in posizione dominante.
L'accordo fra le ventuno Arti durò per 39 anni (1343-1382), ma fu continuamente
minacciato dalle diffidenze reciproche fra le Arti maggiori e le minori.
Dispiaceva infatti agli antichi popolani grassi questo progredire di artefici
minori «venuti di contado e forestieri », che non potevano né amare né aver
senno da governare la repubblica », « arroganti e senza discrezione, che erano
negli uffici e parea loro essere ciascuno un re»; onde i contrasti rinascevano
continuamente, rinfocolati da vecchi rancori di famiglie rivali, come gli
Albizzi e i Ricci. Il popolo grasso ricorse ad ogni mezzo più sleale per
paralizzare le Arti minori.
C'era a Firenze un Consiglio incaricato di
provvedere agli interessi di parte guelfa, istituito già fino dai tempi delle
lotte coi Ghibellini; esso aveva l'incarico di amministrare i beni sequestrati
ai fuorusciti, e vigilava sui cittadini che fossero in fama di parteggiare per i
Ghibellini. Di questa magistratura era padrone il popolo grasso, il quale
ottenne che al Magistrato di parte guelfa fosse dato il diritto di ammonire i
cittadini sospetti a non accettare uffici pubblici (1358). Questa ammonizione si
risolveva di fatto in una condanna all'esilio; per tal modo il popolo grasso
poteva escludere dal governo chi volesse, e infieriva naturalmente sugli uomini
più in vista delle Arti minori.
Fermento nella plebe; la guerra degli Otto Santi (1375-1378)
Ecco dunque un nuovo motivo di malcontento: ad accrescerlo si aggiunge presto il
fermento della grande massa dei salariati. Costoro si affollano nelle botteghe
degli artigiani: sono cardatori di lana, tintori, garzoni di beccai, facchini,
piccoli tessitori, vinai, braccianti, gente venuta dal contado per cercar
lavoro, migliaia di diseredati, a cui i padroni fissano per legge salari di fame
e vietano il lavoro privato.
Su di loro finiscono sempre per cadere le conseguenze dei disastri cittadini: se
viene la peste, si chiudono le botteghe e manca ad essi il lavoro; se i Bardi o
i Peruzzi falliscono, le industrie ne sentono il contraccolpo e si contraggono a
scapito dei salariati; se imperversa la carestia o il caroviveri, essi si
trovano impotenti ad affrontarli nella miseria delle loro paghe. A tanti mali ci
sarebbe un rimedio: l'organizzazione di classe; ma i popolani delle Arti
maggiori hanno sempre soffocato ogni tentativo di associazione tra i salariati,
togliendo ad essi ogni possibilità di andare al potere.
Incominciano allora veri moti rivoluzionari.
Poche
settimane dopo la cacciata del Duca d'Atene, quattromila operai percorrono le
vie gridando morte al popolo grasso, che vende caro il grano; vanno alle case
dei ricchi, ne tentano il saccheggio, e solo quando giunge il Podestà con gli
uomini armati, si ritirano, lasciando qua e là per le contrade morti e feriti.
Subito dopo uno scardassiere, Ciuto Brandini, raduna per le piazze gli operai
della lana, li esorta ad unirsi in leghe, a combattere i padroni. La Signoria lo
acciuffa e lo impicca come sovvertitore della pubblica pace (1345); ma la sua
parola si fa strada fra gli operai, specialmente fra i dipendenti dall'Arte
della lana. Nel 1368 scoppia lo sciopero dei tintori, i quali si astengono dal
lavoro per costringere i padroni ad alzare i salari, mentre questi in risposta
proclamano la serrata.
In mezzo a tali disordini sorge quel conflitto tra Firenze e il Papato, che si
suole chiamare la guerra degli Otto Santi (1375-1378). Il pontefice Gregorio XI,
desideroso di ritornare da Avignone a Roma, aveva inviato diversi legati e
truppe di ventura per riconquistare alla Chiesa le terre perdute e ristabilire
così il potere temporale. Un'incursione delle milizie mercenarie del pontefice
entro i confini del territorio comunale di Firenze fece sorgere nei cittadini il
sospetto che il papa volesse annettere tutta la Toscana allo stato pontificio.
I Fiorentini insorsero in difesa della loro
libertà, si posero alla testa delle città toscane, crearono una magistratura
speciale, gli Otto della guerra, assoldarono la compagnia di ventura di Giovanni
Acuto, dopo aver corrotto col denaro le milizie mercenarie del papa.
Gregorio XI lanciò l'interdetto contro la città, accordò a tutti i fedeli il
diritto d'impadronirsi dei beni e delle persone dei fiorentini, ed egli stesso
ne fece cacciare da Avignone circa 600 tra mercanti e banchieri (1376). Ma gli
Otto risposero con energia alle violenze papali ed ebbero larghe approvazioni
dal popolo, il quale li chiamò gli Otto Santi. La lotta non si arrestò col
ritorno di Gregorio XI a Roma (1377), quantunque si fosse interposta nella
contesa santa Caterina da Siena. Ma nel 1378, essendo divenuto papa Urbano VI
tornò la pace tra Firenze e la Santa Sede.
Il tumulto dei Ciompi (1378)
Le vicende della guerra avevano arrecato molte sofferenze alla popolazione
fiorentina, specialmente ai più poveri, che già da tempo erano irrequieti. I
tumulti scoppiarono all'indomani dell'elezione a confaloniere di Salvestro dei
Medici il quale riscuoteva il gradimento del popolo minuto, ma l'avversione del
magistrato di parte guelfa. I primi a rivoltarsi furono i piccoli artigiani, che
si accomunarono ai salariati contro il popolo grasso. Prevalsero i Ciompi, gli
operai di grado più basso dell'arte della lana, i quali cominciarono ad assalire
ed incendiare case e palazzi chiedendo aumenti salariali e riforme del lavoro;
poi attaccarono la Signoria costringendola a concedere una nuova costituzione
(1378) nella quale si stabiliva che alle ventuno arti antiche sarebbero state
aggiunte altre tre arti: quella dei tintori, quella dei farsettai e quella dei
ciompi. Queste tre "Arti Del Popolo di Dio" avrebbero avuto rappresentanti nel
governo come le altre. Michele di Lando, un operaio della lana, fu eletto
gonfaloniere di giustizia.
Ma l'arroganza della plebe non si arrestò a questo primo successo: i Ciompi, che
avevano sperato tanto da quel loro capo salito al potere, ed ora si vedevano più
miseri di prima perché tutte le botteghe stavano serrate e la fame era acuta,
elessero gli Otto Santi della balia del popolo di Dio, cioè otto popolani che
dovevano controllare l'opera della Signoria e del gonfaloniere; poi tumultuando
si recarono a palazzo per insediarvi i loro eletti e porre Firenze nelle mani
del popolo di Dio. Michele di Lando vide subito il pericolo di una nuova e più
grave rivoluzione; si armò, affrontò apertamente i suoi antichi compagni e con
la violenza li respinse, ferendone parecchi (31 agosto 1378). Allora l'Arte dei
Ciompi fu radiata dal governo, e i salariati, dopo un effimero trionfo, si
videro ricacciati nel nulla di prima. Rimasero però al potere, insieme con le
altre, le due nuove Arti dei Tintori e dei Farsettai, cosicché il tumulto dei
Ciompi portò qualche momentaneo vantaggio solo ad alcune categorie di artigiani
minuti, i quali poterono così elevarsi dall'umiltà di prima. Per tre anni ancora
la direzione degli affari politici fu dominata dalle Arti minori; ma nel 1382 un
nuovo colpo di stato portava in alto il popolo grasso delle Arti maggiori: le
due Arti più recenti furono abolite; della rivoluzione proletaria del 1378 non
rimase che il vago ricordo.
Restaurazione del governo oligarchico (1382)
Il colpo di Stato del 1382, più che ricostituire il Comune del popolo grasso,
trasformò Firenze in una vera e propria oligarchia,
in cui sotto l'esterna apparenza delle
magistrature tradizionali e dietro il fragile schermo delle Arti, decidevano
tutto le maggiori e più ricche famiglie, le quali si contendevano il primato.
Gli Albizzi, gli Alberti, i Medici, gli Strozzi, i Davanzati, i Pitti, i
Salviati e molte altre famiglie si alternavano nelle cariche pubbliche,
asservendo al proprio interesse la vita dello Stato, mercanteggiando fra loro
privilegi e malversazioni, governando la repubblica "fuori del Palagio", cioé
dai loro fondachi e dai loro banchi. Eppure tra costoro emersero belle e forti
figure di uomini di Stato, come Maso degli Albizzi (1417), Gino Capponi (1420),
Giovanni de Medici (1429), Nicolò da Uzzano (1432) : essi diedero al morente
Comune gli ultimi lampi di vitalità e di energia.
In quel periodo Firenze prese parte più o meno felicemente a quasi tutte le
guerre d'Italia e, alleata spesso con Venezia, lottò a lungo contro Gian
Galeazzo Visconti (1388-1402) e più tardi contro Filippo Maria (1422-1428) per
salvare la propria indipendenza di fronte alla preoccupante avanzata del dominio
visconteo verso il Tirreno e l'Italia centrale.
L'egemonia fiorentina sulla Toscana si riaffermò con la conquista di Pistoia,
Prato, Arezzo e finalmente con quella di Pisa (1406), che coronò una serie
interminabile di guerre, diede a Firenze, che era la città più industriale
d'Italia, un porto prezioso per i suoi commerci, e accrebbe il territorio della
repubblica. Ma la guerra contro Lucca (1429-1433), dove languiva la signoria del
vecchio Paolo Guinigi, andò male, onde i soliti malcontenti incominciarono a
tramare contro la Signoria e il partito oligarchico, accusati di incapacità
nella guerra.
Cosimo de' Medici (1434-1464)
Da mezzo secolo emergeva fra le famiglie fiorentine quella dei Medici, la quale
politicamente aveva sempre parteggiato per il popolo minuto e per la plebe.
Benché di modesta origine campagnola, i Medici si erano molto arricchiti col
traffico del danaro, prestando forti somme a papi e a principi, intervenendo in
tutti i più grossi affari commerciali di Firenze e dando vita al famoso Banco de
Medici, che con le sue succursali nei maggiori centri d'Italia e dell'estero era
divenuto il più forte organismo finanziario che mai famiglia privata avesse
posseduto. Così alla morte di Giovanni (1429), il figlio Cosimo de Medici,
sebbene continuamente osteggiato da Rinaldo degli Albizzi, divenne
per ricchezze e per clientele il primo cittadino di Firenze.
Furbo, generoso nel donare, abile nel guadagnarsi sempre nuovi seguaci, amante
delle arti e della bella vita, era caro al popolo per la bonarietà dei suoi modi
e per la munificenza. Ambizioso e avido di potere, simulava nei pubblici affari
una noncuranza un po' sorniona, ritirandosi spesso nella quiete campestre del
Mugello, come per sfuggire le noie della città. Ma tale era l'influenza sua in
Firenze, che gli Albizzi, gelosi di lui, profittando di un momento in cui la
Signoria era loro alleata, fecero arrestare Cosimo e dopo ventidue giorni di
carcere lo condannarono all'esilio per dieci anni (1433). Egli allora abbandonò
in silenzio la patria e si ritirò a Venezia, dove visse da gran signore alcuni
mesi attendendo l'inevitabile richiamo. Infatti nel settembre 1434 era eletta a
Firenze una Signoria favorevole ai Medici; la reazione scoppiava; Rinaldo degli
Albizzi era bandito dalla città, e Cosimo, richiamato dall'esilio, rientrava in
patria, accolto dal popolo acclamante. Incominciava così la Signoria dei Medici.
Scrive il Guicciardini: "Cosimo fece lo Stato, e da poi che l'ebbe fatto, se lo
godé trent'anni (1434-1464)".
Ma a tanto potere egli arrivò, non distruggendo
gl'istituti comunali, ma servendosi di essi per farne la base del proprio
dominio; onde tutto l'esterno ordinamento repubblicano restò in piedi, dando ai
cittadini l'illusione che nulla fosse mutato: naturalmente egli vigilò sempre
perché tra coloro che salivano agli uffici pubblici, mai uno s'introducesse,
contrario alla sua famiglia.
Per mezzo della Signoria, a lui fedele, fece bandire i capi della oligarchia che
gli era ostile; poi, ben sapendo come poco potesse fidarsi delle ricche famiglie
rimaste, si tenne stretto al popolo minuto, e su questo specialmente fondò la
sua Signoria. Ma non prese atteggiamenti principeschi; governò Firenze dal suo
banco, come privato cittadino, pur senza perdere mai d'occhio gli avvenimenti
all'interno e all'esterno del territorio.
In quegli anni turbinosi Firenze dovette
intervenire nelle guerre contro Filippo Maria Visconti e più tardi in favore di
Francesco Sforza. Alla sospirata pace di Lodi (1454) si giunse anche per
l'energico intervento di Cosimo. Il nome di lui è legato anche al più splendido
fiorire delle arti e delle lettere in Firenze, poiché nel suo magnifico palazzo
di Via Larga egli raccolse artisti, poeti, filosofi e dotti, amando circondarsi
di belle cose e di sapienti persone; e alla sua città lasciò monumenti fastosi,
come la chiesa di S. Lorenzo e il convento di S. Marco, opere fiorite di tutte
le eleganze del Rinascimento. Non a torto la Signoria, a lui, munifico signore,
diede il pomposo titolo di padre della patria.
Lo Stato Pontificio: i papi del secolo XV.
Durante la cattività avignonese (1305-1377), lo Stato Pontificio si era diviso
in tante piccole Signorie, le quali conservavano verso il papa una sudditanza
puramente nominale. Questa mancanza di coesione fra le singole parti dello
Stato, fu la caratteristica anche del secolo XV, cosicché mentre a Roma si
reggevano, tra grandi difficoltà, i pontefici, fuori per la Romagna, per le
Marche, per l'Umbria prosperavano i signorotti, come i Bentivoglio a Bologna, i
Riario a Imola, i Manfredi a Faenza, gli Ordelaffi a Forlì, i Malatesta a
Rimini, i Montefeltro a Urbino, i Varano a Camerino, i Baglioni a Perugia, per
non citare che i principali.
I papi cercarono di rafforzare il proprio dominio: non potendo appoggiarsi su
partiti dinastici, che per il carattere elettivo del Papato non esistevano,
richiamarono a sé i loro parenti, offrendo loro ricchezze e potenza. Questo
nepotismo diede vita ad una nuova aristocrazia, che non fece un gran bene alla
Chiesa, ma che fu indiscutibilmente una forza, che contribuì al formarsi
dell'assolutismo politico dei papi. A Roma non mancò la consueta congiura,
quella di Stefano Porcari contro Nicolò V, finita con l'arresto e l'impiccagione
di lui e dei suoi complici (1453).
Del resto i papi di quel tempo, mondani quasi tutti e più principi che
ecclesiastici, non ebbero certo gli entusiasmi religiosi di Gregorio VII o
d'Innocenzo III, e poco si curarono del prestigio della Chiesa nel mondo. Nella
politica si limitarono a questioni italiane, ma con successo assai scarso,
mancando di una stabile potenza militare: dovettero perciò lasciare in altre
mani la direzione dei maggiori avvenimenti. Né miglior fortuna ebbero nella loro
continua opera per rinnovare le Crociate contro i Turchi; poiché i tempi erano
ben lontani da Pietro l'Eremita.
L'importanza del Papato nel secolo XV fu grande solamente per lo splendido
mecenatismo, nelle arti e nelle lettere, sì che la reggia del Vaticano brillò
come un faro di civiltà nuova.
I papi del secolo XV
Papa Martino V (Ottone Colonna, romano - 1417-1431),
eletto all'indomani dello Scisma d'Occidente, ebbe un governo travagliato dalle
molte cure per il ristabilimento dell'autorità pontificia sulle pretese di
supremazia del Concilio. Il suo successore Eugenio IV (Gabriele Condulmer,
veneziano 1431-1447) ebbe un pontificato non meno burrascoso per la lotta coi
prelati ribelli del Concilio di Basilea; egli poté concludere l'unione con la
Chiesa greca, che riuscì però del tutto inefficace.
Con l'avvento di Nicolò V (Tommaso Parentucelli di Sarzana - 1447-1455) il
Papato dichiarò più apertamente il proprio favore per il movimento artistico e
letterario del Rinascimento. Il pontefice, che era un dotto, raccolse intorno a
sé le migliori intelligenze del suo tempo, e con la sua grande passione per i
libri, pose le basi della futura Biblioteca vaticana. Durante il suo pontificato
avvennero fatti importanti: l'ultima incoronazione imperiale in Roma (Federico
III d'Austria, coronato nel 1452); la congiura di Stefano Porcari (1453), la
caduta di Costantinopoli (1453) e la pace di Lodi (1454).
L'elezione di papa Callisto III (Alfonso Borgia di Valenza nella Spagna
(1455-1458) iniziò il periodo del grande nepotismo. Egli trasse in Roma la sua
famiglia, tutta gente bella, intelligente, ma scostumatissima, e l'arricchì di
benefici ecclesiastici.
Fu suo nipote il cardinale Rodrigo Borgia poi
papa col nome di Alessandro VI.
Pio II (Enea Silvio Piccolomini di Siena - 1458-1464) era stato in gioventù un
elegante umanista, molto mondano, e un discreto diplomatico. Divenuto papa, già
vecchio, si propose di promuovere contro i Turchi una grande Crociata, ma non
avendo trovato alcuna rispondenza tra i principi cristiani, ne morì di amarezza.
Paolo II (Pietro Barbo, veneziano - 1464-1471) fu uomo rude e poco tenero per i
letterati, che cacciò dal Vaticano. Battagliò coi Turchi e coi signorotti del
Lazio e tenne lontano (esempio raro) i suoi parenti. Era un appassionato
raccoglitore di gemme e di monete antiche, che teneva nel superbo palazzo, da
lui costruito quando era ancora cardinale. Il palazzo divenne poi la sede degli
ambasciatori della Serenissima e porta ancora oggi il nome di Palazzo Venezia.
Sisto IV (Francesco Della Rovere di Savona - 1471-1484) attese soprattutto ad
arricchire i suoi parenti: fece cardinali i nipoti Pietro Riario e Giuliano
Della Rovere (il futuro Giulio II); procurò ai discendenti del nipote Giovanni
Della Rovere il Ducato d'Urbino, e all'altro nipote, Girolamo Riario, diede la
signoria d'Imola e di Forlì, facendogli sposare Caterina Sforza, figlia naturale
del duca di Milano Galeazzo Maria. Brigò anche contro i Medici, e nella congiura
dei Pazzi ebbe forse una parte.
Innocenzo VIII (Giambattista Cybo, genovese - 1484-1492) fu anch'egli un grande
nepotista, parteggiò per i Medici, coi quali volle che la sua famiglia
s'imparentasse. Ebbe fiacco governo e lasciò un Collegio di cardinali così poco
esemplare, che alla sua morte si mercanteggiò la successione.
La vittoria toccò a Rodrigo Borgia (Alessandro
VI), il più indegno di tutti i papi del Rinascimento.
Non per nulla s'invocava nella Chiesa una radicale riforma.
Vicende del Regno di Napoli
Carlo I, il fondatore della dinastia angioina di Napoli, era morto nel 1285,
proprio mentre in tutta la sua violenza imperversava la guerra del Vespro. Suo
figlio Carlo II lo Zoppo, già prigioniero di Ruggero di Lauria, poté succedere
al padre (1285-1309), e firmò nel 1302 quella pace di Caltabellotta, che
riaffermava il diritto angioino sulla Sicilia, tenuta allora da Federico di
Aragona col titolo di "re di Trinacria".
Larga rinomanza ebbe il suo successore Roberto il Saggio (1309-1343), amante
delle lettere, più adatto forse allo studio che al governo (re da sermone lo
disse Dante),
amico
del Petrarca: a lui anzi l'aulico poeta si rivolse, come a sovrano dottissimo,
per essere esaminato in tutti i rami del sapere, prima di ricevere il lauro
poetico in Campidoglio. Ma trovatosi a lottare contro i baroni potentissimi,
scarso di armi e di danaro; Roberto fu costretto ad amministrare il regno
duramente, gravando i sudditi di tasse e di multe, per cui ebbe fama di
avarizia. Capo riconosciuto dei Guelfi in Italia, protetto dai papi, amico dei
Comuni, alleato e signore di Firenze, fu spinto ad opporsi all'imperatore Enrico
VII di Lussemburgo (1308-1313) quando questi discese in Italia, ma non ottenne
mai grandi e decisivi successi.
Roberto aveva avuto un solo figlio, Carlo, che gli era premorto. Mancando altri
eredi maschi, alla morte di re Roberto salì al trono la giovane figliuola di
Carlo, Giovanna I (1343-1382), alla quale l'avo per calmare le pretese del ramo
angioino di Ungheria, aveva fatto sposare il cugino Andrea, figlio secondogenito
del re d'Ungheria.
Il matrimonio fu infelicissimo: lei colta,
viziosa, amante del lusso e della gaia vita di Napoli; lui rozzo, ignorante,
brutale; ambedue ambiziosi, cupidi di assicurarsi, ciascuno per sé, il supremo
dominio, tenuto allora, per la minore età dei due principi, da un Consiglio di
reggenza.
Venne quindi la tragedia. La notte del 18
settembre 1345, mentre la coppia regale si era recata con la corte nei pressi di
Aversa, il re, tratto in un tranello, fu strozzato e buttato dalle finestre
dell'appartamento nuziale. La voce pubblica accusò la regina del delitto e
insieme con lei il cugino Luigi di Taranto, suo favorito.
Lo scandalo fu enorme; si aperse un processo, furono giustiziati parecchi
presunti complici, mentre Giovanna, sposato l'amante, fuggiva in Provenza
davanti alle truppe di Luigi il Grande, re d'Ungheria, fratello del morto,
giunto in Italia nel 1347 per fame vendetta. La terribile peste del 1348
costrinse il re ungherese ad abbandonare a metà la conquista, onde Giovanna,
venduta al pontefice per 80.000 fiorini la città di Avignone, e tratti danari da
ogni parte, raccolse truppe mercenarie e con esse riconquistò il regno; non
riuscì però a ridare la pace e la prosperità ai suoi Stati, continuamente
sconvolti dalle ruberie dei soldati di ventura, dalle rivolte dei baroni, dai
viziosi capricci della stessa regina. Né molto poté fare in tali circostanze il
grande siniscalco Nicola Acciaiuoli, un intelligente banchiere fiorentino che
era divenuto ministro, rivelando rare qualità di uomo di Stato.
Gli Angioini-Durazzeschi
L'ambiziosa Giovanna I doveva finire tragicamente. Sebbene avesse avuto
successivamente ben quattro mariti, la regina era senza un erede; perciò Carlo
di Durazzo, che apparteneva a un ramo laterale degli Angioini di Napoli, essendo
il più prossimo parente, aspirava al trono. Egli invece dispiacque a Giovanna,
la quale per odio contro di lui elesse a successore Luigi, duca d'Angiò,
fratello del re di Francia. Ma tardando il nuovo eletto a giungere a Napoli,
Carlo di Durazzo catturò la regina e la fece uccidere (1382). Poco dopo arrivava
Luigi d'Angiò, accompagnato da molti cavalieri, tra cui Amedeo VI di Savoia (il
Conte Verde), e riaccendeva la guerra civile, sedata poi improvvisamente dalla
morte di Luigi, avvenuta a Bari nel 1384.
Anche il Conte Verde morì in Puglia: Così Carlo
di Durazzo rimase solo sovrano di Napoli col nome di Carlo III, inaugurando la
dinastia degli Angioini-Durazzeschi. Di questa nuova Casa il campione fu
Ladislao (1386-1414) il quale, essendo ancora fanciullo, poté assumere lo
scettro solamente nel 1400. Giovane ambiziosissimo e senza scrupoli, egli trattò
aspramente i baroni, combatté i rivali della Casa Angioina di Francia,
profittando dei disordini provocati dallo Scisma d'Occidente occupò gran parte
dello Stato Pontificio e tenne per dieci anni la stessa città di Roma, per
assicurarsi l'appoggio del papa contro l'antipapa di Avignone, che favoriva gli
Angiò di Francia.
Fece guerra ai Fiorentini, dei quali devastò le campagne, ond'ebbe da essi il
nome di re guastagrani. Il suo sogno di conquista e di grandezza fu troncato di
colpo dalla morte, che lo raggiunse nel 1414, a soli 36 anni di età.
In quegli anni turbinosi, il Regno di Napoli aveva perduto definitivamente la
Sicilia: la regina Giovanna I, dopo un'inutile e sanguinosa guerra, era stata
costretta a rinunciare ai diritti degli Angioini sull'isola, diritti invano
affermati dal trattato di Caltabellotta (1302). La Sicilia non ebbe però né
prosperità né pace, perché continuamente straziata dalle sanguinose discordie
dei due opposti partiti, dei quali l'uno era favorevole all'indipendenza
dell'isola, l'altro voleva la soggezione al Regno d'Aragona.
Nel 1390 l'ultima discendente di Federico re di Trinacria, la principessa Maria,
costretta a fuggire in Aragona, sposava il principe Martino, della Casa
d'Aragona; portandogli in dote i suoi diritti sulla Sicilia. I due sposi
riuscirono a rientrare nell'isola dopo una lotta accanita col partito avversario
e salirono sul trono; ma essendo essi morti dopo qualche anno senza lasciare
eredi, la Sicilia passò direttamente sotto la Casa di Aragona (1409), la quale
fino dal 1326 possedeva anche la Sardegna, sottratta ai Pisani.
Intanto alla morte di Ladislao (1414) saliva al trono di Napoli la sorella di
lui Giovanna II (1414-1435), matura di anni, ma volubile e dissoluta come
Giovanna I. Presso la regina aveva grande influenza il famoso capitano Attendolo
Sforza, il quale con le sue truppe combatté il rivale Braccio da Montone, altro
grande condottiero, che, profittando dei disordini dello Stato Pontificio,
mirava a farsi colà uno Stato per sé.
Lo Sforza lo sconfisse e occupò Roma, offrendola
poi a papa Martino V, quando questi, sedato lo Scisma d'Occidente, rientrò nello
Stato Pontificio e riconobbe Giovanna come regina di Napoli (1419). Ma più
tardi, essendo salito ad alti onori presso la regina il ministro Gianni
Caracciolo, lo Sforza si voltò contro Giovanna e appoggiò con le sue armi le
pretese di Luigi III d'Angiò del ramo francese degli Angioini. Perciò la regina,
che non aveva figli, temendo di perdere il trono, adottò come erede e successore
Alfonso, allora re di Aragona, di Sicilia e di Sardegna (1420), il quale venne e
iniziò la guerra contro Luigi III e lo Sforza, servendosi delle bande di Braccio
da Montone.
Ed ecco improvvisamente Giovanna cambiare politica: insospettita della potenza e
dell'ambizione del suo figliuolo d'adozione, disdisse quanto aveva fatto, nominò
suo erede Luigi III d'Angiò (1423), e con doni e lusinghe trasse a sé lo Sforza.
La lotta continuò fra i due condottieri rivali, ma ancora per poco: lo Sforza
peri nell'attraversare a guado il Pescara, e Braccio, ferito in uno scontro,
morì qualche tempo dopo.
La guerra dunque cessò improvvisamente, tanto più che Alfonso d'Aragona,
richiamato nella Spagna da una guerra, dovette ritirarsi, lasciando libero il
campo a Luigi III, che visse poi tranquillamente in Calabria fino al 1434.
Giovanna II seguitò a regnare, senza però riuscire mai a far risorgere
l'autorità regia, umiliata continuamente dai superbi baroni. Da costoro infatti
fu assassinato il suo ministro Caracciolo; da costoro fu impedita quella riforma
dei tribunali e dell'amministrazione che la regina voleva promuovere, ma che
urtò contro le opposizioni invincibili della nobiltà feudale.
La dinastia aragonese di Napoli
Nel 1435, un anno dopo Luigi III, moriva Giovanna II, donna viziosa, incostante
o, come dice uno storico di quel tempo, "stabile solo nella sua instabilità";
con lei il regno aveva vissuto giorni assai tristi di disordine e di decadenza.
Alla sua morte, fu il caos, poiché d'ogni parte sorsero i pretendenti: Renato
d'Angiò, fratello del morto Luigi III, Alfonso d'Aragona, e da ultimo il papa,
il quale avrebbe voluto essere arbitro della contesa.
Primo a giungere fu Alfonso, il quale sbarcato,
in Italia, pose l'assedio a Gaeta, che si era data a Renato. Il duca di Milano,
Filippo Maria Visconti, allora signore di Genova, parteggiando per l'Angioino,
mandò una flotta genovese nelle acque napoletane; Alfonso l'attaccò presso
l'isola di Ponza, ma fu sconfitto, catturato e condotto prigioniero a Milano
(1435). La causa pareva vinta per Renato. Quand'ecco giungere un'improvvisa
notizia: il duca di Milano, sedotto dall'ingegno di Alfonso e timoroso
dell'influenza francese in Italia, aveva cambiato politica e, rilasciato libero
l'Aragonese, si alleava con lui, aiutandolo a conquistare il regno.
Arse allora per tutta l'Italia la guerra, che
altro non era se non un episodio della lunga contesa fra il Ducato di Milano e
la Serenissima: alla guerra presero parte i Veneziani, i Fiorentini e il papa.
Finalmente nel 1442 Alfonso prendeva Napoli, costringeva Renato alla fuga, e
qualche mese dopo, rinnovando le usanze degli antichi imperatori romani, faceva
il suo solenne ingresso nella capitale, su di un carro dorato, seguito dai
grandi, dal clero e dall'esercito, tra le vie pavesate e gremite di popolo.
Rimane tuttora di quelle feste sfarzose un ricordo nel superbo arco di trionfo,
che egli fece poi erigere all'entrata di Castel Nuovo in Napoli.
Alfonso il Magnanimo (1442-1458), come lo chiamarono gli umanisti, di cui amò
spesso circondarsi, fu sovrano ricco di non comuni doti d'ingegno, ma rimase
celebre specialmente per il fasto del suo regno e per l'amore alle arti e alle
lettere. Le spese eccessive, da lui fatte, gravarono però troppo su quelle
povere popolazioni, già tanto immiserite dalle guerre civili e dallo
sfruttamento baronale. Tuttavia egli si mantenne saldo sul trono, contro gli
Angioini, che mai abbandonarono l'idea della riconquista, e contro i baroni, che
lo temettero per la sua potenza.
Padrone dell'Aragona, della Sardegna, della Sicilia e di Napoli, Alfonso era
certamente il sovrano più potente d'Italia. Egli avrebbe potuto anche risolvere
in modo definitivo il problema della unità del regno meridionale; invece non lo
volle, e mantenne tra l'isola e il continente la separazione amministrativa di
prima. Anzi, morendo nel 1458, lasciò il Regno di Napoli al figlio naturale
Ferdinando, mentre affidò la Sicilia con l'Aragona e la Sardegna al fratello
Giovanni: l'isola, così cara a Federico II di Svevia, perdette allora perfino il
titolo regio e divenne un modesto vicereame aragonese.
Il re Ferdinando I (1458-1494) non poté subito entrare in possesso del Regno di
Napoli, perché l'opposizione di non pochi baroni gli suscitò contro come rivale
Giovanni d'Angiò, figlio di Renato, il quale, sceso in Italia e assoldato il
capitano di ventura Iacopo Piccinino, ridusse a mal partito l'Aragonese. Ma nel
1462, ricevuti rinforzi dal duca di Milano Francesco Sforza, Ferdinando
sconfisse l'Angioino a Troia, lo costrinse a fuggire in Provenza, e, tratto in
un tranello il Piccinino, lo fece uccidere. Non riuscì però a pacificare il
regno, perché volendo rinforzare l'autorità regia e trattando duramente i
baroni, se li rivoltò tutti contro. La famosa congiura dei baroni, scoppiata nel
1485, si risolse in una guerra civile, alla quale diede il suo appoggio anche il
papa Innocenzo VIII, desideroso di affermare i diritti della Santa Sede sul
Regno di Napoli.
Interpostosi Lorenzo il Magnifico, la guerra cessò. Ma re Ferdinando gravò
terribilmente la sua mano sui baroni ribelli, sfogando contro di essi il suo
spirito di vendetta. Le uccisioni, le confische di beni, le espulsioni acuirono
gli odi del baronaggio contro la monarchia, la quale ne rimase ancor più
indebolita.
La politica d'equilibrio fra gli Stati italiani
(1454-1494)
Nelle lunghe guerre del periodo dell'espansione (1313-1454) i maggiori Stati
italiani, dopo avere assorbito gli Stati più piccoli, avevano tentato di
sopraffarsi l'un l'altro, ma non erano riusciti che a logorare le loro forze in
guerre inconcludenti. Convinti ormai di aver raggiunto la massima estensione
territoriale, si erano rassegnati a concludere la pace di Lodi (1454), e avevano
iniziata una nuova politica, fondata su un sapiente gioco di alleanze e di
influenze, che, controbilanciando le forze rivali, portasse ad uno stabile
equilibrio. Questo gioco riuscì bene, tanto che, per quarant'anni, dalla pace di
Lodi (1454) alla calata di Carlo VIII, re di Francia, l'Italia godette di una
pace quasi continua. Perno di tale equilibrio furono Cosimo dei Medici prima e
Lorenzo il Magnifico poi, che furono i moderatori supremi della pace.
Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze
(1469-1492).
Il
vecchio Cosimo dei Medici, il « padre della patria » morendo nel 1464, lasciava
erede del suo nome e delle sue enormi ricchezze il figlio Piero, debole e
cagionevole, che dopo cinque anni di signoria morì (1469), cedendo il posto ai
suoi figli Lorenzo, appena ventenne, e Giuliano, di sedici anni. Lorenzo, per
ingegno e per capacità di governo, stava molto al di sopra dei suoi scarsi anni.
Cresciuto ai tempi di Cosimo, amante come lui del fasto e delle arti, coltissimo
e geniale, astuto negli affari, pronto nella politica, dissimulatore e audace
nella diplomazia, egli è il vero principe del Rinascimento, il naturale
dominatore della ricca e raffinata Firenze. Riallacciandosi alla tradizione di
Cosimo, Lorenzo il Magnifico (come lo definirono i Fiorentini), si rese ancor
più fermamente padrone della Signoria, modificando parecchie volte le
istituzioni repubblicane in modo da precludere ad ogni suo avversario la via del
potere; né esitò di fronte a repressioni energiche, che rinnovarono i bandi del
tempo di Cosimo. Non é quindi da stupire se gli oppositori misero in campo la
congiura detta "dei Pazzi" (1478).
I Pazzi erano tra le famiglie più ostili alla Casa dei Medici; accordatisi coi
Riario, nipoti di papa Sisto IV, con Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa, e
con altri nemici di Lorenzo, il giorno 26 aprile 1478 nel duomo di Firenze
assalirono Giuliano e Lorenzo, che assistevano al rito religioso, e tra un
tumulto indescrivibile uccisero Giuliano, mentre Lorenzo, leggermente ferito, si
ritirava, sempre difendendosi con la spada, nella sagrestia, di cui il Poliziano
sbarrava le porte. Ma i congiurati, che subito avevano cercato di sollevare il
popolo, trovarono nella città accoglienze così ostili, che pensarono di salvarsi
con la fuga. I congiurati, raggiunti, furono giustiziati sommariamente a furor
di popolo. L'arcivescovo Salviati fu impiccato a una delle finestre del palazzo
della Signoria. Per un mese si continuò con vendette e uccisioni. Papa Sisto IV,
che aveva dato il suo assenso ai nipoti Riario « perchè si mutasse lo stato in
Fiorenza », visto l'esito infelice della congiura e saputa la miseranda fine
dell'arcivescovo di Pisa, lanciò l'interdetto contro Firenze e le mosse guerra
alleandosi col re di Napoli. Lorenzo, fiducioso nella sua abilità diplomatica,
andò a porsi nelle mani dello stesso re di Napoli, Ferdinando I, riuscì a
distaccarlo dalla lega del papa, e indusse questo a far pace con Firenze (1480).
La congiura dei Pazzi e l'esito brillante della controversia con Roma accrebbero
in Firenze e per tutti gli Stati italiani la stima nei confronti di Lorenzo,
così che costui, servendosi della propria potenza politica e finanziaria, poté
dedicarsi alla pacificazione dell'Italia, riaffermando la politica d'equilibrio
fra i vari Stati, e divenendo come giustamente fu detto, « l'ago della bilancia
tra i principi d'Italia ». Grande fu anche l'entusiasmo con cui il Magnifico
protesse le arti e le lettere, circondandosi, come già aveva fatto Cosimo, di
artisti, di poeti, di dotti, abbellendo Firenze di tesori d'arte, poetando,
divertendo il popolo con allegre mascherate e portando la vita del Rinascimento
al più alto splendore. La sua morte, avvenuta nel 1492, segnò una perdita per la
cultura e per la pace in Italia.
L'inizio della crisi della libertà italiana.
Il Ducato di Milano era certamente, fra gli Stati italiani, uno dei più potenti
e più ricchi. Dal superbo Castello Sforzesco i duchi reggevano il ducato con
energia di guerrieri e con signorilità di mecenati: le città si abbellivano e
s'ingrandivano, le industrie fiorivano, i traffici si moltiplicavano per le
grandi vie lombarde e per i magnifici canali, che legavano Milano al Ticino, al
Po, all'Adda, ai grandi laghi alpini.
Purtroppo però gli Sforza parvero avere ereditato dai Visconti anche la durezza
d'animo e la violenza.
Francesco Sforza, fondatore della dinastia, mori nel 1466. A lui succedette il
crudele figlio Galeazzo Maria (1466-1476), assassinato dieci anni dopo nella
chiesa di Santo Stefano da un Olgiati, da un Visconti e da un Lampugnani. Rimase
la vedova, Bona di Savoia, tutrice del piccolo Gian Galeazzo, assistita dal
consigliere Cicco Simonetta.
Ma Lodovico Sforza, detto il Moro, fratello del morto duca, con astuzia ottenne
dalla reggente la condanna del consigliere, poi allontanò anche Bona di Savoia
dal palazzo (1480) e relegò il giovane Gian Galeazzo con la giovanissima sua
moglie Isabella d'Aragona nel castello di Pavia, usurpando il trono al nipote.
Uomo grandissimo per ingegno e per mecenatismo, ma crudele e ambiziosissimo,
Lodovico il Moro fu, secondo molti storici, la rovina della sua famiglia, del
ducato, dell'Italia intera. Poiché, temendo per la sua sorte, non esitò a
rompere l'equilibrio politico italiano facendo guerra al re di Napoli: sicuro di
non poterlo vincere con le proprie armi, chiamò in aiuto le armi straniere.
La debolezza militare italiana di fronte allo straniero.
L'Italia stava per subire l'urto militare di Francia e Spagna, due nazioni che,
avendo conseguita l'unità politica, si presentavano come le due più vaste e
potenti monarchie d'Europa. L'Italia, divisa in tanti piccoli Stati, apparve
subito assai debole. E tale debolezza era tanto più grave, quanto più critico
era il momento: infatti in quei giorni i grandi Stati europei iniziavano una
graduale trasformazione di tutto il loro ordinamento militare.
In Francia il re Carlo VII con l'istituzione dei franchi-arcieri aveva dato
l'idea di un reclutamento fra i cittadini, idea che, svolta poi nei secoli XVI e
XVII, portò alla formazione dell'esercito nazionale, gloria della monarchia
francese. Eserciti reclutati in tal modo dovevano naturalmente essere tanto più
numerosi quanto più abbondante era la popolazione dello Stato: l'ampiezza
territoriale e la ricchezza demografica divennero così coefficienti di potenza
militare. Tuttavia nei secoli XV e XVI il grosso degli eserciti fu ancora
composto con soldati mercenari, seriamente istruiti nel mestiere delle armi e
ordinati in grosse Compagnie: la fanteria svizzera, con le sue formazioni
serrate, con la tenace disciplina, con l'abile maneggio delle lunghe lance, fu
per parecchi decenni la milizia più progredita e più ricercata d'Europa. Essa
però si offriva a chi meglio la pagava, onde i re di Francia e di Spagna, che
disponevano di grandi ricchezze, poterono assoldare le migliori truppe e
talvolta anche corrompere, con la promessa di più laute paghe, le milizie del
nemico: mai come allora il danaro fu il nerbo della guerra.
E ciò divenne ancor più evidente quando, appunto tra il XV e il XVI secolo, si
incominciarono a introdurre negli eserciti le costose armi da fuoco. Le prime
applicazioni pratiche della polvere da sparo avvennero sul declinare del secolo
XIV, quando si costruirono bombarde e mortai per il lancio di grosse palle di
granito contro le mura delle fortezze assediate.
Nel secolo XV s'inventarono i cannoni, generalmente di grosso calibro, vera
artiglieria da fortezza e quindi poco maneggevole: il Machiavelli, che pure era
esperto di cose militari, giudicava quei grossi pezzi come un vero ingombro. Ma
a poco a poco si fecero calibri più piccoli e si studiò un più agile montaggio,
cosicché l'artiglieria campale potè dirsi creata. Intanto s'inventava
l'archibugio: esso era dapprima così pesante, che al suo maneggio erano
necessari almeno tre soldati; più tardi però si venne facendo sempre più
leggero, finché un solo soldato poté adoperarlo. Allora l'uso delle armi da
fuoco si diffuse in tutti gli eserciti.
Anche per tutto il nuovo e costoso armamento di cannoni e di archibugi occorreva
una larghezza di mezzi, che solamente i grandi Stati avevano. Né era possibile
sottrarsi a queste nuove esigenze militari, poiché l'introduzione delle armi da
fuoco trasformò a poco a poco tutta l'arte della guerra, rese inutili le corazze
medioevali, inefficace l'uso della cavalleria, poco apprezzata la bravura
personale nel maneggio della spada.
Divennero invece sempre più necessarie le fanterie bene armate; inoltre, data la
forte mortalità prodotta in battaglia dalle armi da fuoco, si resero
indispensabili eserciti molto numerosi e riserve abbondanti. Allora si dovette
ricorrere alle leve e al servizio militare obbligatorio, istituzioni che
cominciano ad apparire nel secolo XVI, si sviluppano nel secolo seguente, finché
divengono comuni a tutti i maggiori Stati europei nel Settecento. Il vero
esercito nazionale appare così costituito. Per la formazione di esso le
monarchie occidentali avevano del resto i quadri già pronti nell'antica nobiltà
feudale, per tradizione dedita alle armi. Infatti negli eserciti nazionali per
parecchi secoli l'ufficialità fu composta esclusivamente di nobili.
Di fronte alla potenza militare della Francia e della Spagna, l'Italia non
poteva presentare un solido ordinamento militare. Di milizie nazionali aveva
parlato angosciosamente il Machiavelli, il quale aveva tentato anche di
istituirne (le famose « ordinanze »), ma nessuno si era curato di imitarlo: la
terra classica dei « Condottieri » seppe produrre grandi capi, valorosi
combattenti e strategia nuova, ma non poté creare ciò che costituisce la vera
forza dello Stato, l'esercito. Mancando fra noi lo Stato unitario, non si può
naturalmente pensare a un esercito nazionale, come per la Francia; ma nemmeno si
può parlare di eserciti veneziani, milanesi o fiorentini, poiché né Venezia, né
Milano, né Firenze pensarono mai a creare un esercito statale, con leve
obbligatorie come in Francia: dopo il tramonto delle vecchie milizie comunali, i
maggiori Stati italiani non ebbero che milizie di ventura.
Nei secoli XV e XVI nessun paese era più civile e più bello del nostro: durante
il miracoloso Rinascimento, natura ed arte parevano aver trasformato la penisola
in un paradiso di delizia, d'intelligenza, di finezza. I ricchi commerci di
Genova e di Venezia, le industrie di Firenze e di Milano avevano poi fatto
affluire in Italia enormi ricchezze, che, mal difese dalla nostra inerzia
militare, eccitavano la cupidigia dei popoli oltramontani, meno civili, ma più
forti. L'Italia era dunque per gli stranieri « la bella preda ».
La calata di Carlo VIII in Italia (1494) -
Lo stato che per primo approfittò della debolezza italiana fu la Francia; ma la
responsabilità di averle aperto le porte d'Italia spetta a Lodovico il Moro.
Questi, dopo aver usurpato il Ducato di Milano al nipote Gian Galeazzo, temendo
la vendetta del re di Napoli, Ferdinando di Aragona, avo di Isabella, moglie del
principe spodestato, convinse Carlo VIII re di Francia a far valere i suoi
diritti, come successore degli Angioini, sul Regno di Napoli. Lodovico pensava
in tal modo di liberarsi della minaccia aragonese.
La effimera conquista francese del Regno di Napoli (1494) -
Carlo VIII, figlio di Luigi XI, sebbene deforme, aveva grande ambizione e
accolse con entusiasmo l'invito di Lodovico il Moro, rifiutando il parere
contrario del proprio Consiglio e pensando, nella sua giovanile inesperienza, di
potersi poi lanciare da Napoli in una romanzesca Crociata contro i Turchi. Nel
settembre del 1494 Carlo VIII, presi con sé 40.000 uomini e molta artiglieria,
attraversò il Monginevro, discese nel Piemonte ed entrò in Lombardia. Fu accolto
onorevolmente da Lodovico il Moro; tuttavia volle visitare nel castello pavese
Gian Galeazzo, ascoltandone le lamentele contro lo zio. Poco dopo il giovane
principe moriva; allora Lodovico il Moro prese apertamente il titolo di Duca di
Milano, ottenendone la conferma dall'imperatore Massimiliano I.
Il re di Francia, varcato l'Appennino, avanzava nel territorio della Repubblica
fiorentina. Ma Piero dei Medici, ben lontano dall'abilità diplomatica di suo
padre Lorenzo, non seppe fare altro che correre incontro al re per offrirgli
alcune fortezze, le città di Pisa e Livorno in pegno e un omaggio di 200.000
fiorini. Con tale condotta irritò molto i Fiorentini, i quali cacciarono i
Medici ripristinando il regime di libertà. Il re, entrato spavaldamente in
città, richiese le somme pattuite con Piero, minacciando di ricorrere alla
violenza. Ma Pier Capponi gli lanciò arditamente la frase famosa: « Voi sonate
le vostre trombe e noi soneremo le nostre campane! »; onde Carlo VIII scese a
più miti consigli e, ridotto il tributo, partì da Firenze.
Papa Alessandro VI, amico degli Aragonesi di Napoli, vedendo con quale rapidità
il re attraversava l'Italia senza resistenza alcuna, scese a patti, umiliandosi
fino a consegnare al re in ostaggio il proprio figlio Cesare Borgia. La via era
dunque libera verso Napoli, dove intanto al vecchio Ferdinando I, morto alcuni
mesi prima, era succeduto Alfonso II, odiatissimo dai baroni. Non sentendosi
sicuro, egli abdicò in favore del figlio Ferdinando II (detto Ferrandino), il
quale tentò la resistenza, finché, abbandonato dai suoi, dovette fuggire ad
Ischia. Così senza colpo ferire e (come diceva con una battuta di spirito il
papa) « con gli speroni di legno e il gesso per segnare gli alloggiamenti » il
re di Francia divenne padrone del Regno di Napoli.
La riscossa italiana: la battaglia di Fornovo (1495)
La facilità con cui un re straniero aveva potuto liberamente trascorrere
l'Italia, finì per aprire gli occhi ai principi italiani, e prima di tutti allo
stesso Lodovico il Moro, il quale, sicuro ormai del suo ducato, non vedeva con
animo tranquillo il rapido affermarsi della potenza francese in Italia. Perciò,
auspice Venezia, che si era finora tenuta troppo in disparte sperando
egoisticamente di trarre vantaggi dalle conquiste di Carlo VIII, fu stretta una
lega, a cui presero parte, oltre la Repubblica di San Marco, il papa, Lodovico
il Moro e i Gonzaga di Mantova. Sfortunatamente entrarono nella lega anche due
sovrani stranieri, l'imperatore Massimiliano I d'Austria e Ferdinando il
Cattolico di Spagna, i quali, nemici della Francia, cominciarono ad interessarsi
troppo degli affari d'Italia, cercando a spese di questa il proprio tornaconto.
Ad ogni modo gli alleati riunirono un forte esercito sotto il comando del duca
di Mantova, Giovanni Francesco II Gonzaga, con lo scopo di tagliare la via del
ritorno a Carlo VIII, il quale, presentendo la burrasca, si era affrettato a
lasciare Napoli, e affannosamente si ritirava attraverso lo Stato Pontificio e
la Toscana per raggiungere il Passo della Cisa. Lo scontro avvenne a Fornovo,
sul Taro, e, sebbene violentissimo, non diede la vittoria ad alcuno (6 luglio
1495). L'artiglieria francese ebbe ragione della resistenza delle fanterie
italiane e aperse il varco; ma i nostri riuscirono a portar via ai nemici i loro
carri e gran parte del bottino. Così Carlo VIII, attraverso Piacenza e Tortona,
passò in Piemonte e rientrò in Francia quasi come un fuggiasco.
Intanto, vinta la resistenza delle poche truppe francesi rimaste a Napoli,
Ferdinando II risaliva sul trono; ma essendo stato aiutato dai Veneziani, questi
ottennero il possesso di parecchi porti pugliesi, come Trani, Brindisi, Otranto,
Gallipoli e il monopolio del commercio di quelle attive regioni agricole.
Dell'impresa di Carlo VIII nulla rimase : «gloria e fumo» disse un cronista
francese; più fumo che gloria pensarono forse gl'Italiani. Eppure questa
romanzesca cavalcata attraverso la penisola aveva dimostrato come fosse facile,
a chiunque sapesse introdursi tra le rivalità dei nostri piccoli Stati, correre
da padrone l'Italia intera.
Fra Gerolamo Savonarola a Firenze
Mentre quasi tutti gli Stati italiani tornavano più o meno nelle condizioni di
prima, Firenze aveva inaugurato una nuova forma di governo popolare, sotto
l'influenza del domenicano Fra Gerolamo Savonarola. Nato a Ferrara, educato
nell'austerità di una vita monastica rigidissima, incline per natura più agli
studi teologici che al culto delle belle lettere, egli aveva concepito per tutto
il movimento del Rinascimento un'avversione invincibile, ritenendolo la causa
prima della corruzione dei tempi e della decadenza del Papato.
Quando dall'alto del pulpito egli parlava al popolo fedele, la sua eloquenza
dura, violenta, infarcita di misteriose citazioni latine, piena di minacce
apocalittiche, lasciava negli ascoltatori un'impressione profonda.
A Bologna, con coraggio ammirevole, il Savonarola aveva denunciato dal pulpito
la superbia e il malcostume dei Bentivoglio anche di fronte alle più gravi
intimazioni.
Venuto a Firenze proprio nel periodo del dominio di Lorenzo il Magnifico,
cominciò a predicare, nella chiesa di S. Marco contro la corruzione dilagante,
contro le facili letture e le arti seduttrici, non risparmiando né il Magnifico
né la Curia romana.
La morte di Lorenzo (1492), poi la cacciata dei Medici (1494), favorirono
l'opera del Savonarola. Con l'autorità, che aveva saputo conquistarsi in mezzo
al popolo, il frate divenne arbitro fra i partiti, e promosse una riforma della
Costituzione cittadina (dicembre 1494), che si ispirava in parte alla
Costituzione della Repubblica veneta e tendeva a conciliare le tradizioni
democratiche di Firenze con le aspirazioni della oligarchia. A similitudine
quindi del Maggior Consiglio veneto, fu istituito un Consiglio maggiore,
composto di cittadini di almeno trenta anni, i cui antenati avessero esercitato
le maggiori cariche del Comune: questa assemblea sostituiva i vecchi Consigli
del Popolo e del Comune, ricordo delle lotte medievali, ed eleggeva un corpo di
ottanta membri, il così detto Consiglio degli Ottanta, il quale, a somiglianza
del Senato veneziano, trattava gli affari più importanti della repubblica.
Animato dal successo, il Savonarola si atteggiò a dittatore, carezzò il popolo
con leggi ad esso favorevoli, combatté l'usura, istituì il Monte di pietà, tassò
pesantemente i ricchi. Fantasticando un singolare governo teocratico, fece
proclamare Cristo «re di Firenze» in mezzo all'entusiasmo religioso delle folle.
Poi venne il bruciamento delle vanità: per le vie fiorentine comparvero file
devote di fedeli, di frati salmodianti, di donne in gramaglie: il Savonarola
dirigeva queste schiere, che implorando da Dio misericordia, andavano a
bruciare, in Piazza della Signoria, i libri immorali, le pitture oscene, le
vesti lussuose, le raffinatezze del Rinascimento.
E intanto dal pulpito di S. Marco il frate riprendeva la predicazione,
scagliandosi soprattutto contro l'immoralità del clero e della Curia romana.
Infatti nel 1492, alla morte di Innocenzo
VIII, era stato eletto pontefice il cardinale Rodrigo Borgia, spagnolo di
origine, nipote di papa Callisto III, notissimo per la sua scostumatezza. Egli
aveva preso il nome di Alessandro VI, ma non aveva cambiato il modo della sua
vita: la corte papale era divenuta una gaia reggia, dove affluivano le più
ricercate delizie della via del Rinascimento e fioriva il malcostume, auspice il
corrotto figlio del papa, Cesare Borgia, da lui creato cardinale.
Il Savonarola, che sospettava come anche l'elezione di Alessandro VI fosse stata
simoniaca, accusò il pontefice di corruzione minacciandolo della vendetta di
Dio. E' facile immaginare l'impressione che le parole del frate fecero sul
pubblico e lo sdegno che suscitarono a Roma. Il papa impose al bollente
predicatore di moderare il suo linguaggio; poi gli proibì addirittura di parlare
in pubblico, e, non avendo il frate obbedito, gli lanciò la scomunica (1497). Il
Savonarola non si scompose e continuò a parlare e ad agire con imperterrita
sincerità.
Una minaccia d'interdetto, giunta da Roma al governo di Firenze, mise in grave
apprensione la cittadinanza intera, in mezzo alla quale levarono la
testa tutti gli oppositori: contro il frate e i suoi seguaci, detti Piagnoni, si
agitarono con odio gli aristocratici (Arrabbiati), i partigiani dei Medici (Bigi
o Palleschi) e i nemici delle malinconiche riforme morali (Compagnacci); tutti
attesero il momento opportuno per abbattere il Savonarola.
L'occasione si presentò quando un frate francescano si offerse di provare
davanti al popolo che il Savonarola era un eretico, sfidandolo a un giudizio di
Dio. Un domenicano, Fra Domenico da Pescia, ardente fautore del profeta, accettò
la sfida: la mattina del 7 aprile 1498 il rogo era pronto, e già i due
contendenti si accingevano a passare in mezzo alle fiamme alla presenza del
popolo, quando nacque fra loro una interminabile discussione: intanto il tempo
minaccioso disperdeva gli astanti, lasciando tutti delusi per il mancato
spettacolo. Del momento approfittarono gli Arrabbiati, che, assalito il convento
di S. Marco, trassero prigioniero il Savonarola, e dopo qualche settimana, con
un processo sommario a cui assistettero anche i messi papali, lo condannarono al
rogo come eretico. L'esecuzione avvenne nella Piazza della Signoria il 23 maggio
1498.
La repubblica sopravvisse alla morte dell'austero frate, e per parecchi anni
diede segni di energia nel lungo conflitto con Pisa (1495-1509), la quale fino
dai tempi di Carlo VIII aveva rivendicato violentemente la sua libertà. Nel 1502
gli ordinamenti fiorentini subirono però una modifica grave con la creazione del
Gonfalonierato a vita, una specie di Signoria legale, destinata a mantenere
unito il popolo di fronte ai continui tentativi di restaurazione medicea. Fu
eletto a tale carica Pier Soderini: il giovane Nicolò Machiavelli fece parte
allora della segreteria della repubblica fiorentina. Questo stato di cose durò
fino al 1512, quando, in seguito a vicende politiche e militari, i Medici
poterono rientrare in Firenze.
Discesa di Luigi XII in Italia (1499); i Francesi a Milano, gli Spagnoli a
Napoli. -
Nel 1498, a soli 28 anni d'età, Carlo VIII moriva, lasciando erede del trono di
Francia Luigi XII, dei Valois-Orléans, giovane scaltro ed ambizioso, eccellente
sovrano, ma, come disse il Machiavelli alludendo alle gesta del re in Italia,
«tanto buono in casa quanto cattivo fuori».
Il nuovo sovrano riprese il sogno di conquista di Carlo VIII, ma con ben altri
mezzi materiali e con ben diversa intelligenza. Del resto egli poteva vantare
diritti non solamente sul Regno di Napoli, come tutti i re francesi, ma anche
sul Ducato di Milano, perché suo nonno, il duca di Orléans, aveva sposato nel
1389 Valentina Visconti, figlia di Gian Galeazzo, primo duca di Milano, mentre
gli Sforza fondavano i loro diritti sul matrimonio di Francesco Sforza con
Bianca Maria, figlia illegittima di Filippo Maria Visconti. Luigi XII, come
discendente ed erede di Valentina Visconti, possedeva già la Contea d'Asti, che
era stata la dote della nonna; aveva quindi in Italia una base sicura per una
eventuale guerra contro Milano o contro Napoli.
La conquista del Ducato di Milano, dove Lodovico il Moro aveva tanti nemici,
parve a lui più urgente e più facile. Per assicurarsene l'esito, volle dapprima
consolidare la propria posizione in Francia. Perciò aperte col papa Alessandro
VI trattative amichevoli, da lui ottenne di poter divorziare dalla propria
moglie per sposare la vedova di Carlo VIII, che, portandogli in dote la grossa
Contea di Bretagna, gli assicurava l'unità politica della Francia; in compenso
il re concesse il Ducato di Valentinois al figlio del papa, Cesare Borgia, il
quale da allora, deposta la porpora cardinalizia, fu un principe laico, chiamato
comunemente dal suo feudo «il Valentino».
Assicuratasi l'amicizia del pontefice, il re si rivolse a Venezia, senza il cui
consenso non era possibile tentare un colpo su Milano, e le offerse, in compenso
dell'alleanza, l'acquisto della parte più orientale del ducato, cioè Cremona e
la Ghiara d'Adda, territorio tra il basso Serio e l'Adda con la cittadina di
Crema. L'offerta era seducente: si trattava di un altro passo decisivo verso una
futura conquista di Milano. E Venezia aderì.
Sulla fine del 1499 l'esercito francese, passando, come di consueto, attraverso
il Ducato di Savoia, varcò la Sesia, mentre le truppe veneziane guadavano
l'Adda. Preso tra due fuochi, Lodovico il Moro uscì da Milano, accompagnato da
pochi fedeli, portando seco enormi ricchezze, mentre entravano i Francesi,
condotti dal celebre condottiero milanese Gian Giacomo Trivulzio, nemico degli
Sforza.
Ma i nuovi dominatori si fecero tanto odiare, che Lodovico il Moro, assoldati
8000 Svizzeri e appoggiato dai suoi amici di Milano, poté rientrare in città e
riprendere il governo. Luigi XII mandò allora rinforzi, e con danari comprò i
soldati sforzeschi. Questi, allorché si scontrarono a Novara (1500) con
l'esercito francese, nel quale erano molti i mercenari svizzeri, col pretesto di
non poter combattere contro connazionali, abbassarono le armi. Invano Lodovico
il Moro supplicò, promise, minacciò: essi abbandonarono il campo, e ritornarono
ai loro monti, impadronendosi per via di Lugano e Bellinzona, allora terre del
Ducato di Milano, incorporate più tardi nella Confederazione svizzera, dove
formarono il Canton Ticino. Lodovico il Moro, fatto prigioniero sul campo, fu
inviato in Francia, dove morì nel 1510. Luigi XII fu padrone di Milano e i
Veneziani occuparono le terre pattuite.
La conquista spagnola del Regno di Napoli
Se la conquista del Ducato di Milano era stata una facile impresa, un po' più
complessa si presentava la questione del Regno di Napoli, la cui dinastia
aragonese, credeva di poter contare sull'appoggio di Ferdinando II il Cattolico,
re di Spagna, Sardegna e Sicilia. A Napoli, morto in giovanissima età Ferdinando
II (il Ferrandino spodestato da Carlo VIII e poi rientrato in possesso del suo
regno), nel 1496 era divenuto sovrano Federico III, prozio del re morto: egli,
conoscendo le mire di Luigi XII, si rivolse a Ferdinando II il Cattolico nella
certezza di essere aiutato da lui, suo stretto parente. Era stato invece
prevenuto dall'astuto re di Francia, il quale aveva stretto segretamente col re
spagnolo un accordo (patto di Granata - 1500) per la spartizione del Napoletano:
ai Francesi sarebbe toccata Napoli con la Campania e l'Abruzzo, agli Spagnoli il
rimanente. Così l'impresa divenne agevole. Entrati i Francesi nel regno,
Ferdinando il Cattolico inviò un esercito comandato dal famoso Consalvo di
Cordova, il quale occupò senz'altro le terre assegnate alla Spagna. Al re
tradito non rimase che affidarsi alla generosità di Luigi XII, che mandò
Federico III in Francia, assegnandogli il Ducato d'Angiò e una rendita
vitalizia. Così dopo sessanta anni finiva la dinastia aragonese di Napoli.
Ma nella spartizione del bottino scoppiò la discordia tra Francesi e Spagnoli,
onde una nuova guerra più micidiale della prima sconvolse per tre anni il
Napoletano. Dopo alcuni successi dei Francesi, prevalsero definitivamente gli
Spagnoli, i quali batterono gli avversari a Cerignola, al Garigliano (1503),
conquistarono anche Gaeta, ultimo loro possesso, e li costrinsero ad abbandonare
il regno. Nella tregua, firmata a Lione nel 1504, ai Francesi fu riconosciuto il
possesso del Ducato di Milano, ma il Regno di Napoli passò alla Spagna, la
quale, avendo anche la Sicilia e la Sardegna, divenne così potentissima in
Italia.
L'effimera fortuna del duca Valentino.
Mentre Spagnoli e Francesi si combattevano aspramente tra loro, papa Alessandro
VI tentava di sottomettere i signorotti, che nelle varie città dello Stato
Pontificio si erano resi del tutto indipendenti; con ciò egli non intendeva di
restaurare il potere temporale della Chiesa, ma piuttosto di costruire uno Stato
nell'Italia centrale a vantaggio di suo figlio Cesare Borgia, detto comunemente
«il Valentino». Era costui uomo di singolare intelligenza, ma privo di ogni
senso morale, audace, ambizioso, violentissimo. Il Machiavelli, che ammirò
eccessivamente il suo ingegno e la straordinaria energia, in lui vide l'ideale
del principe, quale egli lo concepiva nella sua mente di uomo del Rinascimento;
e in realtà, insieme con le cattive, erano nel Valentino eccezionali qualità di
uomo d'azione e di governo.
Eletto dal papa «gonfaloniere di Santa Chiesa», Cesare Borgia incominciò ad
assalire i principi di Romagna, facendosi forte dell'appoggio del re di Francia
per tenere a freno la gelosia dei Veneziani. Si avventò contro la signoria dei
Riario, prese Imola, e dopo un drammatico assedio, conquistò Forli, eroicamente
difesa da Caterina Sforza, vedova di Girolamo Riario; poi sottrasse Rimini ai
Malatesta e Faenza ai Manfredi. Alessandro VI gli conferì allora il titolo di
duca di Romagna e, dando in matrimonio la propria figliuola Lucrezia Borgia ad
Alfonso I d'Este (1501), comprò con questa parentela la neutralità del Ducato di
Ferrara. Avviatosi verso le Marche e l'Umbria, il Valentino, che già aveva
sottratto Pesaro agli Sforza, abbatté la signoria di Guidobaldo da Montefeltro
ed entrò in Urbino.
La fortuna di Cesare Borgia mise in sospetto i suoi stessi condottieri, i quali
congiurarono contro di lui; ma poi parecchi di essi si lasciarono adescare dai
suoi inviti e andarono ad un convegno a Senigallia, dove egli li fece trucidare
a tradimento. Intanto i Baglioni fuggivano da Perugia; il Valentino
s'impadroniva della città, donde protendeva la mano avida verso Cortona e
Arezzo, possessi dei Fiorentini, e verso Siena, soggetta alla signoria dei
Petrucci. Ma all'improvviso il papa moriva (1503), mentre proprio in quei giorni
anche Cesare Borgia era malato, impedito perciò di andare a Roma e di imporre ai
cardinali l'elezione di un papa a lui favorevole. Fu eletto Pio III, figura di
scarso rilievo; ma, morto lui dopo alcune settimane di regno, fu elevato al
trono pontificio il più fiero nemico di Casa Borgia, il cardinale Giuliano Della
Rovere, che prese il nome di Giulio II.
La morte di Alessandro VI e la malattia del Valentino fecero precipitare d'un
colpo un edificio creato con tanta fretta e con tanti delitti. I Veneziani,
profittando della guerra scoppiata a Napoli fra Spagnoli e Francesi, occuparono
quasi tutta la Romagna, prima che i Francesi o il duca di Ferrara potessero
accorrere in aiuto del Valentino. La notizia poi dell'elezione del cardinale
Della Rovere, parente dei Riario, nemico dei Borgia, esule a lungo in Francia e
assetato di vendetta, tolse al Valentino ogni speranza. Egli abbandonò le sue
effimere conquiste e si rifugiò a Napoli; fu però arrestato da Consalvo di
Cordova e da lui inviato nella Spagna. Là Cesare Borgia riuscì a riavere la
libertà e passò nel Regno di Navarra, dove si mise a servizio del re, che era
suo cognato, finché, combattendo contro un vassallo, ribelle al sovrano, morì
nel 1507.
La politica di papa Giulio II (1503-1513) : "Fuori i barbari! - La Lega di
Cambrai contro Venezia (1508)
Il tentativo di Cesare Borgia di crearsi un vasto Stato nell'Italia centrale non
riuscì; ma il progetto di restaurare l'unità dello Stato Pontificio fu ripreso
da papa Giulio II, uomo di grande energia, mondano di gusti e di politica, più
soldato che pontefice: di lui si diceva scherzosamente che avesse gettato nel
Tevere le chiavi di S. Pietro, per tenersi solo la spada di S. Paolo. Benché
vecchio, egli assunse personalmente la direzione di questa difficile opera
politica e militare: in breve Perugia fu riconquistata alla Chiesa, e Bologna,
fiorente signoria dei Bentivoglio, fu costretta a disfarsi di quella potente
famiglia e ad aprire le porte al papa trionfante (1506).
La grande ira di Giulio II si rivolse allora contro Venezia, la quale aveva
profittato delle ultime guerre e dei frequenti disordini d'Italia per aumentare
continuamente i propri possessi territoriali; e anche allora, nel trambusto
derivato dalla improvvisa caduta del Valentino, aveva occupato diverse città
della Romagna a danno della Chiesa. Questa politica aveva finito per destare un
po' in tutti il malcontento contro Venezia: la odiavano i Francesi, che avevano
dovuto cederle una parte della Lombardia; gli Spagnoli per i porti pugliesi che
i Veneziani ancora tenevano; l'imperatore Massimiliano I d'Austria, che
rivendicava i suoi diritti sul Friuli, su Gorizia, sull'Istria e sulla Dalmazia;
il duca di Ferrara, che mirava alla riconquista del Polesine; da ultimo, il papa
per l'occupazione della Romagna. Tanti nemici si unirono, per eccitamento di
Giulio II, nella famosa Lega di Cambrai (1508), che segnò il principio della
decadenza di Venezia come potenza territoriale.
Il 14 maggio 1509 ad Agnadello, presso Lodi, l'esercito veneziano fu disfatto,
lasciando aperto il varco all'invasione del territorio della repubblica:
Bergamo, Brescia, Cremona, Peschiera, venivano subito occupate, mentre i
pontifici riprendevano le città di Romagna, gli Spagnoli quelle di Puglia, e
l'imperatore invadeva il Friuli. Parve giunto l'estremo giorno della repubblica.
Ma il Senato non si perdette d'animo; raccolse in fretta uomini e danari,
soccorse Padova, contro cui si accanì invano l'imperatore, riprese una ad una le
città perdute nel Veneto, ma specialmente, lavorando con la sua astuta
diplomazia, riuscì a seminare tra gli alleati la discordia, ritardandone le
operazioni di guerra. Intanto Giulio II, a cui i Veneziani si erano pienamente
sottomessi, temendo di vedere i Francesi divenire troppo potenti in Italia e
mirando ad assoggettare alla Chiesa il Ducato di Ferrara, si distaccò dalla
Lega, traendo dietro a sé gli Spagnoli; i quali, dopo la conquista delle città
pugliesi, non avevano più alcun motivo di discordie con Venezia.
La Lega santa contro la Francia (1512)
Giulio II si accinse alla conquista del Ducato di Ferrara, su cui la Chiesa
vantava antichi diritti, e che invece si manteneva fermo nell'alleanza con la
Francia. Alla testa dell'esercito, Giulio II, occupata Modena, venne a cingere
d'assedio Mirandola, terra del Ducato di Ferrara, e la espugnò: il papa,
attraverso le mura sbrecciate dall'artiglieria, entrò nella città (gennaio
1511). Ma intanto Luigi XII, acceso d'ira per la condotta del papa, aveva
indetto un concilio a Pisa per deporre Giulio II ed eleggere un nuovo pontefice:
la lotta dal campo politico era incautamente portata nel campo religioso. Giulio
II colse a volo l'errore francese, accettò la sfida accusando di fronte a tutta
la cristianità il re di Francia come provocatore di scismi. Quindi, raccolti
intorno a sé Spagnoli e Veneziani, riaccese la guerra contro i Francesi,
eccitando gl'Italiani al grido di: Fuori i barbari!, mentre scomunicava il re
con tutti i fautori dello scisma, e da un Concilio ecumenico, frettolosamente
raccolto in Roma, faceva proclamare contro gli scismatici una specie di
Crociata, che si disse Lega santa (1512).
Tuttavia la guerra non andava bene per Giulio II e per la Lega. Già fino dal
maggio dell'anno precedente, i Francesi avevano ripreso Bologna e Mirandola,
annullando in pochi mesi la faticosa conquista del papa. Nel 1512 avvennero
disastri ancora più gravi: i Francesi, condotti da un abile generale, il
giovanissimo Gastone di Foix, domarono la rivolta delle città lombarde, da essi
carpite ai Veneziani durante la Lega di Cambrai, e saccheggiarono in modo
orrendo Brescia, che più delle altre aveva resistito; poi in grande battaglia
campale a Ravenna sbaragliarono i collegati (1512).
Fu questo però l'ultimo successo dei Francesi, i quali nella mischia perdettero
il loro generale. In poche settimane, di fronte all'incerto procedere dei
mediocri successori di Gastone di Foix, gli amici abbandonarono Luigi XII, il
quale, rimasto solo, fu costretto a richiamare il proprio esercito dall'Italia.
Nel Ducato di Milano, sgombrato dai Francesi, fu posto dai collegati uno dei
figli di Lodovico il Moro, Massimiliano Sforza, col titolo di duca; a Firenze,
rea di aver parteggiato sempre per Luigi XII, Spagnoli e pontifici intimarono il
richiamo dei Medici: il gonfaloniere Soderini fu deposto, e il cardinale
Giovanni, figlio di Lorenzo il Magnifico e fratello di Piero (morto fino dal
1503 nella battaglia del Garigliano), divenne padrone della città (1512).
Intanto nel febbraio del 1513 moriva Giulio II, dopo aver veduto i Francesi
fuggire dall'Italia. Mente altissima, cuore generoso, braccio ferreo, egli fu in
quei giorni il primo sovrano d'Italia, e tutti superò anche nell'amore alle arti
e alle lettere: mentre il grande pontefice moriva, Michelangelo, Raffaello e i
migliori artisti del Rinascimento lavoravano per lui nella superba reggia del
Vaticano.
Papa Leone X (1513-1521). Francesco I, re di Francia, conquista il Ducato di
Milano (1515).
Il successore di Giulio II fu il giovane cardinale Giovanni de Medici, figlio di
Lorenzo il Magnifico e signore di Firenze; egli prese il nome di Leone X. Uomo
di gusti finissimi, di carattere placido e gaudente, egli pure amante delle arti
e delle lettere, continuò il mecenatismo del suo predecessore verso il
trionfante Rinascimento, cosicché tra i suoi celebratori si parlò, con qualche
esagerazione del «secolo d'oro», del «secolo di Leone X». In politica fu invece
assai diverso da Giulio II: agl'interessi della Chiesa preferì quelli della sua
famiglia e, destreggiandosi tra Francesi e Spagnoli, cercò di ottenere vasti
possessi per i suoi parenti. Comprò infatti dall'imperatore per 40.000 ducati i
feudi di Piacenza, Parma, Modena e Reggio, con l'intenzione di darli al proprio
fratello Giuliano, e poté a colpo sicuro strappare a Francesco Della Rovere,
erede di Guidobaldo da Montefeltro, il Ducato d'Urbino per investirne il proprio
nipote Lorenzo.
Intanto Luigi XII, d'accordo con Venezia, che voleva riavere i suoi possessi
lombardi, aveva ritentato la conquista del Ducato di Milano, ma era stato
sconfitto a Novara dagli Svizzeri del duca Massimiliano Sforza (1513). Si era
perciò indotto a rinunciare all'impresa d'Italia, lasciando nelle difficoltà gli
alleati Veneziani, i quali, incalzati dalle truppe del duca, della Spagna e
dell'imperatore Massimiliano I d'Austria, dovettero ritirarsi dal Ducato di
Milano, che nuovamente avevano invaso.
Francesco I re di Francia alla battaglia di Marignano (1515).
Un improvviso cambiamento della situazione si ebbe con la morte di Luigi XII
(1515) e con l'assunzione al trono del cugino e genero di lui Francesco I della
Casa di Valois-Angouléme (1515-1547). Giovane, ardente di carattere,
ambiziosissimo, tutto pieno di entusiasmi cavallereschi, egli si propose subito
di rivendicare i diritti della Francia, rinnovando le imprese del suo
predecessore.
Accordatosi di nuovo coi Veneziani, entrò di
sorpresa in Italia per il passo dell'Argentera, e traversato il Piemonte, invase
il Ducato di Milano, mentre le truppe ispano-sforzesche si concentravano a
Marignano (oggi Melegnano). Lì avvenne un formidabile scontro tra la cavalleria
e l'artiglieria francese da una parte e le valorose fanterie svizzere
dall'altra, vera battaglia di giganti, come la chiamò il condottiero Gian
Giacomo Trivulzio: durò due giorni e non terminò se non quando, al
sopraggiungere dei Veneziani, alleati dei Francesi, gli Svizzeri, temendo
l'accerchiamento, si ritirarono (13-14 sett. 1515). Il re ebbe allora la via
libera verso Milano, vi entrò e, fatto prigioniero il duca Massimiliano Sforza,
occupò il ducato. Quindi fece pace con Leone X (il quale gli era stato
contrario), a patto che gli restituisse Piacenza e Parma, antiche città del
Ducato di Milano, da lui comprate dall'imperatore, e rendesse Reggio e Modena al
duca di Ferrara, amico della Francia. Così fu ristabilito per sei anni
(1515-1521) il dominio francese nel Ducato di Milano.
Quanto a Venezia, essa poté riavere le città di
Brescia e di Verona (ancora occupate dall'imperatore Massimiliano), quando fu
firmata tra i belligeranti la pace di Noyon (1516).
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