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Congresso di Vienna
Gli stati europei che avevano sconfitto Napoleone e lo avevano esiliato
sull’isola d’Elba nel 1814 si riunirono a Vienna per ridefinire i confini
politici dell’Europa. Quando Napoleone scappò i lavori non furono interrotti:
ormai nessuno dei vecchi nemici credeva più in un suo ritorno definitivo.
Al Congresso di Vienna parteciparono i rappresentanti di tutti gli stati europei
Francia compresa. L’ammissione della Francia costituiva un segnale preciso: la
Rivoluzione era stata illegittima, bisognava ripristinare il vecchio ordine e le
vecchie dinastie monarchiche come se nulla fosse successo.
Le decisioni importanti furono
prese da Austria, Russia, Prussia e Inghilterra.
Tali decisioni furono guidate da due principi:
- Il principio di legittimità, secondo il quale i sovrani scacciati dalla
Rivoluzione e da Napoleone dovevano essere rimessi sul trono;
per questo le
conclusioni del Congresso di Vienna vennero definite con una parola:
restaurazione.
- Il principio dell’equilibrio, in base al quale si doveva impedire che in
futuro uno stato acquisisse la possibilità di dominare l’intero continente.
A
tale scopo furono creati in prossimità dei confini orientali della Francia degli
stati cuscinetto con lo scopo di contenerne eventuali intenzioni
espansionistiche.
Comunque il Congresso di Vienna ebbe il merito di emanare una dichiarazione di
condanna della schiavitù.
Il nuovo aspetto dell’Europa
Il principio di legittimità fu rispettato solo nell’interesse delle grandi
potenze, a discapito degli stati minori. Infatti il Belgio fu unito all’Olanda
formando un regno unico, i piccoli principati tedeschi furono uniti alla Prussia
e il Sacro Romano Impero fu sostituito da una Confederazione di 39 stati. Anche
il principio dell’equilibrio fu sfruttato a favore degli stati più potenti. Gli
stati vincitori uscirono rafforzati:
La Russia ottenne il possesso della Polonia;
La Prussia assorbì diversi principati nella Germania;
L’Inghilterra si fece assegnare diverse colonie francesi;
L’Austria ottenne la Lombardia e il Veneto. Alla Francia furono lasciati i
confini che aveva prima della Rivoluzione, ma essa fu costretta a pagare forti
danni di guerra e a subire un periodo di occupazione militare. Alla Svizzera fu
riconosciuta la neutralità perpetua.
L’Italia fu oggetto di spartizioni tra le diverse potenze dato che nessun regno
italiano era
abbastanza potente da far valere le sue pretese.
Il Regno di Sardegna (Piemonte, Valle d’Aosta Sardegna) a cui viene aggiunta la
Liguria, vede il ritorno dei Savoia;
Il Regno delle due Sicilie è il risultato dell’unificazione del regno di Napoli
e del Regno di Sicilia. È dato alla dinastia dei Borbone.
Il Papa ritornò nello Stato della Chiesa;
Il Granducato di Toscana fu restituito agli Asburgo-Lorena;
L’Austria si impadronì della Lombardia e del Triveneto formando il Regno
Lombardo-Veneto.
Come si vede l’Austria avrebbe potuto esercitare in Italia un indiscusso
dominio.
Il diritto d’intervento
Lo zar di Russia Alessandro I ebbe l’idea di un patto tra le potenze che avevano
sconfitto Napoleone le quali si sarebbero accordate per un reciproco aiuto
contro ogni tentativo di rivoluzione. L’Austria e la Prussia aderiscono a tale
patto e nasce la Santa Alleanza. Questa in effetti diventava uno strumento per
difendere con la forza le decisioni del Congresso di Vienna. Viene chiamata
Santa Alleanza perché si prefigge la difesa della religione cristiana contro gli
attacchi laicisti e la monarchia, considerata sacra, contro gli attacchi di
liberali, radicali e democratici. La Santa Alleanza diventa il feroce cane da
guardia della Restaurazione: quando una minaccia rivoluzionaria si fosse
verificata, gli eserciti delle tre potenze sarebbero intervenuti per rimettere
le cose a posto. In definitiva gli stati firmatari si arrogavano il diritto di
intervento negli affari di un altro stato.
In
Europa tante realtà molto diverse -
Dopo il Congresso di Vienna l’Europa
presenta molte diversità.
Ai grandi stati nazionali come Spagna, Portogallo, Francia e Inghilterra si
contrappone una fascia centrale di piccoli stati, (Boemia, Slovenia, Croazia,
Ungheria, Polonia, Grecia, stati italiani, stati tedeschi) e tre imperi
multinazionali a est: Russia, Prussia, Austria.
Le diversità riguardano anche il campo politico: alle monarchie più liberali si
contrappongono monarchie assolute e conservatrici. Gli stati minori vivono
sotto la tutela o il controllo degli stati maggiori. Anche nel campo economico
le differenze sono notevoli. Gli stati dell’Europa Occidentale sono evoluti,
moderni e con un’economia in forte sviluppo.
A oriente esiste la servitù della gleba, grandi proprietà terriere sono in mano
a nobili poco interessati allo sviluppo dell’agricoltura, l’industria è
praticamente assente: l’economia è molto arretrata. Inoltre nell’Europa
occidentale si era formata una borghesia forte che dominava l’economia e
influenzava anche la politica, mentre nell’Europa orientale il predominio
apparteneva alla nobiltà terriera fedele alla monarchia.
Il congresso di Vienna tentò di far ritornare
l'Europa ai tempi precedenti la Rivoluzione Francese. Naturalmente la storia non
torna indietro: i cambiamenti avvenuti in campo sociale, economico e culturale
faranno apparire del tutto inadeguata la Restaurazione dell'Antico Regime. Con la
restaurazione delle monarchie, nobiltà e clero tornarono a occupare le antiche
posizioni di privilegio ai vertici dello Stato.
Fu contrastata ogni forma di modernità in campo economico e politico: furono
abolite la libertà di pensiero, di religione, di spostamento da un paese
all'altro, di scelta di un lavoro o di una professione. Proprio quelle libertà
abolite avevano permesso, dopo la rivoluzione e nell'epoca napoleonica, a molti
borghesi di diventare ufficiali dell'esercito, funzionari, amministratori,
deputati dello Stato, di avviare industrie, di ammodernare l'agricoltura, di
sviluppare il commercio. Si diffuse la concezione, propria del medioevo, che
l'alleanza fra lo Stato e la Chiesa poteva garantire la pace e la prosperità dei
popoli.
I giornali furono sottoposti a una rigida censura, privando i cittadini della
libertà di esprimere e discutere le proprie opinioni. Le forze di polizia furono
notevolmente potenziate.
Malgrado la condanna della Rivoluzione francese furono accolte dai sovrani
alcune delle sue conquiste come la coscrizione obbligatoria e la creazione di
una burocrazia efficiente. Si trattava di "concessioni" che servivano a
rafforzare il potere dei sovrani.
Borghesia e sviluppo economico in Europa -
Esisteva in Francia, Inghilterra, Belgio e in tutte le zone europee toccate
dalla rivoluzione industriale una borghesia dinamica, istruita, politicamente
potente. La Rivoluzione francese aveva abolito i diritti feudali, fortemente
indebolito e in alcuni casi cancellata l'aristocrazia, aveva dato maggiore
libertà ai contadini prima ridotti in stato di servitù, aveva permesso
l'ammodernamento dell'agricoltura. L'allargamento del diritto di voto aveva
portato al potere i rappresentanti del popolo.
Grandi estensioni di terreno erano passati dalle mani dei nobili e del clero in
quelle di imprenditori abili e preparati. Le attività economiche erano state
favorite dalle leggi moderne dell'epoca napoleonica. L'abbattimento delle dogane
aveva reso i mercati grandi e ricchi e i traffici intensi. Non avendo voluto
tener conto di queste trasformazioni le classi dirigenti uscite vincenti dal
Congresso di Vienna costruirono un sistema fragile destinato a crollare ai primi
urti nei prossimi decenni.
Modernità e conservazione -
La scena politica e intellettuale è dominata dallo
scontro tra vecchio e nuovo, arretratezza e progresso, tra liberali e
conservatori.
Le persone più istruite o più ricche, ma anche molti operai non intendono più
essere dei sudditi passivi, ma cittadini liberi e consapevoli dei propri diritti
e delle proprie possibilità.
Il desiderio di una maggiore libertà e di una effettiva partecipazione alla
politica dello Stato non era solo un ideale astratto, ma l'esigenza concreta di
una moderna classe imprenditoriale che vuole crescere in modo moderno.
Per questo la borghesia chiedeva una maggiore partecipazione, chiedeva di
collaborare all'amministrazione dello Stato per correggere le storture ereditate
dal vecchio regime che impedivano o rallentavano il progresso economico. I
sostenitori di questa tesi furono chiamati "liberali": essi sostenevano il
diritto alle libertà politiche, civili, religiose ed economiche. Queste libertà
dovevano essere stabilite e garantite da un parlamento di cittadini eletti dal
popolo. Secondo i liberali anche i sovrani dovevano essere sottomessi alla
legge. Evidente è il contrasto con i principi del Congresso di Vienna e con il
potere assoluto dei sovrani restaurati.
Differenze di pensiero tra i liberali -
Anche
tra i liberali, però, non si era tutti d'accordo: una grande maggioranza di essi
pensava ad una monarchia costituzionale, in cui anche il re fosse sottomesso
alle leggi e al parlamento, mentre una minoranza pensava ad uno stato
repubblicano. Anche sul voto popolare i liberali non erano d'accordo: alcuni
pensavano ad un suffragio universale mentre altri pensavano al diritto di voto
per i cittadini più ricchi ed istruiti. Altro pensiero nuovo dei liberali
riguardava il diritto delle nazioni all'auto-determinazione, ossia alla libertà
dall'ingerenza degli stati più forti. Anche questo andava contro il diritto che
si arrogava la Santa Alleanza di intervenire sottomettendo gli stati più deboli
in nome dell'equilibrio e della pace. Ai liberali si contrapponevano i
conservatori, favorevoli alla monarchia e contrari al cambiamento. Ma anche
costoro non erano tutti uguali. I conservatori erano soprattutto aristocratici
nostalgici del vecchio regime, contrari a cambiamenti e riforme sia in campo
politico e religioso, sia in campo economico. Naturalmente alcuni erano
conservatori radicali mentre altri si limitavano alla conservazione dei
privilegi delle classi aristocratiche senza bloccare il processo di
trasformazione della società.
Politicamente il Risorgimento Italiano viene generalmente compreso fra il
proclama di Rimini (1815) e la breccia di Porta Pia da parte dell'esercito
italiano (20 settembre 1870) per altri storici il risorgimento comprende
il periodo fra i primi moti costituzionali del
1820-1821 e la proclamazione del Regno d'Italia (1861) o il termine della terza
guerra d'indipendenza (1866).
Il sorgere della coscienza nazionale non fu un
processo unitario, lineare o coerentemente definito; diversi programmi,
aspettative ed ideali, a volte anche incompatibili tra loro, confluirono in un
vero e proprio crogiuolo: vi erano in campo quelli romantico-nazionalisti,
repubblicani, protosocialisti, anticlericali, liberali, monarchici filo-Savoia o
papalini, laici e clericali, vi era l'ambizione espansionista di Casa Savoia
verso la Pianura Padana, vi era il bisogno di liberarsi dal dominio austriaco
nel Regno del Lombardo-Veneto, unitamente al generale desiderio di migliorare la
situazione socio-economica approfittando delle opportunità offerte dalla
rivoluzione tecnico-industriale, superando al contempo la frammentazione
della penisola laddove sussistevano Stati, in parte liberali, che spinsero i
vari rivoluzionari della penisola a elaborare e a sviluppare un'idea di patria
più ampia e ad auspicare la nascita di uno Stato nazionale analogamente a quanto
avvenuto in altre realtà europee come Francia, Spagna e Gran Bretagna.
Le personalità di spicco in questo processo furono molte tra cui:
Giuseppe Mazzini, figura eminente del movimento liberale repubblicano italiano
ed europeo;
Giuseppe Garibaldi, repubblicano e di simpatie socialiste, per
molti un eroico ed efficace combattente per la libertà in Europa ed in Sud
America;
Camillo Benso conte di Cavour, statista in grado di muoversi sulla
scena europea per ottenere sostegni, anche finanziari, all'espansione del Regno
di Sardegna;
Vittorio Emanuele II di Savoia, abile a concretizzare il contesto
favorevole con la costituzione del Regno d'Italia.
Vi furono gli unitaristi repubblicani e federalisti radicali contrari alla
monarchia come Nicolò Tommaseo e Carlo Cattaneo; vi furono cattolici come
Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini che auspicavano una confederazione di stati
italiani sotto la presidenza del Papa (neoguelfismo) o della stessa dinastia
sabauda; vi furono docenti ed economisti come Giacinto Albini e Pietro Lacava,
divulgatori di ideali mazziniani soprattutto nel Meridione.
Trascorsa la fase delle società segrete, sviluppatasi soprattutto tra il 1820 ed
il 1831, durante i due decenni successivi presero corpo le due correnti
principali che promossero con piena consapevolezza ed incisività politica il
processo risorgimentale, quella democratica e quella moderata.
La
principale associazione politica segreta in Italia fu quella della Carboneria,
originariamente nata a Napoli nel 1814 per opporsi alla politica filonapoleonica
di Gioacchino Murat; dopo la caduta di quest'ultimo e l'insediamento o il
ritorno sui troni in alcuni stati della penisola italiana di sovrani illiberali
tramite l'intervento delle truppe austriache, la Carboneria si diffuse nella
penisola assumendo un carattere cospiratorio con lo scopo di trasformare le
monarchie assolutiste in stati costituzionali provocandovi moti rivoluzionari.
Il primo moto carbonaro venne tentato a Macerata, nello Stato
pontificio, nella notte tra il 24 e il 25 giugno 1817, ma la polizia papalina,
informata dei preparativi, soffocò l'azione sul nascere. Tredici congiurati
furono condannati a morte e poi graziati da papa Pio VII.
Nel luglio del medesimo anno le rimanenti truppe austriache, ancora presenti a
Napoli dopo aver riportato i Borboni sul trono, completarono il loro ritiro dal
Regno delle Due Sicilie e il generale austriaco Laval Nugent von Westmeath
divenne comandante supremo dell'esercito delle Due Sicilie e Ministro della
Guerra.
Nel porto spagnolo di
Cadice il 1 gennaio 1820 gli ufficiali delle forze militari che avrebbero dovuto
reprimere la rivolta di Simón Bolívar nell'America del sud rifiutarono di
imbarcarsi. Il loro "pronunciamiento" si estese a tutta la Spagna, obbligando il
re Ferdinando VII a concedere nuovamente il 10 marzo dello stesso anno la
Costituzione di Cadice del 1812.
Le notizie di questi avvenimenti accesero gli animi dei carbonari italiani
provocando i moti costituenti degli anni 1820-1821 che, pur avendo tutti come
finalità la progressiva liberalizzazione dei regimi assolutistici, assunsero
tuttavia connotazioni diverse da Stato a Stato e da città a città.
A Napoli i moti iniziati il 1 luglio del 1820 ad opera di due giovani ufficiali,
Michele Morelli (1790-1822) e Giuseppe Salvati (1791-1822), culminarono con la
presa della città: il generale Guglielmo Pepe, comandante degli insorti, riuscì
ad imporre al re Ferdinando I la concessione della costituzione.
Per riportare l'ordine negli stati che si erano sollevati le potenze europee
della Quadruplice alleanza si riunirono nel dicembre del 1820 al Congresso di
Troppau. Ferdinando I convocato nel successivo Congresso di Lubiana nel gennaio
1821 ebbe il permesso di recarvisi dal governo rivoluzionario. Di fronte ai
rappresentanti delle potenze il re, sconfessando gli impegni presi alla partenza
da Napoli col parlamento napoletano di difendere la costituzione, richiese
l'intervento militare degli Austriaci, che sconfissero l'esercito napoletano,
guidato da Pepe, nella battaglia di Antrodoco il 7 marzo 1821 e conquistarono
Napoli il 23 marzo. La costituzione venne annullata e trenta rivoluzionari
furono condannati a morte (tra cui Pepe, Morelli e Salvati).
A Palermo, nell'agosto 1821, vennero costituite venti "vendite" carbonare, con
la finalità di abbattere il governo e avere la costituzione spagnola; il moto
era guidato dal sacerdote Bonaventura Calabrò, che organizzò una rivolta
prevista il 12 gennaio 1822, creando un nuovo vespro. Tuttavia il susseguirsi
delle riunioni insospettì la polizia borbonica, che convinse un congiurato al
doppio gioco. Nella notte dell'11 gennaio iniziarono i primi arresti e
confessioni, un timido tentativo di rivolta che avvenne l'indomani fu represso e
i congiurati imprigionati. Il 31 gennaio, nove dei congiurati, tra cui due
sacerdoti, furono condannati a morte e le loro teste, rinchiuse in gabbie di
ferro, rimasero appese a Porta San Giorgio fino al 1846..
Mentre a Napoli i rivoltosi ebbero come unica finalità la promulgazione della
costituzione, a Torino l'insurrezione scoppiata nel gennaio 1821 accolse
tensioni e inquietudini anti-austriache, già manifestatesi in quella città con i
moti studenteschi soffocati nel sangue dalla polizia sabauda. Questi ultimi moti
videro come protagonista alcuni degli uomini simbolo del Risorgimento, tra i
quali Santorre di Santarosa.
Anche a Milano partecipò ai moti una componente patriottica e
anti-austriaca, guidata dal conte Federico Confalonieri, rinchiuso, subito dopo
il fallimento dell'insurrezione, nella Fortezza dello Spielberg, dove era già
custodito da alcuni mesi l'amico Silvio Pellico.
Le repressioni,
conseguenti al fallimento dei moti, spinsero all'esilio molti patrioti italiani,
come Antonio Panizzi, che proseguirono all'estero la loro azione, impegnandosi propagandisticamente e stabilendo contatti con personalità delle potenze
straniere interessate a risolvere il problema italiano. Il periodo dei moti liberali si chiuse a fine settembre 1823,
con la resa di Cadice, dopo la battaglia del Trocadero, a cui partecipò anche
Carlo Alberto di Savoia, vinta dalle forze francesi di Luigi XVIII, incaricato
dalle potenze della Santa Alleanza di ripristinare con la forza la monarchia
assoluta in Spagna.
In Romagna nel 1824, dopo l'uccisione del direttore di
polizia di Ravenna Domenico Matteucci, ad opera di una cospirazione carbonara,
il cardinale Agostino Rivarola venne inviato per reprimerla. Rivarola, nominato
"cardinal legato a latere", fece condurre un'indagine che portò ad un processo e
alla sentenza del 31 agosto 1825, con la quale vennero condannate, a varie pene,
514 persone appartenenti a tutti gli strati sociali. Successivamente fu concessa
la commutazione della pena ai sette condannati alla pena capitale e la grazia
per molti altri.
Nuove insurrezioni si ebbero nel Cilento nel 1828 per ottenere il ripristino
della Costituzione che nel 1820 era stata concessa nel Regno delle Due Sicilie.
Il tentativo dei rivoltosi si concluse tragicamente con trentatré condanne a
morte e il paesino di Bosco raso al suolo a cannonate dal maresciallo Del
Carretto, e in Emilia-Romagna, tra il 1830 e il 1831, con la nascita di un
effimero Stato delle Province Unite Italiane, represso con l'intervento delle
truppe austriache.
Nel Lombardo-Veneto si affermò la scuola riformista di Giandomenico Romagnosi,
da cui sarebbe uscito il maggiore esponente dei pensiero liberale federativo,
Carlo Cattaneo.
Nel 1830 l'ondata di insurrezioni partita da quella parigina del 30, di Carlo X
che si oppose al re Luigi XVIII, ebbe forti ripercussioni anche in Italia.
L'epicentro questa volta fu il ducato di Modena, il capo della rivolta lo
sfortunato Ciro Menotti, che aveva confidato nell'appoggio dei duca Francesco IV,
e delle armate francesi, appoggio che venne a mancare e, con l'intervento delle
truppe austriache, l'insurrezione fu stroncata e Menotti condannato a morte.
Dopo il fallimento dei moti dei 1830-31, incominciò a diffondersi in Italia
negli ambienti patriottici la convinzione che con i metodi della carboneria non
si sarebbe mai riusciti a sbarazzarsi dei regimi assoluti e della cappa di
piombo della Santa alleanza.
Nel 1832, fu pubblicata a Torino l'autobiografia di Silvio Pellico, Le mie
prigioni, con la descrizione delle dure condizioni di vita dei prigionieri
politici in regime di carcere duro nella fortezza austriaca dello Spielberg. Il
libro ebbe una vasta risonanza, sia in Italia che nei salotti europei,
accentuando nei patrioti italiani i sentimenti antiaustriaci. Nel 1849
Metternich commenterà che quel libro aveva danneggiato l'Austria più di una
battaglia persa.
A partire dai primi anni trenta dell'Ottocento si
impose come figura di primo piano Giuseppe Mazzini (1805-1872) che divenne
membro della Carboneria nel 1830. La sua attività di ideologo e organizzatore lo
costrinse a lasciare l'Italia nel 1831 per fuggire a Marsiglia, dove fondò la
Giovine Italia, un movimento che raccoglieva le spinte patriottiche per la
costituzione di uno Stato unitario e repubblicano, da inserire in una più ampia
prospettiva federale europea.
Mazzini riteneva che solo una fede nutrita di spirito religioso, capace di
coinvolgere la gioventù urbana, avrebbe potuto trasformare l'obiettivo
dell'unità nazionale in qualcosa di più forte delle baionette austriache e della
paura dei principi. La storia, secondo Mazzini, aveva camminato attraverso un
processo dialettico che la divideva in due fasi:
- una fase di antitesi nella quale vi fu un a forte opposizione al sistema
feudale su cui aveva trionfato l'individualismo borghese della rivoluzione
francese.
- ora, invece, veniva la fase di sintesi ovvero alla proclamazione dell'Umanità,
che avrebbe superato l'individualismo e aperto un'altra epoca storica.
La condivisione del programma mazziniano portò Giuseppe Garibaldi (1807–1882) a
partecipare ai sommovimenti rivoluzionari in Piemonte del 1834, per il
fallimento dei quali fu condannato a morte dal governo sabaudo e costretto a
fuggire in Sud America, dove partecipò ai moti rivoluzionari in Brasile ed
Uruguay.
Per la mancanza di coordinamento tra i congiurati, per l'assenza e
l'indifferenza delle masse, tutte le rivolte mazziniane fallirono.
I congressi scientifici prima del '48
Il regime "liberale" del Granducato di
Toscana permise nel 1839 la nascita della Società Italiana per il Progresso
delle Scienze a Pisa, dove verrà organizzato il "Primo congresso degli
scienziati italiani" (1839), a cui parteciparono studiosi dai vari stati della
penisola: fu la prima riunione pubblica di uomini di scienza riuniti sotto il
comune attributo di "italiani".
I congressi proseguirono a cadenza
annuale, nei diversi stati: Torino, Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli (che
fu il più numeroso, con circa 1600 partecipanti), Genova ed infine, nel 1847,
Venezia.
I moti insurrezionali dell'anno successivo ed i conseguenti
irrigidimenti dei regimi impedirono successivi congressi fino al congresso di
Firenze del 1861. Oltre al loro contenuto scientifico, questi congressi
permisero scambi di idee e confronti nella nuova classe intellettuale italiana
che andava formandosi, ed erano anche visti come una possibilità di discutere
delle vicende italiane come la liberalizzazione commerciale, la necessità di una
lega doganale, la costruzione di ferrovie, mascherando sotto questi progetti di
modernità economica e strutturale la fondamentale esigenza di un'unificazione
politica.
Il biennio delle riforme -
Nel cosiddetto biennio delle riforme (1846-1848), a seguito del
fallimento dei moti rivoluzionari mazziniani, prendono vigore progetti politici
di liberali moderati, tra cui spiccano Massimo d'Azeglio, Vincenzo Gioberti e
Cesare Balbo con "Le speranze d'Italia" i quali, sentendo soprattutto la
necessità di un mercato unitario come premessa essenziale per un competitivo
sviluppo economico italiano, avanzano programmi riformisti per una futura unità
italiana nella forma accentrata o federativa. Nasce così il movimento neoguelfo
che riscuote un grande successo presso l'opinione pubblica in coincidenza con
l'elezione nel 1846 di papa Pio IX, ritenuto un "liberale".
Sotto la spinta di questi movimenti molti stati italiani attuarono diverse
riforme modernizzatrici: nel Granducato di Toscana fu ampliata la libertà di
stampa e si ebbe la formazione di una guardia civica, nel Regno di Sardegna si
ebbero riforme in senso liberale dell'ordinamento giudiziario, altre riforme
vennero concesse nello Stato della Chiesa, dove il nuovo pontefice concesse una
amnistia ai prigionieri.
Nel 1847 Pio IX prese la decisione di proporre al regno
piemontese e al granducato di Toscana l'unione in una "Lega doganale" per
favorire la circolazione delle merci; l'iniziativa si fermò dopo la firma di un
accordo di intenti il 3 novembre 1847, nel tentativo di coinvolgere il ducato di
Modena; l'inizio delle agitazioni del 1848 fece definitivamente tramontare il
progetto.
Il Regno delle Due
Sicilie, fino a quel momento non aveva seguito questi sviluppi, ma si era
caratterizzato per la forte repressione politica.
Ancora
nel 1844 i giovani fratelli Attilio (1810–1844) ed Emilio Bandiera
(1819–1844), disertori della marina austriaca, furono fatti fucilare dal re Ferdinando II per aver tentato un improvvisata spedizione di tipo mazziniano in Calabria.
Nel 1848
scoppiò una rivolta indipendentista in Sicilia che, propagatasi a Napoli,
costrinse il sovrano a promulgare l'11 febbraio del 1848 una costituzione simile
a quella francese del 1830. Gli altri sovrani italiani dovettero seguire
rapidamente l'esempio di Ferdinando II: Leopoldo II di Toscana concesse uno
Statuto dopo pochi giorni, il 4 marzo Carlo Alberto promulgò lo Statuto
"albertino" e il 14 marzo fu la volta dello Stato Pontificio.
La "primavera dei popoli" e la I guerra d'indipendenza
-
Gli anni 1847-1848,
la cosiddetta "Primavera dei popoli", videro lo sviluppo di vari movimenti
rivoluzionari in tutta Europa; rivolte scoppiarono il 23 febbraio in Francia, il
28 febbraio nello Stato di Baden iniziò la rivolta che velocemente si estese a
tutti gli stati tedeschi e il 13 marzo raggiunse l'Austria, il 15 marzo insorse
l'Ungheria, il 28 marzo la Polonia.
Tutti questi moti furono repressi secondo gli schemi della Restaurazione, tranne
che in Francia, dove il 22 febbraio 1848 ebbe luogo una grande sollevazione popolare: Luigi Filippo
fu costretto ad abdicare. Fu
proclamata la Seconda Repubblica francese
che sostituì alla monarchia
di re Luigi Filippo Borbone d'Orléans un governo provvisorio. Con esso
collaborò anche il socialista Louis Blanc.
Il socialismo era un movimento che si proponeva di difendere i lavoratori,
assicurando loro un maggior peso politico e migliori condizioni di lavoro e di
vita.
Grazie a Louis Blanc, il governo riconobbe la libertà di stampa e di associazione, concesse il suffragio universale maschile (ovvero il diritto di voto
esteso a tutti i cittadini maschi) e determinò la durata massima della giornata
lavorativa, fissandola in dieci ore.
Il ritorno di un Bonaparte -
Tuttavia, Parigi non era tutta la Francia: nella rinnovata Assemblea legislativa
confluirono i deputati delle altre regioni, in massima parte ancora legate
all'agricoltura, alla proprietà della terra e a una borghesia moderata. I
deputati di indirizzo democratico o socialista eletti a Parigi non furono in
numero sufficiente a controbilanciarli.
Nel frattempo, già prima del '48, aveva ripreso importanza in Francia il partito
bonapartista, così chiamato perché legato al ricordo dei trionfi di Napoleone
Bonaparte. Esso sosteneva il ritorno di un Bonaparte alla testa dei Francesi.
Contando sull'appoggio dell'esercito e della borghesia, i bonapartisti
riuscirono a far eleggere presidente della repubblica francese Luigi Napoleone,
nipote del grande imperatore che, dopo quattro
anni, diventerà Napoleone III imperatore dei francesi.
Egli formò un governo moderato che favorì
soprattutto la borghesia e ben poco fece per le classi popolari. Questi eventi francesi
provocarono la fine degli equilibri politici esistenti in Europa dal Congresso
di Vienna.
La modifica delle alleanze fra gli stati influirà sulle vicende
italiane, spingendo persino alcuni esuli napoletani a progettare l'insediamento
sul trono di Napoli di Luciano Murat secondogenito di Gioacchino Murat.
Rivolte in Europa -
Alle notizie degli avvenimenti parigini le ribellioni si diffusero in Europa.
Insorsero Berlino, Vienna, Praga. Si ribellarono regioni e città tedesche,
italiane, ungheresi, croate.
A Berlino, il 10 marzo, la popolazione scese nelle piazze, chiedendo una
costituzione, che il re di Prussia Federico Guglielmo IV fu costretto a
concedere. Le città e gli Stati tedeschi minori, dopo varie sommosse, elessero
un'Assemblea che si riunì a Francoforte per preparare l'unità della Germania.
Vienna iniziò invece la sua rivolta il 13 marzo, ottenendo la cacciata di
Metternich, il ministro che da oltre trent'anni governava l'impero. L'imperatore
Ferdinando I permise la formazione di un'Assemblea Costituente.
Nell'impero austriaco, tuttavia, i problemi erano assai più complessi che non a
Berlino o a Parigi. I Viennesi si erano sollevati solo per ottenere una
costituzione e un governo più tollerante. A Praga, a Budapest, a Milano, a
Venezia e in Croazia si chiedeva invece l'indipendenza dall'Austria, che il
governo imperiale non era affatto disposto a concedere.
Così, le rivolte vennero represse con durezza. Il nuovo imperatore Francesco
Giuseppe inviò in Italia l'esercito.
Gli stessi anni 1847-1848, in Italia furono segnati dalla decisione da parte del Regno di Sardegna di farsi
promotore dell'unità italiana.
Primo passo in tal senso fu la Prima Guerra
d'Indipendenza, anti-austriaca, scoppiata in occasione della rivolta delle
Cinque giornate di Milano (1848).
Prima guerra d'indipendenza -
L'insurrezione di Milano aveva colto il Piemonte impreparato:
l'esercito piemontese non era pronto alla guerra. Ma, sulla spinta degli
avvenimenti, Carlo Alberto dichiarò ugualmente la guerra contro l'Austria,
confermando ai popoli lombardo e veneto "quell'aiuto che il fratello aspetta dal
fratello, l'amico dall'amico".
L'esercito piemontese varcò il confine posto sul Ticino, adottando il tricolore
come bandiera nazionale, al posto della bandiera del regno di Sardegna.
Spinti dall'entusiasmo popolare, anche gli altri sovrani si videro costretti a
inviare proprie truppe in sostegno a quelle piemontesi.
La campagna militare di Carlo Alberto iniziò felicemente: gli Austriaci vennero
battuti a Goito, dopo che i battaglioni di volontari toscani, in gran parte
studenti universitari di Pisa e Siena, avevano valorosamente resistito a
Curtatone e Montanara.
I Governi provvisori di Milano, Venezia, Modena e Parma proclamarono allora
l'unione col Piemonte, ma tale gesto provocò i sospetti degli altri sovrani
italiani. Temendo un eccessivo rafforzamento del regno di Carlo Alberto, la
Toscana e il Regno delle Due Sicilie ritirarono le loro truppe; il papa fece lo
stesso, temendo che la cattolica Austria si volgesse contro la Chiesa di Roma.
Questo impedì all'esercito piemontese di sfruttare la vittoria ottenuta.
L'offensiva si fermò davanti alle fortezze del quadrilatero, mentre altre truppe
austriache giungevano da Vienna. Riorganizzato l'esercito, il maresciallo
Radetzky sferrò la controffensiva.
Carlo Alberto, sconfitto a Custoza, fu costretto a firmare un armistizio e a
ritirarsi in Piemonte.
La sconfitta definitiva. Il nuovo re -
L'anno seguente (1849) Carlo Alberto riprese la guerra. Ancora una volta,
l'esercito piemontese si dimostrò impreparato. Carlo Alberto venne definitivamente battuto presso Novara.
Il sovrano rinunciò al trono a favore del figlio, Vittorio Emanuele II e andò in
esilio nel lontano Portogallo. Morì a Oporto pochi mesi dopo. Vittorio Emanuele
II riuscì a firmare un onorevole trattato di pace con gli Austriaci. Mantenne in
vita tutte le riforme già concesse e, soprattutto, lo Statuto albertino.
Riflessioni sulla sconfitta -
La prima guerra d’indipendenza si chiudeva con una serie di fallimenti.
Tramontava l’ideale di Gioberti e dei moderati neo-guelfi, che avrebbero voluto
una confederazione di Stati italiani guidata dal pontefice Pio IX: al momento
decisivo il papa aveva ritirato il suo appoggio. D’altra parte il Piemonte da
solo si era dimostrato troppo debole per far fronte all’Austria.
Politici e uomini di governo compresero che la causa dell’indipendenza italiana
doveva trovare il sostegno di altre potenze europee.
Per ottenere questo risultato presero le distanze dai democratici e dai
repubblicani che spaventavano l’opinione pubblica moderata. Proposero invece un
programma politico che mirava a raggiungere l’unità italiana e l’indipendenza
nazionale sotto la monarchia liberale e costituzionale di Vittorio Emanuele II.
Furono comunque importanti alcune esperienze repubblicane
temporanee, pur senza un loro esito finale positivo.
Dal febbraio 1849 al luglio
1849 si svolse la vicenda della Repubblica Romana, che vide Pio IX fuggire dalla
città e rifugiarsi nella fortezza di Gaeta come ospite di Ferdinando II di
Borbone.
La repubblica romana aveva un governo di cui faceva parte Giuseppe
Mazzini. Per difenderla erano accorsi volontari da ogni parte d’Italia. Fra
questi spiccava Giuseppe Garibaldi, che aveva già valorosamente combattuto per
la libertà dell’America meridionale.
Insieme a lui vi erano il genovese Goffredo Mameli, il lombardo Luciano Manara e
molti altri.
Contro di loro si mosse Luigi Napoleone, appena eletto presidente della
repubblica francese. Egli inviò un corpo di spedizione a Roma, in aiuto di Pio IX, sia per conquistarsi le simpatie dei cattolici francesi sia per contrastare
il predominio austriaco in Italia.
In un primo tempo Garibaldi riuscì a contrastare le forze nemiche. Poi la città
fu assediata da truppe numerose, dotate di cannoni.
Roma fu presa il 30 giugno 1849; nell’ultimo combattimento persero la vita
Manara e Mameli.
Garibaldi fuggì con duemila volontari e la moglie Anita. Anita mori nella pineta
di Ravenna per le fatiche e gli stenti. Garibaldi, braccato, riuscì ancora a
fuggire. Fu il governo piemontese che lo fece arrestare e lo mandò in esilio,
tranquillizzando così l’Austria e le grandi potenze.
La
caduta Repubblica Romana, sotto i colpi degli Austriaci da Est e dei
francesi da ovest, cancellò definitivamente la prospettiva di una
soluzione neoguelfa (cioè sotto la guida del Papa) per l'unità della nazione.
A Venezia, con una insurrezione
iniziata il 17 marzo 1848, nasceva la Repubblica di San Marco che ridava
temporaneamente la libertà alla città, fino alla capitolazione del 27
agosto 1849. Dopo una dura e lunga lotta Venezia fu costretta alla resa dai
bombardamenti, da un’epidemia di colera, dalla fame.
I capi della rivolta, Daniele Manin, Niccolò Tommaseo e il vecchio generale
napoletano Guglielmo Pepe vennero condannati all’esilio.
La vittoria dell’Austria in Italia fu quindi totale.
Infine, emblematico per i territori sottoposti al dominio austriaco fu
l'episodio delle Dieci giornate di Brescia, che vide la città resistere sino a
fine marzo 1849, per dieci giorni, alle truppe austriache, che, dopo la loro
vittoria alla battaglia di Novara, rioccuparono le campagne lombarde; al termine
dei combattimenti la città fu lasciata al saccheggio della truppa austriaca. Anche a Livorno un corpo di spedizione austriaco riconquistò
la città. In Sicilia Catania, Palermo e Messina vennero bombardate, saccheggiate
e quindi occupate militarmente.
La
vittoria dei reazionari in Europa -
Il 1849 si chiuse ovunque con la vittoria delle forze reazionarie.
La Russia soffocò nel sangue la rivolta dell’Ungheria per conto dell’Austria.
Questa aveva già precedentemente domato le rivolte dei Boemi e dei Croati.
In Germania l’Assemblea di Francoforte si sciolse, mentre in Prussia il re abolì
la costituzione appena concessa.
Due anni dopo (1851), con l’appoggio della borghesia moderata, dei cattolici e
dell’esercito, Luigi Napoleone fu proclamato imperatore dei Francesi. Egli prese
il nome di Napoleone III (il secondo era stato il figlio di Napoleone Bonaparte,
morto giovanissimo e mai salito sul trono) e il suo fu chiamato secondo impero
(il primo era stato quello del grande zio).
Nei dieci anni successivi alla sconfitta (il cosiddetto "decennio
di preparazione") riprese inizialmente vigore il movimento repubblicano
mazziniano, favorito anche dal fallimento del programma federalista neoguelfo; i
mazziniani promossero una serie di insurrezioni, tutte fallite.
Quelle che più impressionarono l'opinione pubblica italiana ed europea furono
l'episodio dei martiri di Belfiore (1852), strascico repressivo austriaco contro
le ribellioni avvenute negli anni precedenti nel Regno Lombardo Veneto, dove alle porte di Mantova all’alba del 7
Dicembre 1852, vennero impiccati dagli austriaci il sacerdote
Enrico Tazzoli, il medico mantovano
Carlo Poma, il pittore ritrattista
Zambelli ed altri due patrioti
veneziani Angelo Scarsellini e
Bernardo De Canal. Per tutti l’accusa
che li aveva portati al patibolo era di cospirazione segreta di stampo
mazziniano. Nello stesso processo finirono sul tavolo degli imputati ben 110
cittadini di Mantova e di altre città del Lombardo-Veneto.
Disastrosa
fu la spedizione di Sapri (1857), nel Regno delle Due Sicilie, condotta
all'insegna del credo mazziniano per il quale ciò che contava era più che il
successo il "dare l'esempio" e conclusasi con la morte di Carlo Pisacane e dei
suoi 23 compagni, massacrati dai contadini assieme ad altri patrioti liberati
all'inizio della spedizione dal carcere di Ponza.
Fortemente impressionò la
borghesia italiana anche la rivolta milanese del 6 febbraio 1853 che condotta
con spirito mazziniano, ossia confidando in una spontanea partecipazione
popolare e addirittura nell'ammutinamento dei soldati ungheresi dell'esercito
austriaco, fallì miseramente nel sangue. Oltre che l'impreparazione e la
superficiale organizzazione dei rivoltosi, operai d'ispirazione politica
socialista, furono proprio i mazziniani, notoriamente in contrasto ideologico
col marxismo, a contribuire al fallimento non facendo loro pervenire le armi
promesse e mantenendosi passivi al momento dell'insorgere della rivolta. Un
pugno di uomini armati di pugnali e coltelli andarono così consapevolmente
incontro al disastro in nome dei loro ideali patriottici e socialisti.
A Napoli nel 1856, dopo un fallito attentato al re Ferdinando II, veniva
condannato a morte il calabrese Agesilao Milano mentre in Sicilia veniva
repressa una sommossa organizzata da Francesco Crispi e Francesco
Bentivegna.
La crisi del movimento mazziniano favorisce nel 1857 la creazione in Piemonte
della Società nazionale italiana, ad opera degli esuli Daniele Manin e Giuseppe
La Farina e in probabile accordo con Cavour, a supporto del movimento unitario
che si stava formando attorno al Piemonte, operando alla luce del sole nel regno
sabaudo e clandestinamente negli altri stati italiani.
Nel 1850 Camillo Benso conte di Cavour entra
nel governo piemontese: inizialmente come ministro per il commercio e
l'agricoltura, divenendo poi anche ministro delle finanze
e della Marina; infine
è primo ministro il 4 novembre 1852. Fin dall'inizio come ministro del commercio
intraprende una azione che punta a molteplici accordi con le nazioni europee,
stringendo accordi commerciali con Grecia, le città anseatiche (città tedesche
alleate tra loro), l’Unione
doganale tedesca, la Svizzera e i Paesi Bassi, ed approfondisce i contatti con
le potenze europee viaggiando nell'estate del 1852 ed incontrando a Londra il
Ministro degli Esteri inglese Malmesbury, Palmerston, Clarendon, Disraeli,
Cobden, Lansdowne e Gladstone e a Parigi il presidente Luigi Napoleone ed il
ministro degli esteri francese. L'anno successivo Ludwig von Rochau
introducendo il concetto di realpolitik col suo saggio Principles of
Realpolitik ne porta come esempio l'azione di Cavour che prepara le basi
"per una grande originale operazione nazionale".
Sotto Cavour si accentuano i contrasti con i conservatori clericali e il Regno
di Sardegna, arrivando ad un punto di non ritorno con la scomunica papale
comminata al Re Vittorio Emanuele II, a Cavour e a tutti membri del governo e
del parlamento a seguito della Crisi Calabiana (1855) che si concluse con
l'approvazione della legge sui conventi.
La II guerra d'indipendenza.
Napoleone III.
Il biennio 1859-1860 costituì una nuova fase decisiva per il
processo d'unificazione, caratterizzato dall'alleanza tra la Francia di
Napoleone III e il Regno di Sardegna siglata con gli accordi di Plombieres, che
peraltro non prevedevano la completa unità italiana estesa a tutta la penisola.
Il 10 gennaio 1859 Vittorio Emanuele II pronunciò un famoso discorso della
Corona al Parlamento subalpino, disse: «Noi non siamo insensibili al grido di
dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi»; parole che esprimevano
un'accusa di malgoverno austriaco sugli italiani ai quali il re sabaudo si
proponeva come loro soccorritore e una velata ricerca del "casus belli":
elemento quest'ultimo necessario poiché, secondo gli accordi, Napoleone III
sarebbe entrato in guerra solo nel caso di un attacco austriaco al Piemonte.
Nel frattempo Garibaldi veniva autorizzato a condurre apertamente una campagna
di arruolamento di volontari nei Cacciatori delle Alpi, una nuova formazione
militare regolarmente incorporata nell'esercito sardo. L'Austria colse nelle
parole del sovrano piemontese e nel riconoscimento ufficiale dei volontari agli
ordini del noto rivoluzionario mazziniano Garibaldi, che veniva stanziato ai
confini del Lombardo-Veneto, una provocazione e una sfida. La possibilità però
di una guerra all'Austria con l'alleato francese sembrava ancora lontana dal
realizzarsi per l'opposizione dei cattolici francesi che vedevano in una guerra
vittoriosa del Piemonte una probabile successiva annessione dello Stato
pontificio, con la conseguente perdita del potere temporale del papa. Per
allontanare il rischio di una guerra agiva anche la diplomazia inglese e
prussiana che si adoperava per una conferenza di pace: si sapeva infatti che gli
accordi di Plombieres prevedevano un insediamento della Francia nell'Italia
centrale e meridionale che avrebbe alterato i rapporti di forza in Europa.
La battaglia di Varese
Dopo mesi, durante i quali sembrava si potesse giungere
a una pacificazione, giunse l'ultimatum austriaco al Piemonte con l'ingiunzione
di disarmare l'esercito e il corpo dei volontari. Cavour in risposta
all'intimazione austriaca dichiarò di voler resistere all'«aggressione» e a fine
aprile giunse la dichiarazione di guerra degli austriaci che attaccarono il
Piemonte attraversando il confine sul fiume Ticino (26 aprile).
Il 12 maggio 1859 l'alleato francese Napoleone III, sulle orme del "grande zio",
secondo gli accordi convenuti, entrò in guerra al comando dell' Armée d'Italie.
Seguirono nel periodo maggio-giugno una serie di vittorie franco-piemontesi, ma
con un alto numero di perdite, mentre i Cacciatori delle Alpi al comando di
Garibaldi dopo aver preso Varese, Bergamo, Brescia continuavano ad avanzare
verso il Veneto.
Alle notizie della guerra all'Austria il 27 aprile 1859 i ducati emiliani, le
legazioni pontificie, e il Granducato di Toscana, dopo l'abbandono del granduca
Leopoldo, chiedevano ed ottenevano l'invio di commissari sabaudi per
l'annessione al Regno sardo.
Questi avvenimenti che sconvolgevano gli accordi di Plombieres sulla spartizione
degli stati italiani, il malcontento dell'opinione pubblica francese per l'alto
numero di morti nella guerra in Italia, l'opposizione dei cattolici francesi che
vedevano realizzarsi i loro timori per la perdita dell'autonomia papale,
spinsero Napoleone III ad accettare di firmare un armistizio (luglio 1859) con
l'imperatore Francesco Giuseppe d'Asburgo ("preliminari di pace di Villafranca")
che concedeva ai Piemontesi la sola Lombardia (eccetto Mantova e Peschiera del
"Quadrilatero") in cambio dell'abbandono delle terre già occupate nel Veneto e
della rinuncia a soddisfare le richieste di annessioni.
Vittorio Emanuele accettò le condizioni di pace e ritirò i commissari regi dalle
città di Firenze, Parma, Modena, Bologna dove però i governi provvisori si
opponevano alla restaurazione ipotizzando anche una forza militare comune di
difesa, mentre le truppe papaline riprendevano militarmente il controllo
dell'Umbria ribellatasi.
Nel frattempo il quadro internazionale cambiava e l'Inghilterra si mostrava
favorevole ad una situazione italiana dove la Francia non avrebbe avuto alcun
peso mentre uno Stato unitario italiano poteva costituire un valido punto
d'equilibrio in Europa sia nei confronti della Francia che dell'Austria.
Il ritiro unilaterale dei francesi rendeva nulli gli accordi di Plombieres, ma
Cavour colse l'occasione delle mutate condizioni offrendo a Napoleone III la
Savoia e il Nizzardo in cambio del riconoscimento francese delle annessioni
dell'Emilia e della Toscana che con il consenso della Francia, tramite i
plebisciti dell'11 e 12 marzo 1860, entrarono a far parte del Regno di Sardegna.
La Spedizione dei Mille e la proclamazione del Regno d'Italia
Ulteriore passo verso l'unità fu la spedizione "dei Mille"
garibaldini in Sud Italia. Quest'ultima era formata da poco più di un
migliaio di volontari provenienti in massima parte dalle regioni settentrionali
e centrali della penisola, appartenenti sia ai ceti medi che a quelli artigiani
e operai; fu l'unica impresa risorgimentale a godere, almeno nella sua fase
iniziale, di un deciso appoggio delle masse contadine siciliane, all'epoca in
rivolta contro il governo borbonico e fiduciose nelle promesse di riscatto fatte
loro da Garibaldi. «Il profondo malcontento delle masse popolari delle campagne
e delle città, sebbene avesse le sue radici nella miseria e quindi nella
struttura di classe della società, si rivolgeva contro il governo prima ancora
che contro le classi dominanti».
Dopo la battaglia di Calatafimi, dove fu determinante per la vittoria la
partecipazione dei contadini siciliani, e la conquista di Palermo mentre le
truppe regie si ritirano verso Messina, «con la metà di giugno si spezza
definitivamente l'alleanza tra borghesi e contadini per dar luogo all'alleanza
tra borghesi isolani e borghesia continentale rappresentata dai garibaldini e
dai moderati» Ma nel frattempo continuava anche la guerra separata dei
contadini ancora condotta in nome di Garibaldi e della libertà. Invasero i
demani comunali, i feudi dei baroni latifondisti, bruciarono gli archivi dove
erano custoditi i titoli del loro servaggio. «I movimenti di insurrezione dei
contadini contro i baroni furono spietatamente schiacciati e fu creata la
Guardia Nazionale anticontadina; è nota la spedizione repressiva di Nino Bixio,
il braccio destro del Generale, nella regione del catanese dove le insurrezioni
furono più violente.».
Mentre Garibaldi avanzava da sud, in agosto
insorse la Basilicata arrivando ad avere un governo provvisorio che rimase in
carica fino all'ingresso di Garibaldi a Napoli. Le truppe di Vittorio Emanuele
II entravano nello Stato della Chiesa scontrandosi il 18 settembre con
l'esercito pontificio nella Legazione delle Marche, a Castelfidardo, dove
ottennero la vittoria che portò poi all'annessione di Marche ed Umbria. Solo
dopo questa vittoria si poté pensare alla proclamazione del Regno d'Italia in
quanto fu possibile unire politicamente le regioni del nord e del centro,
confluite nel Regno di Sardegna in seguito alla seconda guerra d'indipendenza (e
le conseguenti annessioni), alle regioni meridionali conquistate da Garibaldi e
definitivamente sottratte ai Borbone, dinastia che in passato aveva dato a
Napoli anche un grande sovrano, ma che «...ormai rappresentava, nella vita
dell'Italia Meridionale, la peior pars...», cioè la parte peggiore, come scrisse
Benedetto Croce. Anche lo storico e filosofo Ernest Renan, in viaggio nel
Mezzogiorno d'Italia attorno al 1850, al pari degli altri viaggiatori e
osservatori stranieri constatava l'«...affreuse tyrannie intellectuelle qui
règne sur cette partie de l'Italie...».
Dopo alcuni tentennamenti e sotto la pressione di Cavour e dell'imminente
annessione di Marche ed Umbria alla monarchia sabauda, Garibaldi, pur di idee
repubblicane, non pose ostacoli all'unione dell'ex Regno delle Due Sicilie al
futuro Stato unificato italiano, che già si profilava all'epoca sotto l'egida di
Casa Savoia. Tale unione fu formalizzata mediante il referendum del 21 ottobre
1860.
Il 18 febbraio 1861 si riuniva a Torino
il primo Parlamento dell'Italia unita, che il 17 marzo proclamava il regno
d'Italia sotto la monarchia dei Savoia e Vittorio Emanuele II non re
degli italiani ma «re d'Italia, per grazia di Dio e volontà della nazione». Non
"primo", come re d'Italia, ma "secondo" come segno distintivo della continuità
della dinastia di casa Savoia che aveva realizzato la «conquista regia» della
unificazione italiana; tre mesi dopo moriva Cavour che, nel suo primo
discorso al Parlamento dopo la proclamazione del Regno d'Italia, aveva suggerito
la linea politica di Libera Chiesa in libero Stato come soluzione al problema
della persistenza del potere temporale in Italia, che impediva una soluzione
pacifica affinché Roma, proclamata capitale del Regno, ma di fatto ancora
capitale dello Stato pontificio, potesse effettivamente diventare la capitale
del nuovo Stato e che conseguentemente condizionava la partecipazione dei
cattolici, sensibili alle indicazioni di Pio IX, alla vita politica nazionale.
Il nuovo regno mantenne lo Statuto albertino, la costituzione concessa da Carlo
Alberto nel 1848 e che rimarrà ininterrottamente in vigore sino al 1946.
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