Solo in alcune città fiamminghe e tedesche alla fine del 400 si poteva trovare
qualcosa di paragonabile alle grandi banche di Firenze, Genova e Milano, ai
tessuti di seta e alle industrie dei comuni italiani. Senza paragoni era poi la
civiltà dell'umanesimo italiano, la fioritura artistica italiana, la
raffinatezza delle corti della nostra penisola.
Ancora le navi Veneziane e Genovesi detenevano il grosso del commercio nel
Mediterraneo, mentre l'agricoltura della Pianura Padana e della toscana erano
all'avanguardia per la modernità delle tecniche produttive. Gli artigiani
italiani degli stucchi, della scultura e della pittura erano richiesti in tutta
l'Europa.
Mentre nei piccoli stati italiani si sviluppavano ricchezza e bellezza, in
Francia e in Spagna i sovrani portavano a compimento un poderoso processo di
unificazione e di modernizzazione dello stato e basavano il loro potere su un
esercito formidabile per numero di soldati e potenza degli armamenti. Alla fine
del felice periodo di tranquillità seguito alla pace di Lodi, Spagna e Francia
faranno un boccone degli staterelli italiani deboli e divisi.
Mentre Francia, Spagna ed Inghilterra, raggiungevano la propria unità nazionale,
nessuno stato italiano era abbastanza forte da imporsi su tutta la penisola o da
poter sostenere da solo l'urto delle grandi potenze straniere; nello stesso
tempo i vari stati erano troppo divisi per far fronte comune contro gli
stranieri. Le piccole compagnie di ventura operanti in Italia non potevano
reggere il confronto con i poderosi eserciti delle grandi monarchie europee.
Nei diversi stati italiani esisteva un distacco completo tra gli interessi di
una ristretta oligarchia che deteneva tutti i poteri e tutte le ricchezze e il
resto della popolazione che non contava niente e non aveva potere contrattuale.
La ristretta oligarchia che deteneva il potere preferiva affidare la propria
sicurezza alle truppe mercenarie piuttosto che pensare ad un esercito di popolo.
Venezia fu la sola eccezione alla regola di affidare tutta la propria difesa ad
un esercito mercenario e poté sempre contare sulla solidarietà della
popolazione.
Le grandi ricchezze dei mercanti e dei banchieri italiani conservavano una forte
connotazione di precarietà: rapidi e ingenti guadagni si alternavano a crolli
improvvisi. Un naufragio o un assalto di corsari potevano mandare in rovina un
mercante mentre un banchiere poteva fallire perché un governo da lui finanziato
diventava insolvente o veniva soppiantato dai suoi avversari politici.
Per questo i signori rinascimentali erano spietati e crudeli con i loro nemici e
altrettanto spietati nello sfruttamento dei ceti subalterni.
Essendo meno esposta ai pericoli insiti nel commercio e nella finanza la
proprietà fondiaria era molto ambita dai signori del tempo, i quali, investendo
nell'agricoltura, ottennero un aumento della produzione e la diffusione della
mezzadria.
Contrariamente a quanto succedeva in Francia, Spagna o Inghilterra,
dove il re si poneva come un baluardo in difesa di borghesi e contadini contro
le violenze dei nobili, in Italia le fasce deboli conoscevano solo le
violenze
del potere, senza alcun riconoscimento di diritti.
Le cose non andavano diversamente nei territori dominati dalla chiesa perché
rendite e beni ecclesiastici erano concentrati nelle mani dei figli delle
famiglie più potenti, così come appannaggio di queste famiglie era il soglio di
San Pietro.
I Medici di Firenze riuscirono a far eleggere al papato diversi loro rampolli, a
dimostrazione della grande influenza esercitata dalle banche e dalla finanza
anche sulla Chiesa.
La ricchezza dei piccoli stati italiani sono una preda invitante per le potenti
monarchie francese e spagnole. I lussi e gli intrighi delle corti papali
contrastano con le aspirazioni di riforma e coi fermenti critici che si vanno
sviluppando nella cultura, ma anche tra gli strati più umili della popolazione.
Roma e Napoli -
Impoverito e riportato indietro di qualche secolo dal rigido sistema feudale
importato dagli Angioini, il regno napoletano aveva attraversato, dalla metà del
Trecento in poi, un secolo di lotte intestine, in cui la feudalità aveva potuto
sfrenarsi, senza alcun controllo di fatto. Dal 1442 finalmente il trono era
passato alla dinastia degli Aragona. Senza farsi alcuno scrupolo e ricorrendo
non di rado alle misure più crudeli, gli Aragona avevano mirato a stroncare la
potenza e la riottosità dei baroni meridionali. La mancanza tuttavia di un medio
ceto borghese come quello che altrove aveva sostenuto l'affermazione
dell'assolutismo regio contro i feudatari rendeva il loro assunto quanto mai
arduo. Minacciato dall'odio delle grandi famiglie baronali, privo di forze
proprie di una qualche entità, il re di Napoli, Ferdinando I di Aragona
(1458-1494), sembrava perciò mantenere il proprio trono piuttosto per la
mancanza di un avversario abbastanza forte che per proprio merito.
Non molto più felice di quella del regno di Napoli era la situazione interna
dello Stato Pontificio. Buona parte del territorio, specialmente nelle Marche e
nell'Emilia di fatto si trovava nelle mani di una quantità di tirannelli locali
in perpetua lotta tra loro. La campagna romana, alle porte stesse della città
Eterna, era tradizionalmente il teatro delle gesta violente degli indomabili
baroni romani, non meno turbolenti e sanguinari dei loro colleghi del regno di
Napoli.
A differenza degli altri stati italiani, per quanto grande fosse la sua
debolezza intrinseca, per quanto acuto lo stato di marasma al suo interno, che
tentativi assolutistici di questo o quel papa più energico degli altri
riuscivano a contenere soltanto temporaneamente, lo Stato Pontificio, a causa
del suo carattere religioso, non rischiava di finire sotto il dominio di qualche
altra grande potenza. Al contrario, esso si presentava in genere come una fonte
di preoccupazioni per la sua aggressività rispetto a parecchi degli stati
circonvicini.
Per tutta la seconda metà del Quattrocento infatti, i papi, chiuso il difficile
periodo dello Scisma di Occidente e dei Concili di Costanza e di Basilea,
concentrarono la propria attenzione nell'ingrandimento della propria famiglia.
Quasi ogni papa della seconda metà del Quattrocento mirò a costituire uno stato
gentilizio, sia entro il territorio stesso dello Stato Pontificio, sia a spese
dei territori vicini, mantenendo l'Italia in continua apprensione.
Dal 1492 il trono pontificio era occupato da una delle più sconcertanti figure
della storia del Papato: lo spagnolo R0DRIG0 BORGIA da Valenza, che aveva
assunto dopo la propria elezione il nome di Alessandro VI (1492-1503).
Temperamento focoso e sensuale, tanto divorato da una sete smodata di fasto, di
opulenza, di godimento carnale, quanto incapace di conoscere limite nella scelta
dei mezzi per saziare le sue brame, il nuovo pontefice giungeva al trono
accompagnato dalla più scandalosa fama di immoralità personale e da un ardore
quasi maniacale di fare grande e potente la propria figliolanza illegittima. Tra
questa, doveva ben presto emergere, non senza la fosca ombra di un sospetto di
fratricidio, il famoso CESARE BORGIA, altrettanto e più del padre, ambizioso e
privo di scrupoli.
Sulla regolarità della elezione del Borgia, più di uno affacciava dubbi,
affermando che lo spagnolo aveva comperato i voti dei cardinali e che perciò,
come simoniaco, era indegno di rivestire l'altissima dignità. Tra i più decisi e
violenti avversari del papa era, nel Sacro Collegio stesso, il cardinale
genovese Giulio della Rovere, il futuro papa GIULIO II.
Era noto che
quest'ultimo, allo stesso modo dei baroni napoletani ribelli a Ferdinando di
Aragona, non mancava di intelligenze e di amicizie presso la corte del giovane
ed ambizioso re di Francia Carlo VIII.
Firenze e Milano -
Non sfuggiva a questa crisi generale degli stati italiani il ducato di Milano,
minacciato dalla lenta ma continua avanzata di Venezia, che gli andava
sgretolando il territorio ad Est della capitale.
Esso, inoltre, cominciava a sentire anche il pericolo del suo sempre più potente
e bellicoso vicino settentrionale, la Confederazione Svizzera, i cui montanari
guardavano alle valli dell'alta Lombardia come al proprio sbocco naturale.
D'altra parte, il ducato si trovava in una difficile situazione dinastica, in
quanto l'erede del trono milanese, il giovanissimo GIAN GALEAZZO SFORZA
(1476-94), sposo di Isabella d'Aragona, nipote del re di Napoli, era da tempo in
una ambigua situazione tra protetto e prigioniero rispetto al suo zio e tutore
Ludovico il Moro, desideroso di soppiantare il nipote nella successione
milanese. Il re di Napoli, alla cui famiglia apparteneva la moglie di Gian
Galeazzo, guardava con sdegno a quanto faceva il Moro per accaparrarsi il trono
ducale a spese del nipote, e ciò, per converso, portava Ludovico a considerare
con favore qualsiasi opportunità di sbarazzarsi del potenziale avversario
napoletano.
Ancora abbastanza ricco dal punto di vista economico, malgrado la mutilazione
infertagli da Venezia qualche decennio prima con la conquista degli importanti
territori di Brescia e di Bergamo, il ducato milanese godeva invero di una larga
reputazione per le manifatture di tessili, per le sue armature, che contavano
tra le migliori esistenti in Europa. A questo si aggiungeva l'eccellente
posizione della sua capitale, all'incrocio delle più importanti linee di
comunicazione dell'Alta Italia, nonché una sorta di tradizionale supremazia sul
porto di Genova, la cui floridezza commerciale era legata intimamente con il
traffico lombardo.
Questi fattori però si trasformavano in una ragione di precarietà, essendo privi
di concrete possibilità difensive contro uno straniero bene armato e
modernamente equipaggiato e pertanto rendevano in pratica Milano uno dei punti
più ambiti e più vulnerabili d'Italia.
Non meno modeste erano le forze militari e la possibilità di una effettiva
resistenza dello stato di Firenze in confronto ai grandi stati europei. La
situazione fiorentina era aggravata, tra l'altro, anche dal fatto che la maggior
parte dei centri minori del dominio, a cominciare da Pisa, l'antico porto
tirrenico, vedevano di malocchio l'egoistico ed oppressivo governo esercitato
dalla capitale, senza alcun riguardo per gli interessi locali calpestati.
Firenze, tuttavia, ancora sul cadere del sec. XV, si presentava come uno dei
centri più attivi della vita economica europea.
L'industria della seta e lo
sviluppo delle attività artigianali, si accompagnavano infatti con
un'eccezionale potenza finanziaria delle sue grandi casate di banchieri, come
quella dei Medici, degli Strozzi, dei Gondi, etc.. da secoli dominatori della
vita finanziaria europea, così per le disponibilità finanziarie, come per il
volume degli affari o per la rete di filiali o ragioni estesa, oltre che in
Italia, a Lione, a Bruges, in Oriente, etc. Il possesso stesso di Pisa aveva
offerto ai fiorentini maggiori possibilità di sviluppo commerciale, consentendo
loro di fare la propria comparsa anche in quei mari del Levante, che fino allora
erano stati riservati alla iniziativa genovese o veneziana.
Oltre alla floridezza economica della città, la parte importante svolta dallo
stato fiorentino nella politica italiana del sec. XV era dovuta in buona parte
all'abilità personale dei suoi signori, specie COSIMO IL VECCHIO ed il nipote
Lorenzo il Magnifico.
Appunto sul cadere del secolo, nel 1492, Lorenzo era venuto a morte, lasciando
un inetto come successore, il figlio PIERO, niente affatto all'altezza della
eredità paterna. I malcontenti del dominio mediceo, sostenitori del ritorno alle
tradizioni repubblicane della città, trovavano perciò impulso maggiore alle loro
aspirazioni, cui conferiva notevole forza l'influenza dominatrice assunta nella
città dal predicatore ferrarese Girolamo Savonarola (1452-98), dell'ordine dei
Domenicani.
Contro ai Palleschi, seguaci dei Medici, così detti dalle palle che figuravano
nell'emblema mediceo, cresceva perciò quotidianamente la forza dei seguaci del
frate, detti per scherzo Piagnoni, per la loro abitudine a lamentare la
corruzione morale dilagante.
Ultimo erede della grande tradizione gioachimita del Medioevo, Girolamo
Savonarola innestava sullo sfondo delle aspirazioni ad una riforma morale della
Chiesa, che già altri predicatori ed asceti avevano propugnato nel corso del
sec. XV, un deciso programma politico orientato in senso repubblicano e
popolare. Nei suoi ardenti discorsi infatti, e nelle sue apocalittiche profezie,
egli annunziava imminente il rinnovamento radicale della Chiesa e dell'Italia in
particolare.
Il grande rinnovamento cristiano avrebbe dovuto iniziare
con la
conversione del popolo fiorentino e l'instaurazione in Firenze di un regime,
rinnovante i liberi ordinamenti comunali, ed esente ormai dal dominio corruttore
dei Medici. E come Dante un tempo aveva identificato il « Veltro » in Enrico VII
di Lussemburgo, così non mancava nel frate ferrarese la tendenza ad identificare
il potente re di Francia, nella cui orbita politica era vissuto tanto tempo il
comune guelfo di Firenze, con lo strumento della volontà di Dio per abbattere
Alessandro VI ed iniziare l'opera di rigenerazione della cristianità.
Venezia -
Sola grande potenza italiana in grado di competere con i maggiori stati europei,
l'unica dotata di una compatta organizzazione statale, accentrata nelle mani di un
patriziato di cui erano note le tradizionali doti di patriottismo e di dedizione
al pubblico bene, nonché di abilità diplomatica e marinara, era la repubblica di
Venezia.
La zona di interessi politici ed economici della repubblica superava d'assai
l'ambito italiano. Padrona incontrastata delle acque dell'Adriatico, Venezia
dominava su buona parte dell'Istria e della Dalmazia, sulle Isole lonie e su
altri punti della costa adriatica, donde traeva tradizionalmente le sue più
valorose e fedeli milizie, cioè la fanteria degli Schiavoni e la cavalleria
leggera degli Stradiotti. Nei mari del Levante, dopo la perdita delle sue
piazzeforti in Grecia, causata dalle conquiste turche, la repubblica aveva
conservato l'isola di Candia ed acquistato la vasta e ricca isola di Cipro,
cedutale (1489) dalla sua ultima regina, la veneziana CATERINA CORNARO.
Tutto il
traffico tra i paesi del Medio Oriente e l'interno dell'Europa passava
attraverso Venezia, cui facevano capo quasi esclusivamente le correnti
commerciali della Germania meridionale. La flotta veneziana deteneva l'assoluta
supremazia navale nel Mediterraneo e si calcolava che, in caso di bisogno, la
Serenissima potesse contare su un numero di galere pari a quello di tutti gli
altri paesi della cristianità messi insieme.
Dai primi del Quattrocento, Venezia, alla sua tradizionale politica marinara in
Levante, aveva aggiunto anche una attiva politica di espansione territoriale in
Italia, che l'aveva portata a dominare sul Veneto e parte della Lombardia,
affacciandosi anche in Romagna col possesso di Ravenna. Essa aveva inoltre
notevole influenza tra gl'irrequieti signorotti della Romagna, e legava a
sé, attraverso il sistema delle condotte, che la repubblica soleva affidare loro
in caso di guerra coi propri vicini, anche i piccoli stati dei DUCHI DI URBINO e
dei MARCHESI DI MANTOVA.
Tra tutti gli stati italiani, Venezia era il solo che fosse in grado di
sviluppare una politica coerente ed a largo raggio; il solo che potesse avere
qualche pretesa ad una egemonia unificatrice sul resto della penisola. Tuttavia,
proprio le apprensioni destate negli stati italiani dalla politica
espansionistica di Venezia costituivano per quest'ultima un pericoloso fattore
di isolamento: avversi a Venezia erano il ducato di Milano, minacciato
continuamente di assorbimento, il papa, che non tollerava l'egemonia veneta
sulle Romagne e trovava nella potenza veneziana la più forte delle remore alla
propria politica nepotistica, ed il re di Napoli, di cui Venezia ambiva ad
occupare qualche lembo di territorio marittimo nella Puglia, come base per la
sua politica navale di dominio dell'Adriatico. D'altra parte non si potevano
dimenticare le antiche ostilità intercorse per lungo tempo tra la repubblica e
gli Asburgo d'Austria, molesti vicini, accampati a Gorizia, Trieste e Trento.
Più delicate ancora erano le relazioni di Venezia con l'Impero turco. Già una
volta, alla metà del secolo XV°, l'avanzata turca contro Costantinopoli aveva
costretto la repubblica a disinteressarsi delle vicende italiane per concentrare
i propri sforzi nel Levante. D'altra parte, Venezia non poteva impegnarsi in una
politica troppo aggressiva e rigida nei riguardi dei turchi, dati i vitali
interessi commerciali che essa aveva nel Levante. Inoltre la repubblica era
fortissima sì sul mare, ma costretta a dipendere per i propri rifornimenti di
grano o dalle esportazioni della Sicilia, controllate da Ferdinando d'Aragona, o
da quelle della Anatolia, che l'ostilità turca poteva da un momento all'altro
tagliare, riducendo Venezia alla fame.
In altre parole, proprio l'estensione e la molteplicità dei suoi interessi,
rendevano assai delicato per Venezia così lo scacchiere italiano, dove essa
trovava davanti a sé l'ostilità coalizzata degli altri stati e di Massimiliano
d'Austria, come lo scacchiere orientale, dove la repubblica doveva affrontare la
potenza turca col rischio di compromettere le proprie fortune e rimanere
affamata. Piuttosto che una grande politica imperialistica, in simili
condizioni, c'era dunque da attendere da Venezia una politica assai cauta, di
difesa delle sue posizioni attuali e di lenti miglioramenti graduali.
Gli stati minori della penisola.
Se modeste erano in genere le forze militari ed il peso politico dei maggiori
stati italiani, ancora più ridotte dovevano essere logicamente quelle degli
infiniti piccoli e piccolissimi stati, che ancora sopravvivevano nella penisola.
Solo parzialmente italiano era il ducato di Savoia, a cavaliere delle Alpi. Esso
si stendeva infatti in buona parte su territori transalpini e di lingua
francese, come la Savoia, la Bresse, il Vaud ecc., mentre al di qua delle Alpi
non possedeva altro che una parte del Piemonte fino al corso della Sesia. Ne
restavano fuori, invece, i marchesati di Saluzzo e del Monferrato, retti da
dinastie indipendenti, nonché la contea di Asti, recata in dote da Valentina
Visconti al duca di Orléans.
La vicinanza del potente regno di
Francia metteva i duchi di Savoia nella condizione di vassalli rispetto a
quest'ultima corona, alla cui volontà difficilmente avrebbero potuto opporsi le
loro modeste forze. Un certo periodo di indipendenza avevano avuto i Savoia tra
la fine del sec. XIV ed i primi del sec. XV, allorché la Francia era stata
sconvolta e paralizzata dalla sanguinosa guerra dei Cento Anni; ma, affermatosi
sul trono Luigi XI, il piccolo stato sabaudo non aveva potuto evitare di
ricadere sotto l'antica soggezione. Né d'altra parte la natura dei suoi
territori montuosi si prestava allo sviluppo di una attività economica, che
potesse metterlo alla pari degli stati circonvicini.
Emuli in mecenatismo verso artisti e letterati dei Medici e degli Sforza,
animatori di una sfolgorante vita intellettuale presso le loro corti, consacrate
all'eternità dall'opera dei pittori, degli scultori e architetti da loro
radunati, si presentavano invece nella loro maggioranza tutti i sovrani delle
piccole e piccolissime signorie dell'Emilia e della Valle Padana.
Basta
ricordare:
i Gonzaga di MANTOVA, dalle ammirabili raccolte
artistiche, racchiuse nei loro palazzi principeschi,
gli Este di FERRARA, presso
la cui corte doveva fiorire la poesia epico-cavalleresca del Boiardo,
dell'Ariosto, del Tasso,
i Montefeltro di URBINO,
i Malatesta di RIMINI, ecc.
La
loro funzione politica tuttavia si limitava per forza a quella di satelliti
delle maggiori potenze.
Delle sopravvissute repubbliche cittadine, Siena appariva la più colpita dalla
crisi economica e la più debole politicamente: Genova e Lucca invece mantenevano
un grado di notevole prosperità economica, sia per l'intensa attività bancaria,
sia per la notevole entità della loro industria serica. Inoltre, Genova,
manteneva un'imponente attività marinara e commerciale, specie nel Mediterraneo
occidentale, ove essa dominava sulla Corsica ed aveva forti interessi nella
penisola iberica. Mentre Lucca avrebbe potuto conservare a lungo la propria
indipendenza e la propria costituzione oligarchica, Genova invece aveva già da
tempo veduto ridursi la propria autonomia politica e legarsi le sue sorti a
quelle di chi riuscisse ad essere padrone dello stato di Milano, del quale la
città ligure costituiva una specie di appendice economica, nella sua qualità di
porto naturale della Lombardia.
Declino della penisola italiana
-
Tra la fine del quattrocento e il primo decennio del cinquecento ha inizio per
la penisola italiana un declino che durerà oltre quattro secoli. Le cause più
importanti sono: la caduta di Costantinopoli ad opera dei Turchi Ottomani, la
nuova rotta per le Indie aperta dai Portoghesi circumnavigando l'Africa, la
scoperta dell'America, la guerra tra Carlo V di Spagna e Francesco I di Francia.
Fino a tutto il XV secolo i Veneziani detennero il monopolio del commercio delle
merci provenienti da India e Cina. Navigatori Arabi facevano la spola tra il
Golfo Persico e l'India. Le merci provenienti dall'India venivano trasportate a
dorso di cammello presso i porti bizantini. I Veneziani compravano tutta la
merce: oro, seta, spezie e colla (gomma arabica) e la rivendevano al resto
d'Europa.
La presa dei porti Bizantini da parte dei Turchi rese i prezzi dei prodotti dei
mercanti Veneziani eccessivamente elevati, cosa questa che favorì i mercanti
portoghesi una volta che questi ultimi ebbero raggiunto le coste indiane via
mare.
La scoperta dell'America e la nascita degli imperi coloniali spagnolo e
portoghese spostarono gran parte del commercio marittimo dal Mediterraneo
all'Atlantico, con grave danno per le città italiane che vivevano del commercio
mediterraneo.
La spedizione di Carlo VIII -
Nel 1491 salì al trono di Francia Carlo VIII (1483-1498), giovane di salute
cagionevole, ritenuto sciocco e poco adatto agli affari di stato dai
contemporanei. Anziché puntare ai domini ereditari della casa di Borgogna
preferì concentrarsi sulla conquista del regno di Napoli, di cui si dichiarava
erede dopo l'estinzione della casa d'Angiò.
Carlo VIII fu fortemente influenzato, nella sua decisione di scendere in Italia,
da Ludovico Sforza, detto il Moro, ansioso di sbarazzarsi di un potenziale
nemico, che gli poteva impedire di impadronirsi del trono ducale a spese del
nipote Gian Galeazzo.
Molte speranze degli avversari del papa Alessandro VI si appuntavano sul re
francese, invocato come restauratore della cristianità dalle prediche del
SAVONAROLA ed aizzato dall'odio del cardinale GIULIANO DELLA ROVERE verso i
Borgia.
Per guadagnarsi la neutralità degli altri sovrani europei Carlo paga una forte
somma al re d'Inghilterra, concede la Franca Contea a Massimiliano d'Asburgo e
la Cerdan e il Roussignon a Ferdinando il Cattolico.
La conquista di Napoli.
Nel settembre del 1494, il re prendeva il cammino dell'Italia con un esercito di
trentamila uomini con forti contingenti di mercenari svizzeri ed un'artiglieria,
quale mai gl'italiani avevano vista nelle guerre degli anni passati.
La spedizione, sulle prime, sembrò un'innocua passeggiata militare. A Milano
Ludovico il Moro accolse il sovrano francese con grandi feste, nella cui eco si
spense la notizia della morte di Gian Galeazzo, avvenuta poco dopo la partenza
di Carlo VIII dalla Lombardia ed attribuita da molti al veleno dello zio. A
Firenze Piero dei Medici, benché alleato del re di Napoli, si arrese senza
combattere, cedendo all'invasore le chiavi delle più importanti fortezze dello
stato. L'indignazione destata dalla sua condotta, portò alla caduta della
signoria medicea ed alla instaurazione di una repubblica di ispirazione
savonaroliana. Anche questa però era animata da sentimenti amichevoli verso il
re di Francia e non si oppose al suo ingresso in città.
La mancanza di senno politico del giovane sovrano apparve tale da arrivare,
malgrado queste buone disposizioni dei fiorentini, al rischio di una rottura con
Firenze.
Mentre Pisa, profittando del suo passaggio, insorgeva contro l'odiato
dominio di Firenze, Carlo VIII minacciava di volere restaurare in Firenze la
signoria medicea e provocava l'indignazione della cittadinanza con le sue
arroganti ed esose richieste di contributi finanziari. Anche questi incidenti
però poterono essere superati con la rinunzia di Carlo VIII al suo progetto di
restaurazione medicea, e la marcia dell'esercito francese poté proseguire per
Napoli.
A Napoli FERDINANDO II, da poco successo nel regno al padre Alfonso II, fuggì
lasciando il paese ai francesi.
Il successo francese, allarmava tutti gli altri stati europei ed in particolare
la Spagna, che non poteva vedere una forte potenza insediata nelle prossimità
della Sicilia, che costituiva la fonte principale dei suoi rifornimenti di
grano.
Contro il re Francese si formava una coalizione in cui entravano Ferdinando il
Cattolico, Massimiliano d'Austria, che vedeva minacciate le prerogative imperiali
in Italia, Venezia, timorosa per la sua supremazia marittima sull'Adriatico, il
Papa, timoroso di un vicino troppo potente, Ludovico il Moro, che vedeva
insediato il suo regno dalle pretese del duca Luigi d'Orleans. Vista la
situazione, Carlo VIII si affrettò a fuggire, ma sulla via del ritorno, nei
pressi di Parma, ricevette dalla Coalizione una sonora batosta che lo privò
della sua poderosa artiglieria e lo costrinse a tornarsene a casa per il "rotto
della cuffia".
La conquista francese dell'Italia meridionale venne annullata. Forze spagnole al
comando del famoso condottiero CONSALVO DI Cordova, detto il Gran Capitano,
costrinsero alla resa i presidi rimasti a difendere il regno di Napoli e
tornarono ad insediare sul trono il re Ferrandino, mentre i Veneziani si
impadronivano di alcuni porti della costa pugliese, come garanzia del proprio
dominio navale sul basso Adriatico. La situazione della penisola tornava ad
essere nelle sue grandi linee quella del 1494.
Girolamo Savonarola
Gravi erano le conseguenze degli errori politici di Carlo VIII all'interno dello
stato fiorentino. I legami tra le banche ed i commercianti fiorentini e la
monarchia francese, risalenti ai secoli del Medioevo, erano stati danneggiati
dall'atteggiamento ostile preso inizialmente da Piero dei Medici nei confronti
di Carlo VIII. Era stato facile perciò approfittare del malcontento per la
condotta inetta e vile del Medici e dell'eccitazione creata dalle roventi
prediche del Savonarola, che acclamava alla venuta di Carlo VIII, come
liberatore della Chiesa, per abbattere la signoria medicea e ristabilire un
regime repubblicano, amico della Francia.
Sotto l'influsso della vigorosa personalità del frate, Firenze si era data
allora una nuova costituzione, a carattere popolare. Intanto un'ondata di
fervore religioso sembrava scuotere la cittadinanza, attuando il sogno di
rigenerazione politico-spirituale del Savonarola.
Sulle piazze si bruciavano
pubblicamente gli oggetti di lusso o i quadri e i libri licenziosi, mentre in
città si instaurava una rigida austerità morale, tra l'entusiasmo ed il consenso
del popolo, che vedeva così depressi quei ricchi cittadini che avevano fatto
corona alle feste medicee.
Ma gli entusiasmi popolari dovevano essere di breve durata. Carlo VIII non si
curava di serbarsi amica Firenze. Grazie agli aiuti francesi prima, veneziani
poi, Pisa si manteneva ribelle e costringeva Firenze ad affrontare una lunga e
ingloriosa guerra per ridurla in soggezione. Le profezie del frate sul conto del
re di Francia non si realizzavano nemmeno in parte. La continua ingerenza nella
vita cittadina dei frati domenicani cominciava a sembrare vessatoria ed
irritante a molti cittadini. L'introduzione della decima scalare, cioè di
un'imposta progressiva che colpiva più fortemente i maggiori redditi, portava le
grandi casate nel campo degli avversari del Savonarola: i Bigi o Palleschi,
fautori dei Medici, e gli Arrabbiati, antimedicei ma contrari ugualmente alla
repubblica popolare del frate e vagheggiatori di un regime più ristretto di
carattere oligarchico. Né poteva mancare, tra gli avversari del Savonarola, il
pontefice Alessandro VI, fieramente attaccato dal frate ferrarese nelle sue
prediche sulla corruzione della chiesa.
Nel maggio 1497 era stata fulminata contro Savonarola la scomunica da parte del
papa, con la minaccia dell'interdetto su Firenze, nel caso che il frate avesse
avuto il permesso di continuare a predicare. La borghesia fiorentina non aveva
alcun interesse ad affrontare un conflitto aperto con il pontefice, che per
mezzo dell'interdetto avrebbe potuto sciogliere i debitori dei banchieri di
Firenze dai loro impegni con questi ultimi e danneggiare gravemente gli
interessi commerciali della città. Ai primi del 1498 le nuove elezioni portarono
perciò al governo una maggioranza di Arrabbiati.
Per rialzare il suo prestigio ormai vacillante tra le folle che, dopo aver
creduto alle sue profezie, cominciavano adesso a voltarglisi contro, il
Savonarola chiese di poter affrontare la prova del fuoco per dimostrare la
falsità delle accuse di cui lo coprivano, in modo particolare i predicatori
francescani, nemicissimi dei domenicani. Ma per un seguito di lungaggini e di
cavilli giuridici, la prova del fuoco, al cui spettacolo era accorsa la plebe
fiorentina, non venne effettuata. Agli occhi del popolino superstizioso, il
frate, che non aveva saputo fare il miracolo, apparve definitivamente
screditato.
Arrestato e processato il Savonarola, assieme ad altri due frati del suo
convento, venne impiccato ed arso come eretico nel maggio del 1498.
In Firenze, estinto il Savonarola, trionfavano le oligarchie dei grandi, cioè
dei più ricchi banchieri e commercianti. Per dare una qualche stabilità al loro
regime, essi cambiarono la costituzione fiorentina, con l'istituzione di un
gonfaloniere a vita (1502), affiancato da magistrature collegiali per gli affari
interni, gli esteri, la guerra ecc.
La conquista francese di Milano e quella spagnola di Napoli.
A Carlo VIII, morto subito dopo la sua spedizione in Italia, succedeva un
lontano parente, Luigi XII (1498-1515). Questi, duca di Orleans, aggiungeva alle
pretese sul regno di Napoli, in quanto erede degli Angiò, anche pretese sul
ducato di Milano, essendo erede di VALENTINA VISCONTI, figlia di Gian Galeazzo,
andata sposa ad un Orleans.
Prima che a Napoli, perciò, le ambizioni del re francese si rivolsero al ducato
di Milano, di cui preparò la conquista con abile lavoro di diplomazia. Si
accordò con Venezia e ne ottenne l'aiuto contro Ludovico il Moro, promettendole
ingrandimenti territoriali in Lombardia. Si guadagnò l'appoggio degli svizzeri,
sostenendoli contro Massimiliano d'Austria, e quello del papa Alessandro VI, con
la cessione al figlio Cesare Borgia del ducato di Valentinois in Francia e la
mano di Carlotta d'Albret, discendente dei re di Navarra.
Così preparata, la conquista di Milano si ridusse ad una breve campagna,
culminata nella capitolazione di Lodovico il Moro a Novara (9 aprile 1500),
davanti all'esercito francese, rinforzato da mercenari svizzeri e guidato da un
fuoruscito milanese, il maresciallo Gian Giacomo Triulzio. Venezia ottenne la
città di Cremona, ed il territorio detto Ghiara d'Adda. Ludovico il Moro dovette
fuggire e riparare in Germania, presso l'imperatore. Da qui, nel 1500, riuscì a
raccattare ottomila Svizzeri per tentare di recuperare il trono perduto. Ma fu
sconfitto a Novara, fatto prigioniero e relegato in Francia, dove finì i suoi
giorni otto anni dopo. Per di più, gli Svizzeri da lui assoldati, ritornando nei
loro paesi, si impadronirono di Lugano e di Bellinzona, che fin dai tempi dei
Visconti appartenevano al ducato di Milano, e che in seguito furono aggregati
alla Confederazione Elvetica, col nome di Canton Ticino.
Il re francese quindi cominciò a preparare la conquista di Napoli, dove nel 1496
a Ferdinando II era successo FEDERICO I D'ARAGONA. Un trattato segreto stipulato
a Granata il 2 novembre 1500 con Ferdinando il Cattolico prevedeva la
spartizione del regno meridionale tra francesi e spagnoli. La neutralità dei due
maggiori stati italiani veniva guadagnata, garantendo a Venezia il possesso dei
porti pugliesi da lei precedentemente occupati, ed a Cesare Borgia l'appoggio di
truppe francesi per spodestare le signorie romagnole.
Anche l'invasione del regno di Napoli poté avvenire quasi senza colpo ferire,
nell'estate del 1501. La Spagna, data l'importanza dei suoi interessi nella
vicina Sicilia, non poteva tollerare a lungo la presenza dei francesi a Napoli.
Lo scoppio della guerra tra Francia e Spagna avvenne subito dopo la scomparsa
della dinastia aragonese. Le forze francesi nel regno di Napoli, prive di
rifornimenti dalla parte del mare, controllato dalla flotta di Ferdinando il
Cattolico, furono sconfitte da Consalvo di Cordova dopo quasi due anni di
resistenza. Il trattato di Lione (1504), stabilì che i Francesi si stanziassero
a Milano e gli Spagnoli a Napoli.
Cesare Borgia -
Abbiamo già visto quale peso avesse nella politica di Alessandro VI la
preoccupazione di assicurare al proprio figlio prediletto il modo per
conquistarsi uno stato. Con forze militari ottenute dal re di Francia e con
mezzi finanziari ricavati dal papa, Cesare Borgia, tra il 1499 ed il 1501,
riuscì ad abbattere con la forza o il tradimento le piccole signorie romagnole
come quella dei Riario di Forlì, dei Manfredi di Faenza, dei Malatesta di
Rimini.
Uno dopo l'altro i signorotti emiliani dovettero cedere. Al figlio trionfatore
il pontefice poteva concedere allora il titolo di duca di Romagna. Le sue
conquiste tuttavia non bastavano ancora all'ambizioso avventuriero, che si gettò
contro il ducato di Urbino, cacciandone i Montefeltro, e contro quello di
Camerino, allargando i propri possessi verso le Marche.
Con i suoi metodi terroristici, il Valentino aveva saputo sfruttare una serie di
contingenze fortunate, piuttosto che fondare una costruzione statale capace di
sopravvivere. Mentre già macchinava piani di altre conquiste nell'Italia
centrale, nell'agosto del 1503 egli si ammalava gravemente insieme al padre.
Alessandro VI moriva entro pochi giorni e saliva al trono papale il più fiero
avversario dei Borgia, il cardinale GIULIANO DELLA ROVERE, col nome di Giulio II
(1503-1513).
Lo stato borgiano cadde di colpo. Ad Urbino la popolazione stessa si affrettò a
richiamare i Montefeltro: nelle Romagne l'ostilità di Giulio II impedì a Cesare
di accorrere alla difesa. Fuggiasco a Napoli, il Valentino vi fu fatto arrestare
da Consalvo di Cordova e tradurre prigioniero in Spagna. Evaso di là, poté
ancora riparare presso i suoi parenti d'Albret in Francia e finì nel 1507 la sua
esistenza combattendo per loro nella Navarra.
La politica di Giulio II e la Lega di Cambrai
-
Quasi per uno strano destino, proprio colui che durante la sua vita era stato
l'avversario più implacabile dei Borgia, si trovava adesso, assunto al Papato, a
continuarne la politica di sterminio delle signorie romagnole, risorte dopo la
caduta dei Borgia, e quindi di ostilità contro Venezia, che appunto in codesto
momento aveva potuto consolidare la propria egemonia sulla Romagna, occupando
anche Cervia e Faenza.
Pontefice terribile, chiamarono i contemporanei questo vecchio dall'animo
tempestoso. In Roma volle segnare un'orma incancellabile, lasciandola adorna
delle opere di Michelangelo; allo stesso modo sognava di far inchinare tutta
l'Italia di fronte alla potenza della chiesa. Per questo sogno di dominio,
sconvolse la penisola con una serie di guerre ininterrotte, alle quali talora
partecipò in persona, incurante di disagi e di pericoli.
Purtroppo l'impeto di Giulio II non teneva conto del fatto che l'Italia non era
ormai altro che la posta del giuoco di stati troppo superiori di armi e di
potenza. E fu quindi fatale accecamento che il primo obiettivo dei suoi colpi
fosse proprio l'unico stato italiano che ancora era in grado di tenere testa
agli stranieri: Venezia.
Una costante della politica italiana era il timore degli stati minori per la
potenza di Venezia. Fu quindi assai facile a Giulio II coalizzare contro di lei
l'imperatore Massimiliano, desideroso di estendersi sulle terre del Veneto, il
re di Francia, erede, col ducato di Milano, del tradizionale antagonismo tra
quest'ultimo e la sua potente vicina, il re di Spagna, desideroso di
riconquistare i porti pugliesi, occupati da Venezia durante la crisi della
dinastia aragonese, il re di Ungheria, nonché diversi degli stati minori
italiani, come il marchesato di Mantova ed il ducato di Ferrara, minacciati di
assorbimento da Venezia, ed il duca di Savoia, che poté illudersi per un momento
di trasformare in dominio effettivo il suo titolo fino allora puramente nominale
di re di Cipro partecipando alla spartizione delle spoglie della Serenissima.
Dopo aver schiacciate le piccole signorie dei Baglioni di Perugia e dei
Bentivoglio di Bologna, riconquistandone i territori alla Chiesa, Giulio II,
conclusa la Lega di Cambrai (10 dicembre 1508) con tutti i nemici di Venezia
lanciava, ai primi del 1509, la scomunica contro la Serenissima. Di lì a pochi
giorni, le forze terrestri veneziane subivano ad Agnadello (14 maggio 1509) una
delle più tremende disfatte della storia della repubblica e ne lasciavano
indifesi i territori alla invasione straniera. Mentre Ferdinando il Cattolico si
affrettava a recuperare i porti della Puglia, Giulio II le città delle Romagne e
Luigi XII i territori controversi della Lombardia, l'imperatore Massimiliano
poteva occupare l'una dopo l'altra le città del retroterra veneto. L'ultima ora
di Venezia pareva giunta senza riparo.
Proprio in quell'ora di crisi rifulsero però, per un lato l'energia e l'abilità
del governo di Venezia, per un altro la fedeltà delle popolazioni del dominio,
affezionate al giusto ed umano reggimento della repubblica. Mentre rivolte
scoppiavano qua e là contro gl'invasori, la diplomazia veneta lavorava
attivamente a dividere i propri nemici ed a concludere paci separate con i meno
pericolosi di essi. Ferdinando il Cattolico, Giulio II e Luigi XII, una volta
raggiunti i propri obiettivi, non avevano più interesse ad aiutare Massimiliano e
si accordarono facilmente con Venezia, dietro riconoscimento da parte di
quest'ultima della situazione di fatto. L'imperatore, contrattaccato dalla
repubblica, si trovò in difficoltà e dovette cominciare a sgomberare il Veneto
(1510).
Venezia era salva. Il colpo ricevuto ad Agnadello era però troppo forte per
potere essere dimenticato. Già cauta per sua natura, data la necessità di
coprire ad un tempo due fronti, quello marittimo nel Levante e quello terrestre
nella Lombardia, la politica veneziana, da allora in poi, rinunziò
definitivamente alla creazione di un vasto dominio nell'Italia settentrionale e
si chiuse in una tattica puramente difensiva. Nel grande conflitto europeo per
il dominio d'Italia, l'unica forza italiana che avrebbe potuto fare da
contrappeso agli stati d'oltralpe, era così virtualmente eliminata dalla
contesa.
La guerra della Lega Santa. -
L'umiliazione di Venezia, invece di una calamità italiana, parve tuttavia a
Giulio II l'inizio della realizzazione dei suoi sogni. Eliminata dalle Romagne
l'influenza veneziana, sembrò perciò giunto il momento per lui di eliminare dal
bacino padano anche la Francia.
Perno della politica antifrancese del papa fu l'alleanza da lui stretta ai primi
del 1510 con la invincibile potenza militare svizzera, di cui erano note da
tempo le ambizioni di dominio sulle fertili pianure lombarde. Fuori i barbari!
fu il motto adoperato allora da Giulio II per dare calore di lotta nazionale
italiana alla sua politica contro la Francia. Purtroppo si trattava assai più di
contrapporre uno straniero all'altro, che di fare leva su forze italiane: la
Lega Santa, come fu detta da Giulio II la coalizione da lui preparata contro
Luigi XII, comprese, oltre al papa, alla Confederazione Svizzera ed a Venezia,
comprensibilmente desiderosa di rifarsi della sconfitta, anche Ferdinando il
Cattolico e, più tardi, Enrico VIII di Inghilterra.
La Francia reagì con energia. Luigi XII, minacciando a Giulio II il rinnovarsi
degli antichi conflitti che mezzo secolo avanti avevano messo in tanto rischio
l'autorità dei papi, radunò i vescovi francesi ed alleati nel concilio di Pisa
(1511) con l'intento di dichiarare decaduto il pontefice. Un ardito condottiero
francese, venticinquenne appena, Gastone Di Foix, sbaragliava a Ravenna (1512)
le forze spagnole e pontificie. La sconfitta spagnola di Ravenna lasciava
tuttavia intatta la potenza irresistibile degli svizzeri. E gli Svizzeri, calati
in Lombardia, riuscirono in poche settimane a spazzarne via i francesi,
restaurando sul trono ducale un figlio di Ludovico il Moro, MASSIMILIANO SFORZA,
ed imponendo allo stato di Milano una specie di protettorato militare. Genova
seguì, al solito, le sorti di Milano, cacciando i francesi. Forze spagnole
entrarono in Toscana, abbattendo il governo dell'inetto Pier Soderini e
restaurando la signoria medicea. Nella Penisola Iberica, Ferdinando il Cattolico
schiacciava la dinastia d'Albret, impadronendosi della Navarra.
Non rassegnato ancora alla perdita di una posizione così importante come Milano,
Luigi XII proseguiva la lotta, nel tempo stesso in cui, morto Giulio II, il
cardinale GIOVANNI DEI MEDICI ascendeva al papato col nome di Leone X (1513-21).
Il passaggio di Venezia dalla parte della Francia, non impediva però che gli
svizzeri sconfiggessero daccapo i francesi alla battaglia di Novara (1513),
mentre gli inglesi li battevano a loro volta a Guinegatte (1513) nella Francia
settentrionale.
Soltanto dopo la morte di Luigi XII e l'avvento di Francesco I di Valois
Angouléme (1515-47), il regno di Francia arrivava a risollevarsi da tanti
disastri.
Il nuovo sovrano, infatti, riusciva ad isolare gli svizzeri,
accordandosi col pontefice Leone X, perché questi abbandonasse la lotta, in
cambio dell'abbandono da parte della Francia del concilio di Pisa, ed iniziando
trattative con il re di Spagna. Sceso finalmente di persona in Lombardia,
Francesco I riusciva a vincere anche gli Svizzeri, dopo un combattimento durato
due giorni e due notti intere presso Marignano (1515), l'odierna Melegnano, con
tale accanimento da meritare l'appellativo di «battaglia dei giganti» e risolto
dall'arrivo di forze veneziane, al comando di Bartolomeo di Alviano.
Per la prima volta nella loro storia, i terribili soldati svizzeri erano stati
sconfitti in campo aperto. Vinti, sebbene non disfatti, essi ripiegarono verso
le loro montagne, impadronendosi nella ritirata di quel Canton Ticino, che da
allora in poi doveva per sempre far parte della loro Confederazione. Da quel
momento però, la Svizzera cessava di essere una grande potenza dalle ambizioni
espansionistiche e rimaneva un fattore di secondo piano nella storia europea.
La pace di Noyon
Eliminata la Svizzera dalla contesa per l'Italia, rimanevano ormai di fronte
l'una all'altra la Francia e la Spagna.
Fu facile, almeno per il momento,
concludere un accordo tra le due corone. Poco dopo Marignano era morto anche
Ferdinando il Cattolico, lasciando erede del trono il giovane nipote CARLO
D'Asburgo. Se Francesco I, una volta riconquistato il Milanese, aveva maggiore
convenienza nella pace che nella guerra, anche Carlo aveva necessità di respiro
per sistemare il suo regno di Spagna e prepararsi all'eventuale successione nei
domini asburgici, e possibilmente nell'Impero, cui egli avrebbe avuto diritto al
momento della morte dell'altro nonno, l'avo paterno Massimiliano d'Austria.
Tra i due giovani sovrani di Spagna e di Francia si giunse perciò nel 1516 alla
pace di Noyon, per cui l'Italia veniva ad essere spartita in due zone di
influenza. Alla Spagna restava l'Italia meridionale ed insulare, con il dominio
sui regni di Napoli, Sicilia e Sardegna. Alla Francia viceversa toccava buona
parte delle regioni più ricche economicamente e strategicamente più importanti
della penisola.
Da lei veniva infatti a dipendere direttamente il ducato di Milano, che
trascinava entro l'orbita politica francese anche Genova, con le sue
potenti forze marittime. Sempre nell'orbita francese gravitavano la repubblica
di Firenze, con le sue cospicue disponibilità finanziarie, e i ducati dei Savoia
e degli Este, unitisi ambedue in alleanza con Francesco I, suggellata da
matrimoni con la dinastia reale di Francia.
Carlo V -
Nell'anno 1496 Massimiliano d'Asburgo, Arciduca d'Austria, e imperatore del
Sacro Romano Impero, fece in modo che il figlio ed erede al trono, Filippo il
Bello prendesse in moglie Giovanna di Castiglia, figlia dei sovrani di Spagna
Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia. Da questo matrimonio nacque Carlo,
nel febbraio del 1500, a Gand, una cittadina delle Fiandre.
Carlo era predestinato a diventare il sovrano più potente del mondo. L'unico
figlio maschio dei nonni materni era già scomparso nel 1497. Subito dopo,
scomparve anche la loro figlia primogenita seguita nella tomba nello stesso anno
1500 dall'unico figlio maschio di quest'ultima. Quindi, nell'anno 1504, con la
morte della Regina Isabella, sua figlia Giovanna, madre di Carlo, divenne
l'erede di tutti i beni di Castiglia.
Subito dopo, Giovanna venne colpita da follia e si trovò nella impossibilità di
governare. Nel 1506 scomparve Filippo, padre di Carlo, per cui, quest'ultimo,
all'età di soli sei anni, si trovò ad essere il potenziale erede dei regni di
Castiglia, di Austria e del ducato di Borgogna, quest'ultimo quale eredità dei
nonni paterni, in quanto Massimiliano d'Asburgo aveva sposato Maria Bianca di
Borgogna ultima erede dei Duchi di Borgogna.
Nell'anno1516, con la morte del nonno materno Re Ferdinando d'Aragona, Carlo,
ereditò anche il trono d'Aragona, per cui poté fregiarsi del titolo di Re di
Spagna a tutti gli effetti, assumendo il nome di Carlo I
Nell'anno 1519, con la morte del nonno paterno Massimiliano I, Carlo, a soli
diciannove anni, ascese anche al trono d'Austria, entrando in possesso, anche
dell'eredità borgognona della nonna paterna. Nello stesso anno, precisamente il
28 giugno 1519 nella città di Francoforte, sostenuto dai banchieri tedeschi
Fugger, fu eletto Imperatore del Sacro Romano Impero, prevalendo su Francesco I,
Re di Francia.
Genealogia semplificata di Carlo V
Da Massimiliano d'Asburgo e Maria Bianca di Borgogna nasce
Filippo il Bello
Da Ferdinando d'Aragona e Isabella Di Castiglia nasce Giovanna di Castiglia (la
Pazza)
Da Filippo il Bello e Giovanna la Pazza nascono Carlo (Poi Carlo I di Spagna e
Carlo V Imperatore) e Ferdinando
Carlo V abdica e lascia la Spagna e le colonie Americane al figlio Filippo II
Carlo V abdica e lascia l'Austria e l'Impero al Fratello Ferdinando
A questo punto diventava Cruciale, per Carlo V, il possesso del ducato di Milano
per poter mettere in collegamento la Spagna, i Paesi Bassi, l'Austria e il regno
di Napoli. Naturalmente altrettanto importante era per Francesco I, re di
Francia, impedire la realizzazione da parte di Carlo V di tale disegno.
Francesco I vedeva stretti in una morsa i propri territori e combatté con tutte
le proprie forze lo strapotere del re spagnolo.
La lunga contesa fra i due sovrani vide numerose battaglie svolgersi in
Italia. Fra i molti tragici eventi che la caratterizzarono, tristemente noto è il
sacco di Roma, del 1527. Poiché il papa Clemente VII Medici si era schierato con
la Francia, Carlo V inviò contro Roma un esercito di mercenari tedeschi
(lanzichenecchi) di religione protestante. Questi riuscirono a conquistare la
città e, spinti dal fanatismo religioso, massacrarono circa 4000 persone e
saccheggiarono le chiese con le loro opere d’arte.
Riappacificatosi per forza con l’imperatore, il papa ottenne il suo aiuto per
riportare a Firenze i Medici, che erano stati nuovamente cacciati.
L’assedio di Firenze (1529-30) vide le truppe repubblicane, guidate da Francesco
Ferrucci, resistere valorosamente per un anno. Morto in battaglia il Ferrucci, i
fiorentini furono costretti ad arrendersi. Tornavano così a Firenze i Medici.
Essi tennero il potere fino alla morte senza eredi dell’ultimo discendente Gian
Gastone (1737).
Milano e Napoli, invece, divennero dominio della Spagna.
Carlo V tra il trionfo e la rinuncia.
Carlo V riuniva sotto la sua sovranità enormi territori: la Spagna; la Sicilia,
la Sardegna, Milano e Napoli in Italia; i Paesi Bassi; i domini degli Asburgo
(Austria, Boemia, Ungheria) e l’impero, gli sterminati possedimenti spagnoli
nelle Americhe. Egli stesso dichiarò una volta con orgoglio che nei suoi domini
non tramontava mai il sole. Eppure un impero così vasto era anche profondamente
fragile e diviso. Carlo V doveva infatti governare paesi e popoli molto diversi
fra loro, divisi nella lingua, nei costumi politici, nella cultura, soprattutto
dopo la riforma protestante, nella religione, con i conflitti che ne
derivavano. Per tenere insieme il suo vastissimo dominio Carlo V fu costretto a
continue guerre: contro la Francia, i principi protestanti tedeschi, i Turchi,
che minacciavano di espandersi in Europa. A questo fine dovette sacrificare
enormi quantità di uomini e mezzi, a carico soprattutto della Spagna e delle
ricchezze che la stessa traeva dalle colonie americane. In tal modo, somme
gigantesche vennero spese in maniera improduttiva e l’economia spagnola ne
soffrì molto. Così pure, una parte consistente della popolazione spagnola in età
adulta fu costretta ad abbandonare le attività produttive per combattere. Questo
enorme sforzo si rivelò più tardi fatale per la Spagna: lo stesso Carlo V si
rese conto che il suo sogno di ricostituire l’antica unità dell’impero, sotto la
religione cattolica, era ormai impossibile. Le grandi nazioni europee come la
Francia o l’Inghilterra non lo avrebbero accettato se non a prezzo di guerre
sempre più sanguinose e neppure lo avrebbero voluto gli stati tedeschi
protestanti. Altri popoli come gli Olandesi dei Paesi Bassi volevano rendersi
indipendenti e in breve ci sarebbero riusciti. Ripetutamente vittorioso in
battaglia, ma stanco di combattere contro tutto e contro tutti per un risultato
che gli appariva irraggiungibile, Carlo V rinunciò al trono nel 1556.
LO STATO DELLA CHIESA E IL GRANDUCATO DI TOSCANA
Nel Seicento i pontefici avevano ormai perso gran parte della loro autorità
politica: le grandi potenze, infatti, ormai non subivano più l'influenza del
papato. Tuttavia in Italia i vari pontefici riuscirono ancora a impadronirsi delle città di
Ferrara e Urbino, dove le famiglie degli Estensi e dei Della Rovere si erano
estinte per mancanza di eredi.
Lo Stato della Chiesa si caratterizzò per il forte contrasto tra lo splendore di
Roma e la miseria delle campagne circostanti. Roma venne infatti abbellita di
edifici che il nuovo stile barocco rendeva splendidi e imponenti. Ma appena
fuori Roma lo spettacolo cambiava. Gli enormi latifondi delle famiglie nobili
romane, in genere tenuti a pascolo, erano fonte di ricchezza per pochi
proprietari e di miseria per i contadini e i pastori.
Quanto alla Toscana, essa riuscì a rimanere indipendente sotto la dinastia dei
Medici, ma conobbe una grave decadenza economica. Le manifatture fiorentine, un
tempo fonte di enormi ricchezze, non erano più competitive e vennero
progressivamente chiuse. Solo la fondazione del porto di Livorno produsse
qualche miglioramento a una situazione economica ormai in forte difficoltà.
LA PACE DI CATEAU-CAMBRÉSIS:
SI CONSOLIDA IL DOMINIO SPAGNOLO
La guerra tra la Francia e la Spagna continuò per alcuni anni anche con Filippo
II, succeduto a CarloV.
Tuttavia nel 1557, presso la piccola città di San Quintino, Emanuele Filiberto
di Savoia, comandante delle truppe spagnole, sconfisse l’esercito francese. Con
la pace di Cateau-Cambrésis, firmata nel 1559, la Francia rinunciò
definitivamente ai domini in Italia. Emanuele Filiberto tornò in possesso del
Piemonte e della Savoia che la Francia aveva sottratto alla sua famiglia. La
pace di Cateau-Cambrésis segnò il consolidamento del dominio spagnolo in buona
parte dell’Italia: Filippo II conservò Milano e Napoli, la Sicilia e la
Sardegna.
Altri stati minori, come la Toscana, Genova, Mantova, Lucca mantennero un
proprio governo, ma passarono sotto l’influenza spagnola.
TRE STATI ITALIANI INDIPENDENTI
Rimasero veramente indipendenti solo tre stati: il ducato di Savoia, la
repubblic
a di Venezia e lo Stato della Chiesa.
Il duca di Savoia, Emanuele Filiberto trionfatore di San Quintino si rivelò
anche un capace sovrano. Trasferì la capitale dello stato a Torino, riformò i
tribunali e migliorò l’amministrazione pubblica. Sotto i suoi successori, il
Piemonte riuscì lentamente ad allargare il suo territorio.
Venezia fu lo stato italiano più sviluppato, sia dal punto di vista culturale
che da quello economico. Per proteggere i propri commerci con l’Oriente, Venezia
fu anche lo stato italiano più coinvolto nella guerra contro i Turchi. Costretta
a difendere i suoi possedimenti nelle isole greche e nell’Adriatico, la flotta
veneziana, alleata con quelle del pontefice e del re di Spagna, ottenne una
grande vittoria navale, nel 1571, presso Lepanto. Si fermò così l’espansione
turca nel Mediterraneo.
L'INDIPENDENZA DI VENEZIA -
Venezia vide via via la sua importanza commerciale ridursi, a causa dello spostamento dei maggiori traffici dal Mediterraneo all'Atlantico e dei conseguenti
successi di inglesi e olandesi.
Per sostenere la propria economia, essa cercò allora un'alternativa e si dedicò
a sviluppare l'agricoltura nella cosiddetta terraferma, cioè nelle campagne
venete e friulane.
Bonificò vasti territori paludosi, sviluppò un sistema di canali per irrigare i
campi, costruì dighe, introdusse nuove colture come il riso, il mais e il gelso.
Questo non le consentì di accumulare la stessa ricchezza dei tempi d'oro, ma
tuttavia rallentò il suo declino.
Anche sul piano politico l'importanza di Venezia si ridusse. Minacciata nel
Mediterraneo dalla presenza dei Turchi, essa via via rinunciò ai domini di Cipro
(1573), di Creta (1669) e delle altre isole greche.
Per mantenere la propria indipendenza, fu obbligata a tenersi in equilibrio fra
le grandi potenze, conservando una stretta neutralità.
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