Quando gli Spagnoli giunsero nel continente americano entrarono in contatto con
grandi civiltà andine e messicane. Circa 30 mila anni prima di Cristo alcune
popolazioni siberiane raggiunsero prima l'Alaska e da lì si sparsero nelle
latitudini più temperate del continente.
Nel III millennio avanti Cristo si
svilupparono grandi civiltà agricole. Molti prodotti dell'agricoltura
precolombiana erano sconosciuti in Europa: sono di origine americana i pomodori,
il mais, i peperoni, la zucca, i fagioli. L'alimentazione era prevalentemente
vegetariana. La scarsità di proteine della carne condizionava negativamente lo
sviluppo fisico degli uomini. La mancanza di grossi animali di allevamento
faceva mancare all'agricoltura il prezioso concime animale. Gli amerindi avevano
approfondite conoscenze astronomiche e matematiche, ma ignoravano l'uso
dell'aratro, della ruota, della lavorazione del ferro. Avevano grandi città
ricche di palazzi e templi.
Maya e Aztechi nel Centro-America. - I Maya erano stanziati fin dal III
millennio a.C. in Messico, Belize e Guatemala. La loro era una civiltà urbana.
Costruirono grandi monumenti di cui restano testimonianze abbondanti
specialmente in Guatemala. I Maya erano organizzati in città indipendenti tra
loro. La vita di ciascuna città ruotava attorno ai grandiosi templi a forma di
piramide tronca costruiti a gradoni. Le città stato principali erano Tikàl,
Copàl e Palenque, centri del potere politico e religioso. La massima fioritura
della civiltà Maya si ebbe tra il IV e il IX secolo dopo Cristo, quando per un
evento che ignoriamo abbandonarono le loro città e si trasferirono a Nord dello
Yucatan dove fondarono nuove città. Nello Yucatan furono assaliti da un popolo
proveniente dal nord, i Toltechi, e contro di essi dovettero combattere a lungo.
La seconda grande popolazione messicana proveniente dal nord è quella
degli Aztechi, abili e coraggiosi combattenti che che fondarono un grande impero
la cui capitale era Tenochtitlàn, città costruita su palafitte presso il lago
Tezcoco. Quando nel 1500 gli Aztechi entrarono in contatto con gli Spagnoli
l'impero azteco dominava le regioni degli altipiani e le regioni del Golfo del
Messico. Nella religione azteca e in quella Maya la Natura era il luogo
d'incontro delle forze del bene e del male, della vita e della morte. Frequenti
erano i sacrifici umani celebrati presso le piramidi sacre mediante complicati
cerimoniali.
Gli Incas - Più a sud, sulle altissime
vette andine, si sviluppò la civiltà degli Incas. Una larga fascia costiera,
lunga migliaia di chilometri, lungo l'Oceano Pacifico, costituiva il territorio
del loro impero. Era un territorio molto vario, comprendente montagne e pianure,
con un'agricoltura ben sviluppata.
L'impero era diviso in quattro regioni ciascuna delle quali si specializzò in
una particolare attività. Lungo le coste erano sviluppate
la pesca e le colture
irrigue. Nelle pianure si coltivava soprattutto il cotone. Sugli altipiani si
coltivavano la patata e il mais. Le zone montuose più alte, oltre i 3500 metri,
erano adibite all'allevamento dei lama. Le quattro regioni erano rette da
quattro governatori legati all'imperatore. Quest'ultimo era grande sacerdote,
capo supremo dell'esercito, massima autorità politica.
L'imperatore era l'INCA, l'UNICO.
I governatori formavano una specie di consiglio di stato insieme con l'Inca. Un
gruppo di ispettori controllava tutto il territorio e riferivano all'autorità
centrale. Una efficiente rete stradale collegava la capitale Cuzco con le più
lontane zone dell'impero.
Come gli Aztechi in Messico, anche gli Incas erano subentrati ad antichi popoli
indigeni. Gli Incas non solo approfittarono delle ricchezze conquistate, ma
crearono un sistema di redistribuzione delle risorse. I sudditi raccoglievano i
beni e li offrivano all'imperatore, che poi li ridistribuiva tra i vari gruppi
sociali.
EGEMONIA SPAGNOLA SULL'ITALIA -
L'assetto della penisola italiana, determinato dalla pace di Cateau Cambresis,
rimase sostanzialmente invariato fino al 1715. Per oltre un secolo e mezzo,
dunque, la Spagna continuò a detenere il dominio diretto di quasi metà della
superficie della penisola stessa e ad esercitare una pressione politica e
militare sul resto dei minori stati italiani, tale da renderne spesso puramente
nominale l'indipendenza.
La lunghissima durata di questa situazione ebbe per conseguenza l'immobilità
della vita politica italiana tra il 1559 e il 1715, in contrasto con la
tumultuosa irrequietezza dell'Italia durante il primo trentennio del sec. XVI.
Il peso del dominio della Spagna fece subire all'Italia i contraccolpi delle
vicende politiche europee di quei centocinquanta anni.
Nel periodo della preponderanza spagnola in Italia è possibile distinguere tre
fasi, con caratteristiche diverse.
-
Una prima fase (1559-1598) corrisponde al periodo delle guerre di religione in
Francia e quindi della paralisi politica di quest'ultima, mentre viceversa si
espande senza contrasti il dominio spagnolo ed ha luogo la lotta di
Filippo II
contro i Turchi, assistito dagli stati italiani.
-
Una seconda fase (1598-1618) corrisponde all'età dalla guerra dei Trent'Anni ed
alla ripresa della lotta tra la Francia e gli Asburgo. Essa segna perciò il
primo svincolarsi di taluni degli stati italiani dal peso dell' egemonia
spagnola ed il ritorno della Francia sulla scena politica della penisola.
-
Una terza Fase (1648.1715) infine, corrisponde alla decadenza generale della
Spagna e del suo domino politico sull'Italia
I DOMINI DIRETTI DELLA SPAGNA -
Dipendevano in modo diretto della Spagna i tre regni di Napoli, di Sicilia e di
Sardegna, il ducato di Milano, lo stato dei Presidi, sulla costa della Maremma
toscana. Questo complesso di territori, estendendosi per quasi 140.000 Kmq,
rendeva la corona spagnola arbitra incondizionata di una metà del territorio
attuale dell'Italia.
Già prima del dominio spagnolo buona parte di questi domini si trovava in
condizioni economiche e sociali infelici. La Sardegna era un paese povero,
arretrato, in parte incolto, quasi tutto infeudato a famiglie spagnole.
Il regno
di Napoli aveva visto quasi del tutto sparire l'antica floridezza commerciale,
estese parti del suo territorio erano abbandonate al pascolo, al latifondo
signorile, al bosco infestato di briganti. Un quarto del regno apparteneva ad
enti ecclesiastici e il 90 % del rimanente era stato ceduto in feudo a a signori
italiani o spagnoli, in cambio di un canone in denaro al re di Spagna. La
Sicilia manteneva una notevole importanza economica per la propria produzione
cerealicola, ma giaceva anch'essa sotto il peso del latifondismo feudale.
Milano, dopo essere stata per tanto tempo il Campo di battaglia degli eserciti
spagnoli e francesi, risentiva duramente della rivoluzione dei traffici, operata
dalla scoperta dell'America o dalla via delle Indie.
Politicamente, i domini italiani erano privi di ogni autonomia.
La volontà
assoluta di un sovrano straniero e lontano era legge.
Soltanto come organo
consultivo e di alta sorveglianza burocratica, Filippo II aveva istituito nel
1563 presso la sua corte il Supremo consiglio d'Italia, in cui, oltre ad
elementi spagnoli, figuravano anche due consiglieri napoletani, uno siciliano ed
uno milanese.
Spagnoli erano quasi sempre coloro che il re delegava a rappresentarlo, cioè i
tre viceré, residenti rispettivamente nei regni di Napoli, di Sicilia e di
Sardegna, ed il governatore dello stato di Milano. Ciascuno di essi era
assistito nelle proprie funzioni di governo da un consiglio a carattere assai
ristretto. La rappresentanza degli interessi locali era affidata in teoria ai
Parlamenti dei regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, con i tradizionali tre stati
(detti bracci in Sicilia e stamenti in Sardegna) formati rispettivamente dalla
nobiltà, dal clero e dai rappresentanti delle città demaniali, cioè soggette
direttamente al fisco regio invece che al dominio feudale. In pratica però
queste assemblee si limitavano ad approvare le innumerevoli imposte,
estorsioni di denaro della Spagna, a determinare il modo di ripartirle e di
esigerle.
Col tempo perfino questi residui di autonomia locale furono convocati raramente
e persero ogni importanza. Milano, invece, aveva un Senato, con funzioni
giuridiche, anziché di rappresentanza parlamentare.
Oltre che in campo politico l'egemonia spagnola fu distruttiva in economia. Nella
sua ottusa rapacità militaresca, il governo spagnolo adoperava i propri domini
solo per spremere denaro e trarre soldati per le sue guerre. Gli stessi fenomeni
di decadenza economica e demografica, che avviavano alla rovina la Spagna, si
riproducevano in Italia. Il denaro ricavato dalle imposte era esportato verso la
Spagna, per essere ingoiato dalle spese militari e dal fasto della corte di
Madrid.
La nobiltà italiana si modellò sempre più sull'esempio spagnolo. Lo stesso ozio
fastoso dell'aristocrazia spagnola, lo stesso disdegno verso qualsiasi attività
produttiva, la stessa mania di apparenze, la stessa passione per l'etichetta, le
precedenze, i puntigli d'onore, i duelli.
L'intolleranza religiosa soffocò ogni libertà di pensiero e ogni iniziativa
intellettuale. Mentre privilegi e lustro di titoli altisonanti tenevano contenti
e sottomessi la nobiltà ed il clero, il popolo languiva nella sua miseria,
falcidiato periodicamente dalle carestie e dalle pestilenze, senza poter
esprimere il proprio malcontento che con qualche rivolta disordinata di affamati
e col brigantaggio.
Tirannico verso i deboli e gli indifesi, il governo spagnolo si rivelava non di
rado impotente a reprimere l'insolenza facinorosa della nobiltà, forte delle sue
masnade di sgherri ("i bravi", immortalati nei Promessi Sposi). Ogni governatore
o viceré che arrivasse in Italia giungeva scortato da un nugolo di funzionari e
di militari spagnoli, che riproducevano in piccolo lo stesso andamento rapace e
tirannico del loro governo, considerando la propria carica come un comodo mezzo
di arricchirsi alle spalle del paese.
Nel complesso, dunque, il risultato di centocinquanta anni di governo spagnolo
in Italia fu disastroso per il nostro paese. Né potevano controbilanciare questi
effetti negativi i pochi lati positivi del governo stesso, come
l'assoggettamento della nobiltà meridionale, fonte al tempo degli Aragona di
continue turbolenze interne, la difesa esercitata dalle flotte ispano-genovesi
delle acque del Mediterraneo contro i turchi e i barbareschi dell'Africa del
nord, il lungo periodo di pace assicurato all'Italia, per tanto tempo sconvolta
da guerre incessanti.
STATI ITALIANI 1559-1598 -
Distinguendo tre fasi successive nella lunga storia della preponderanza spagnola
in Italia, abbiamo detto che la I fase (1559-1598) corrisponde al regno di
Filippo II e alla paralisi della potenza francese causata dalle guerre di
religione. Questa fase rappresenta il momento del maggior asservimento italiano
alla Spagna e della maggiore staticità della vita politica italiana.
Tutti gli stati italiani si muovono lungo le direttrici dell'azione
politico-militare e religiosa della Spagna e pongono a disposizione di questa le
proprie forze. La politica mediterranea di Filippo II contro i barbareschi
dell'Africa Settentrionale e la Turchia trova la collaborazione delle forze
navali dei vari stati italiani. Tutti i sovrani della penisola appoggiano la
lotta della Spagna contro il protestantesimo e i suoi interventi in Francia,
durante le guerre di religione.
Soltanto in un secondo momento, da quando comincia ad apparire possibile la
ricostituzione della monarchia francese sotto Enrico IV, si nota un qualche
segno di indipendenza nell'atteggiamento degli stati italiani: Venezia, la
Toscana e più tardi anche il pontefice CLEMENTE VIII, favoriscono difatti il
ritorno al cattolicesimo di Enrico IV e la sua affermazione sul trono di
Francia, attraversando così i disegni politici del monarca spagnolo.
Più della loro politica esterna appare perciò significativa la politica interna
di taluni degli stati minori della penisola. Notevoli figure di principi, come
Cosimo I e Ferdinando I De Medici, EMANUELE FILIBERTO DI SAVOIA, od il pontefice
SISTO V, spiegarono i propri talenti politici, riorganizzando i loro stati su
basi assolutistiche, rianimandone la vita economica e riordinandone
l'amministrazione.
Si può dire anzi che gli effetti positivi della lunga pace
mantenutasi in Italia senza incrinature dal trattato di Cateau Cambrésis fino ai
primi del secolo XVIII, furono assai più sensibili negli stati italiani restati
indipendenti dalla Spagna che nei territori soggetti al diretto dominio di
quest'ultima. Mentre infatti Milano, Napoli, Sicilia e Sardegna erano esposti
senza riparo agli effetti deprimenti della rapacità fiscale e della corruzione
della burocrazia spagnola, molti dei minori stati italiani poterono in qualche
modo ristorarsi dei danni prodotti dalle interminabili guerre della prima metà
del sec. XVII, pure non riuscendo ad ovviare agli effetti dello spostamento
dell'asse economico dell'Europa dal Mediterraneo all'Atlantico o a pareggiare
lo sviluppo commerciale. industriale e finanziario raggiunto parallelamente
dall'Olanda, dall'Inghilterra e dalla Francia di Enrico IV.
REPUBBLICA DI VENEZIA -
Lo stato più importante e capace di una politica effettivamente indipendente
dalla Spagna rimaneva tuttavia la repubblica di Venezia. I domini della
Serenissima, anche dopo il trattato di Cateau Cambrésis, continuavano infatti ad
estendersi su una parte cospicua del Veneto e della Lombardia, dall'Isonzo
all'Adda, buona parte dell'Istria e della Dalmazia, numerose piazzeforti sulle
coste ioniche della Grecia e le due grandi isole di Creta o Candia e di Cipro.
Ancora alla fine del XVI° secolo Venezia rimaneva una delle più grandi città non
soltanto d'Italia ma altresì d'Europa, sia per numero di abitanti, sia per
floridezza di traffici commerciali.
Ad eccezione dei periodi di guerra aperta
con l'Impero ottomano, Venezia continuava invero a detenere il monopolio del
commercio con il Levante. Essa manteneva la più grande flotta del Mediterraneo
ed una industria tuttavia fiorente specialmente nel Bergamasco (seta) e nel
Bresciano (armi). Il governo della repubblica era tradizionalmente uno dei più
efficienti e amati dai propri sudditi dell'intera penisola. La pubblicistica
politica del tempo andava a gara ad esaltare l'avvedutezza ed il prestigio
insieme della repubblica.
Appunto questa saldezza interna dello stato veneziano gli permise di affrontare
la difficile situazione maturatasi nel corso dei primi decenni del sec. XVI.
Distrutti od asserviti all'egemonia degli Asburgo i piccoli stati circonvicini,
la repubblica si trovava difatti ad avere per confinanti da una parte gli
spagnoli in possesso della Lombardia, dall'altra gli Asburgo d'Austria.
Inferiore di forze ad ambedue e non di rado minacciata nei suoi domini
mediterranei dall'espansionismo turco, Venezia doveva pertanto seguire una linea
di condotta quanto mai cauta per evitare di essere coinvolta in conflitti
disastrosi per il suo prestigio e la sua stessa indipendenza.
Già abbiamo visto d'altronde come un grave colpo essa dovesse subire proprio in
questo giro di anni per l'attacco sferrato dai turchi contro l'isola di Cipro
(1570). Eroica si era dimostrata anche questa volta la resistenza della
guarnigione veneziana della cittadella di
Famagosta, al comando di M. Bragadino. Ottomila soldati della
repubblica avevano tenuto la piazzaforte contro un esercito soverchiante di
numero, cui inflissero la perdita di ben 75.000 uomini. Non soccorsa in tempo, Famagosta aveva però dovuto capitolare (maggio 1571). Il Bragadino, fatto
prigioniero, era stato scorticato vivo, contrariamente ai patti della resa.
Erano seguite subito dopo la Lega Cristiana e la battaglia di Lepanto; tuttavia
l'abbandono della lotta da parte di Filippo II dopo la vittoria, conduceva la
repubblica ad accettare nel 1573 la pace con la Turchia, nella quale Cipro
veniva abbandonata per sempre agli Ottomani.
GRANDUCATO DI TOSCANA -
L'abile e fortunata politica interna ed esterna di Cosimo I dei Medici
(1537-1574) gli aveva permesso l'ingrandimento territoriale e il riordinamento
amministrativo ed economico del suo stato. Tale opera, continuò anche dopo la
pace di Cateau Cambrésis, e vide, tra l'altro, la rinascita di una certa
attività marinara nella Toscana. Cosimo I infatti migliorò i porti di
Portoferraio, nell'isola d'Elba, e di Livorno, destinato a sostituire Pisa ormai
allontanata dal mare dal progressivo avanzarsi del litorale tirrenico, dotò di
una flotta da guerra il proprio stato, istituì l'ordine cavalleresco di S.
Stefano, col compito della lotta contro i corsari barbareschi dell'Africa del Nord. Dette altresì impulso con lavori di bonifica all'agricoltura ed attivò
l'escavazione del ferro delle miniere dell'isola d'Elba. Considerato con
crescente sospetto dalla Spagna, ottenne, malgrado il contrario avviso di quest'ultima,
la concessione del titolo di Granduca di Toscana (1569) da parte del pontefice
Pio V, riconfermato più tardi nei suoi successori da un diploma imperiale
(1576).
Degno continuatore dell'opera paterna si dimostrò il figlio minore Ferdinando I
(1587-1609), che salì sul trono toscano dopo la morte del fratello FRANCESCO
(1574-1587), cui era toccata dapprima la corona granducale e che aveva dato
prove non troppo brillanti di sé, nella condotta pubblica e privata, Continuando
infatti la politica di progressiva riconquista della propria autonomia dal
vassallaggio spagnolo, già avviata da Cosimo I, Ferdinando I appoggiò la
ricostituzione dello stato francese sotto Enrico IV, favorendone la conversione
al cattolicesimo. A suggellare poi il suo ravvicinamento politico con ]a
Francia, concesse in moglie al sovrano francese la propria nipote MARIA DEI
MEDICI, nonostante il malumore della Spagna, ormai insospettita dalla condotta
dei granduchi toscani. Merito duraturo di Ferdinando I fu infine la
trasformazione di Livorno in grande porto commerciale.
Era ovvio però che tutte le iniziative dell'avveduto granduca non potevano
bastare ad impedire che l'antico primato finanziario e industriale di Firenze
rimanesse un ricordo del passato. Il traffico stesso del porto di Livorno, per
quanto intenso, mai avrebbe potuto pareggiare quello di Amsterdam o dei grandi
porti dell'Atlantico. La Toscana anzi, da paese prevalentemente industriale e
mercantile, si trasformava in paese in maggioranza agricolo, di scarso peso
nella vita economica dell'Europa.
STATO PONTIFICIO -
Trattando della Controriforma abbiamo già diffusamente parlato nella storia
della chiesa
dell'opera religiosa dei papi della seconda metà del sec. XVI.
Appunto le
esigenze della politica della Controriforma ponevano il Papato nella necessità
di secondare quasi senza eccezione l'azione di Filippo II e non permettevano
perciò alcuna sostanziale indipendenza nel giuoco politico internazionale. Dal
punto di vista interno, lo Stato Pontificio si presentava come uno dei più
estesi e popolosi d'Italia, Sforzo costante dei papi del secolo XVI, da Giulio
II fino a Paolo III, ere stato quello di trasformare in senso assolutistico quel
complesso di piccole signorie turbolente e di città comunali gelose della
propria individualità, che costituiva fino ad allora lo Stato della Chiesa. Gli
effetti di questa politica si erano fatti ormai sensibili già prima della pace
di Cateau Cambrésis. Le signorie erano scomparse, le autonomie comunali assai
ridotte, lo stesso baronato romano, dalla tradizionale sfrenatezza, cominciava a
farsi più remissivo.
L'instaurazione dell'assolutismo nello Stato Pontificio sortì tuttavia effetti
meno positivi che negli stati di Savoia e dei Medici. Nello Stato della Chiesa
infatti non esisteva una dinastia capace di imprimere una direttiva continua e
costante all'azione del governo. Ciascun pontefice giungeva al trono papale in
genere in età assai avanzata e poteva perciò regnare solo per un tempo molto
breve. Durante questo tempo, nipoti, familiari, cortigiani, andavano a gara ad
ottenere incarichi amministrativi o dì governo, ben sapendo che il loro momento
di fortuna sarebbe durato per poco e che la morte del pontefice avrebbe voluto
dire anche la loro sostituzione con altri elementi di fiducia del nuovo
pontefice. Tutti costoro venivano portati a considerare il proprio incarico
semplicemente come una buona occasione per arricchire prima dell'avvicendamento
di un pontefice all'altro. Lo Stato Pontificio perciò, malgrado gli sforzi di
alcuni pontefici non privi di energia e di avvedutezza, rimase tradizionalmente
come uno dei peggio amministrati e dei più disordinati d'Italia. Al tempo stesso
le grandiose costruzioni ed il fasto dei pontefici resero necessaria una
politica fiscale assai oppressiva, che male si conciliava con la crescente
povertà del paese.
Dei papi della seconda metà del sec. XVI abbiamo già altrove ricordato Pio IV
(1559-1565), e Pio V (1566-1572), di cui abbiamo menzionato la partecipazione
alla spedizione di Lepanto. Tra i loro successori converrà citare Gregorio XIII
(1572-1585), cui si deve la riforma del calendario (calendario gregoriano), che
poneva termine agl'inconvenienti derivanti dagli errori nel computo annuale
dell'antico calendario di Giulio Cesare (o calendario giuliano).
E' noto che la riforma gregoriana fu accettata da tutti i paesi europei esclusi
quelli greco-ortodossi. Perciò la cronologia degli avvenimenti di alcuni paesi
dell'Europa orientale, come la Russia, continuò fino ai tempi più recenti a
presentare, rispetto al resto del mondo, la singolarità di un ritardo di alcuni
giorni nel computo delle date.
A Gregorio XIII seguì Sisto V (1585-1590), un francescano originario di
poverissima famiglia delle Marche, che si conquistò una vasta popolarità per
l'energia spietata con la quale sterminò i briganti che infestavano la campagna
laziale e represse le violenze della nobiltà romana. Tra i pochissimi pontefici
del suo tempo, che tenessero un atteggiamento di una certa indipendenza noi
riguardi della Spagna, Sisto V ebbe altresì il merito di promuovere una
riorganizzazione dell' amministrazione della Curia Romana ed una indefessa
attività edilizia che, malgrado la brevità del suo pontificato, lasciò traccia
imperitura in Roma nella grandiosità dei lavori e delle costruzioni compiute per
abbellirla e rinnovarla.
Mediocri ed in complesso supini alla politica spagnola si presentano invece i
pontefici seguenti. Solo degno in qualche modo di ricordo è tra loro Clemente
VIII, Aldobrandini (1594-1605), che cercò di svolgere una politica di equilibrio
internazionale, assolvendo Enrico IV dalla scomunica e favorendo la conclusione
della pace di Vervins.
Assai rigoroso così nella persecuzione dell'eresia come
nei sistemi di governo (basti ricordare a questo proposito il rogo dell'infelice
filosofo Giordano Bruno, arso vivo nel 1600), Clemente VIII lasciò una traccia
anche all'interno dello Stato Pontificio, in quanto rivendicò alla Santa Sede il
possesso di Ferrara.
GENOVA -
Porto naturale di Milano, Genova era avvezza da qualche secolo a considerare le
proprie sorti come legate direttamente a quelle del ducato milanese. Signora
della Lombardia, la Spagna si trovava perciò ad esercitare senza alcun
contrasto una sorta di protettorato sulla repubblica genovese. Alla debole
struttura politica dello stato genovese, faceva riscontro tuttavia la
floridezza economica della città. La Spagna, malgrado i fiumi d'oro e d'argento
che si riversavano su di lei dall'America, non produceva nulla ed aveva bisogno
di tutto. Le sue finanze dissestate avevano continuamente bisogno di prestiti a
qualunque condizione per potere sopperire alle necessità sempre crescenti delle
guerre. Gli abilissimi trafficanti genovesi seppero trarre partito da questa
paradossale situazione facendone motivo di guadagni formidabili. Finanzieri
genovesi, come i Grimaldi, i Doria, gli Spinola ed i Centurione, guadagnarono
somme favolose nei prestiti con i re cattolici, invasero commercialmente i
mercati spagnoli, specularono sugli arruolamenti di soldati per le guerre di
Fiandra e sulla necessità per la Spagna di tenere squadre navali nel
Mediterraneo per la sicurezza delle coste e del traffico dai corsari
barbareschi.
Cuore della vita finanziaria della repubblica era il famoso Banco di S. Giorgio,
i cui amministratori o protettori contavano tra le più alte autorità cittadine.
Sempre dal Banco di S. Giorgio, espressione della oligarchia finanziaria della
città, dipendeva il maggiore dei possessi genovesi, la Corsica.
Quest'ultima
tuttavia male sopportava il dominio di Genova, cui era stata riconsegnata dopo
la pace di Cateau Cambrésis.
La rivolta tornò perciò a fiammeggiare, sempre sotto la guida di SAMPIERO ORNANO
DA BASTELICA, nel 1564..
Gli insorti corsi offrirono il dominio dell'isola a
Cosimo I dei Medici, alla Francia e perfino ai Turchi, purché li liberassero dai
genovesi. La rivolta però venne finalmente domata nel 1569. L'isola passò allora
dal Banco di S. Giorgio allo Stato, senza tuttavia acquetarsi mai completamente.
Se la repubblica di Genova malgrado i patrimoni cospicui messi insieme dai suoi
banchieri, i suoi armatori ed i suoi commercianti, aveva tanto poca saldezza
politica e tanto scarsa autonomia nei confronti della politica spagnola, ancora
più fragile si presentava la condizione dei tanti minuscoli staterelli, che
sussistevano tuttavia qua e là per la penisola.
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