|
La
pace dei vincitori - Il 19 gennaio 1919, finita la 1° Guerra Mondiale,
si apre la Conferenza di pace a Parigi senza la partecipazione dei paesi vinti.
Solo quattro stati ebbero effettivo potere decisionale: Stati Uniti, Gran
Bretagna, Francia e Italia rappresentati da
Wilson (Stati Uniti)
Clemenceau (Francia)
Lloyd
George (Gran Bretagna)
Orlando (Italia).
I
gravi problemi provocati dal crollo di quattro imperi (impero turco, russo,
austriaco e tedesco) avrebbero dovuto essere risolti, in teoria, in base al
principio dell'autodeterminazione dei popoli, solennemente proclamato dagli
alleati durante il conflitto.
Ma in
diverse circostanze tale principio risultava inapplicabile. I vincitori davano
alla Germania il grosso delle colpe del conflitto e ritenevano che occorresse
indebolirla pesantemente sul piano economico, politico e militare per impedirle
di creare nuovi disastri in futuro.
I
francesi premevano per ottenere il totale annientamento della potenza tedesca,
ma gli inglesi erano contrari ad un eccessivo aumento della potenza francese,
così come contrari all'annientamento tedesco erano gli americani. Per non
perdere l'appoggio di Inghilterra e Stati Uniti, Clemenceau si adattò ad un
compromesso che permetteva di umiliare e indebolire la Germania senza
annientarla.
I negoziati furono intrapresi sulla base dei 14 punti di Wilson, formulati l'8
gennaio in un messaggio al Congresso.
Alcuni di questi punti non riguardavano direttamente le trattative, ma ponevano
principi nuovi alla base dei rapporti internazionali:
>>
condanna della diplomazia segreta
>>
libertà di navigazione in acque internazionali
>>
libertà di scambio
>>
disarmo
>>
imparziale soluzione delle questioni coloniali.
Principi destinati a rimanere tali se non si eliminano le cause che avevano
spinto le potenze europee ad agire in senso opposto.
I principi che più direttamente interessavano le trattative furono il
rispetto delle nazionalità e dell'autodeterminazione dei popoli.
Inoltre Wilson proponeva una "Società
delle nazioni" che fosse sede di risoluzione pacifica delle controversie
internazionali.
Il rispetto delle nazionalità appariva complicato a causa delle millenarie e
intricate vicende storiche, per cui i principi di Wilson furono interpretati secondo gli interessi dei vincitori.
I trattati di pace furono cinque.
Il pacifismo di Wilson fu premiato solo dalla fondazione, il 25 gennaio 1919, della Società delle
Nazioni, con sede a Ginevra.
Gli Stati Uniti rifiutarono di far parte della Società delle Nazioni a causa
dell'isolazionismo prevalente nella maggioranza del Congresso.
Fu esclusa la
Germania e non fu presente la Russia in preda ai mutamenti della rivoluzione.
Un modello alternativo di convivenza internazionale -
Contro i vecchi criteri dei rapporti di forza si mossero quanti volevano nuove
regole di convivenza internazionale, per evitare che si ripetesse la catastrofe
da poco conclusa.
Per garantire la pace,
i rappresentanti delle potenze vincitrici promossero il rispetto dell'autodeterminazione dei
popoli e dell'equilibrio tra le nazioni.
Il maggiore esponente di questa
tendenza fu il presidente americano Wilson, che propose la creazione di un
organismo sovranazionale deputato che risolvesse pacificamente le controversie
tra gli stati membri, la Società delle nazioni, con sede a Ginevra, che venne
formalmente istituita il 28 aprile 1919. In realtà la Società delle nazioni fu
istituita senza convinzione e rimase priva di strumenti operativi e di un
potenziale militare che le avrebbero consentito di governare le relazioni
internazionali, come previsto dai suoi statuti.
Prevalse invece la linea di Clemenceau, a dimostrazione del fatto che,
nonostante il collasso bellico, l'Europa costituiva ancora il perno degli
equilibri internazionali e gli Stati uniti non erano ancora in grado, nonostante
l'indubbia egemonia economica raggiunta proprio durante la guerra, di imporsi
come stato guida dei rapporti internazionali.
Germania, Austria, Italia, Paesi slavi
-
La Germania restituì alla Francia l'Alsazia e la Lorena, altri territori al
Belgio e alla Danimarca. Alla Polonia la Germania dovette cedere l'Alta Slesia,
la Posnania e un corridoio sul mare a Danzica che fu dichiarata città libera
sotto il controllo internazionale. La Polonia ebbe restituiti anche territori
dalla Russia e dall'Austria. Le colonie tedesche furono suddivise, sotto forma
di mandati, tra Inghilterra, Francia, Belgio, Giappone, Australia. L'Italia fu
esclusa dalla ripartizione.
La Germania fu costretta a ritenersi responsabile dei danni di guerra causati
alle potenze vincitrici e condannata a pagare una somma di 132 miliardi di
marchi oro in trent'anni.
Per rassicurare i francesi alla Germania fu imposto di avere un
esercito con massimo 100.000 uomini, di non costruire aeroplani, cannoni pesanti
e carri armati. La riva sinistra del Reno sarebbe stata occupata per 15 anni per
essere poi smilitarizzata insieme ad una fascia di 50 chilometri sulla
riva
destra. Le miniere della Saar furono concesse provvisoriamente alla Francia con
l'intesa che dopo 15 anni la popolazione della Saar avrebbe deciso per
plebiscito il destino del territorio.
Il territorio dell'impero Austro-Ungarico fu smembrato nelle diverse
nazionalità. Nacquero la repubblica Cecoslovacca, il regno di Jugoslavia. Alla
Polonia fu attribuita la Galizia.
La creazione dello stato Jugoslavo creò
complicazioni con l'Italia. Quest'ultima ebbe il Trentino e l'Alto Adige
portando il confine al Brennero, ottenne Trieste e l'Istria, ma la Jugoslavia
rivendicò per sé la Dalmazia e la città di Fiume. Il 12 settembre 1919 Gabriele
D'Annunzio occupò Fiume alla testa di un gruppo di volontari. La questione fu
risolta con il trattato di Rapallo (12 novembre 1920) e col patto di Roma 1924:
la Dalmazia rimase alla Jugoslavia meno la città di Zara e il confine orientale
italiano fu segnato in modo da comprendere tutta l'Istria e la città di Fiume.
Lo squilibrio creato in Austria dallo smembramento dell'impero spingeva
l'Austria nell'orbita tedesca. Per evitare ciò gli alleati introdussero nel
trattato una clausola che subordinava l'eventuale unione dell'Austria alla
Germania all'approvazione unanime della Società delle Nazioni.
La Bulgaria dovette cedere la Tracia alla Grecia - perdendo lo sbocco sul mare
Egeo - e una parte dei suoi territori macedoni alla Jugoslavia. La liquidazione
dell'impero ottomano creò una fonte inesauribile di dissidi nel mondo
mediorientale. La Turchia conservò Costantinopoli e l'Anatolia settentrionale,
mentre gli Stretti furono messi sotto controllo internazionale. Il resto
dell'impero fu diviso in mandati: la Siria alla Francia, Iraq e Palestina alla
Gran Bretagna. Il territorio di Smirne, già promesso all'Italia, fu dato alla
Grecia.
A Versailles i possedimenti tedeschi e i vasti domini territoriali turchi furono
divisi tra Gran Bretagna, Francia, Belgio e Giappone, mentre l'Italia rimase
esclusa dalla spartizione coloniale. Inoltre, su pressione soprattutto del primo
ministro francese Clemenceau vennero imposte alla Germania clausole di pace
durissime sia sul piano economico, sia su quello militare, allo scopo di
impedire ogni possibilità di ripresa dello stato tedesco. La Germania restituì
alla Francia l'Alsazia-Lorena e venne privata del grande polmone minerario e
industriale della Saar che passò, per quindici anni, sotto il controllo della
Francia. Inoltre vennero sottratte alla Germania alcune aree industriali
nell'Alta Slesia a favore della Polonia, paese ricostituito entro confini che
comprendevano, fra l'altro, i territori ex tedeschi della Posnania e della
Prussia occidentale (tranne Danzica); per conseguenza la regione tedesca della
Prussia orientale rimase territorialmente isolata dal resto della Germania.
Lo stato tedesco venne inoltre obbligato a risarcimenti di guerra per 132
miliardi di marchi-oro, da pagare in trent'anni, e limitato nella sua sovranità
dal divieto di ricostruire un apparato militare efficiente. Un trattamento
analogo venne riservato all'ex impero austro-ungarico.
Il risveglio dei paesi colonizzati -
All'Europa delle nazioni i plenipotenziari della diplomazia vollero ancora una
volta sovrapporre l'Europa degli stati, contribuendo a innescare un'altra
miccia, oltre a quella rappresentata dalla Germania, nel lento processo di
ricostruzione dell'ordine continentale.
Lo stesso principio venne adottato con ancora maggiore rigidità nei vastissimi
possedimenti africani e mediorientali dell'impero ottomano, dove le potenze
vincitrici furono guidate dall'obiettivo pressoché esclusivo di trasformare gli
ex territori imperiali in aree semicoloniali sottoposte al loro controllo.
Questa strategia non teneva conto però di quanto forti e radicate fossero le
spinte del nazionalismo turco e arabo, aprendo cosi la strada a numerosi
conflitti, il cui esito mise in luce le difficoltà sempre maggiori della Francia
e della Gran Bretagna nel mantenere un efficace controllo dei loro sterminati
imperi coloniali.
Questo vero e proprio risveglio dei popoli che, come vedremo, toccò l'Asia e
l'Africa, aveva diverse cause. Innanzitutto, il coinvolgimento nel conflitto
mondiale di centinaia di migliaia di uomini provenienti
dai paesi coloniali e
appartenenti a varie nazionalità
.
Nasce la repubblica turca
-
Le proteste e le reazioni negative a questo sconvolgimento territoriale e
politico dovuto ai trattati di pace si fece sentire sia a breve e sia a lunga
scadenza. A breve scadenza ci fu l'azione italiana di Fiume, e l'occupazione di
Wilno, da parte dei polacchi, dopo che Wilno era stata assegnata alla Lituania.
Ma la protesta più clamorosa venne dalla Turchia.
Secondo gli accordi di pace, alla
Turchia era stato assegnato un fazzoletto di terra comprendente Costantinopoli e
l'Anatolia settentrionale, mentre il resto della penisola era stato diviso tra
le potenze vincitrici. Parallelamente, il resto dell'impero fu diviso in
"mandati": i paesi arabi passarono sotto il protettorato francese (Siria e
Libano) e inglese (Iraq, Giordania e Palestina).In Anatolia scoppiò un movimento
nazionalista guidato dal generale Mustafà Kemal, il quale occupò militarmente
Smirne, l'Anatolia e la Tracia Orientale sconfiggendo le truppe Greche penetrate
in Turchia dietro sollecitazione della Gran Bretagna. Kemal ottenne la revisione
del trattato di Sevres e la sua sostituzione col trattato di Losanna del luglio
1923. In questo trattato fu riconosciuto alla Turchia il controllo degli
stretti, l'ampliamento del territorio in Tracia e nel Kurdistan, la piena
autonomia economica abolendo gli antichi privilegi posseduti dagli Europei.
Nello stesso tempo Kemal abolì il sultanato e proclamò la repubblica (1923) la
cui capitale fu stabilita ad Ankara. Nell'ordinamento dello stato furono
introdotte riforme in senso laico e moderno. Kemal, al quale fu dato il titolo
di Ataturk (padre turco), rimase a capo dello stato fino al 1938, anno della sua
morte.
L'Egitto
Anche in Egitto la Gran Bretagna dovette fare i conti con l'affermazione
crescente del movimento nazionalista guidato dal partito Wafd. Nel 1922 il
governo inglese fu infatti costretto a porre fine al proprio protettorato che
aveva imposto nel 1914, dopo aver contribuito a far cadere ogni residuo
controllo turco sui territori egiziani.
Ma, al dominio coloniale diretto, la Gran
Bretagna sostituì il controllo economico attraverso una oculata politica di
aiuti finanziari indispensabili per avviare la difficile modernizzazione del
paese voluta dal sultano Fuad, in cambio del controllo del canale di Suez, perno
decisivo del commercio internazionale.
Una politica analoga la Gran Bretagna sostenne in Iraq, uno dei principali paesi
produttori di petrolio, che nelle zone industrializzate stava diventando una
delle principali fonti energetiche: favorì la nascita di un governo
costituzionale, assai debole per il peso degli scontri tra fazioni religiose e
tribali, ma mantenne il controllo delle principali risorse economiche del paese.
Arabi e Israele
Il governo inglese aveva scelto una linea di compromesso nei confronti delle
spinte indipendentiste che permeavano la società araba. La Francia invece si
attenne ai classici modelli del colonialismo ottocentesco, imponendo un governo
centralistico dei possedimenti coloniali che non lasciava nessuno spazio di
autonomia alle nascenti classi dirigenti locali. Questo alimentò l'esplosione di
sanguinose rivolte in Siria (1925-26) e in Marocco (1921-26), che l'esercito
francese ebbe difficoltà a sedare, e la nascita di movimenti anticolonialisti
molto accesi e cementati dalla religione islamica.
Mentre il nazionalismo arabo si affermava come forza politica decisiva nella
definizione di nuovi equilibri nell'area mediorientale, la progressiva
colonizzazione ebraica della Palestina, sostenuta dal movimento sionista, creava
un altro elemento di tensione con i paesi europei e soprattutto con la Gran
Bretagna. Il governo inglese infatti nel 1917 si era fatto sostenitore delle
rivendicazioni sioniste di riguadagnare la "terra promessa" e di stabilire
colonie ebraiche in Palestina, abitata ormai da secoli da una popolazione araba.
Nel 1921 si raggiunse un accordo che prevedeva la creazione di un piccolo stato
ebraico in Transgiordania, una parte della Palestina che rimaneva in mani arabe.
Questo accordo resse fino ai primi anni trenta, quando l'avvento del nazismo in
Germania fece crescere a dismisura la pressione dei coloni ebrei, che fuggivano
dalla repressione razziale inaugurata da Hitler.
India
Le difficoltà delle potenze europee a mantenere il controllo dei loro domini
coloniali non erano limitate al mondo arabo; negli stessi anni cominciarono a
toccare anche l'Asia e soprattutto l'India, la più antica delle colonie
britanniche.
Fin dal 1917, in piena guerra mondiale, la Gran Bretagna aveva promesso
l'autogoverno dell'India anche per garantirsi la loro partecipazione allo sforzo
bellico. Conclusasi la guerra, il progetto, che aveva suscitato speranze e
aspettative nei settori più dinamici della società, si era arenato: a una
estensione del diritto di voto, sancito dall'Indian Council Act nel 1909, e dei
poteri dei rappresentanti indiani eletti nelle assemblee, si contrappose la
permanenza del diritto di veto sulle risoluzioni delle assemblee elettive da
parte del vicerè e dei governatori locali, nelle cui mani era concentrato tutto
il potere legislativo. Questa situazione di stallo alimentò un peggioramento
delle relazioni tra indiani e governo coloniale e la proliferazione di
manifestazioni di aperta conflittualità contro gli inglesi, che sfociarono nella
strage di Amritsar, una città del Punjab. Qui il 13 aprile 1919 l'esercito
inglese sparò contro una manifestazione facendo più di trecento morti.
Gandhi -
A guidare la lotta indiana per l'indipendenza fu Ghandi, il quale si servì della
disobbedienza civile e della resistenza non violenta, che egli aveva appreso
sulle pagine di Henry D. Thoreau (1817-1862), autore de "Il dovere della
disubbidienza civile", nel quale teorizzò il diritto di non osservare le leggi
ritenute ingiuste.
Forte di questi insegnamenti Gandhi lanciò nel 1921-22 la prima grande campagna
di disobbedienza che scosse profondamente il regime coloniale e l'opinione
pubblica indiana; a essa ne sarebbero seguite altre due, nel 1930-33 e nel 1942.
L'azione non violenta prevedeva il boicottaggio nei confronti delle merci
inglesi, il rifiuto di utilizzare i servizi pubblici coloniali, l'astensione dal
lavoro, l'insubordinazione alla legge e la resistenza passiva alle forze
dell'ordine. L'esempio di Gandhi, che gli indiani cominciarono a chiamare il
mahatma, la "grande anima", coinvolse milioni di indiani, superando le antiche
divisioni di casta della società e le tradizionali fratture religiose tra
induisti e musulmani e riuscendo a dare vita a un movimento di massa senza
precedenti, cui parteciparono anche le donne.
Fino al 1930, quando prese corpo la seconda campagna di disobbedienza civile, il
governo inglese tentò di opporre al movimento nazionalista quasi esclusivamente
l'azione repressiva, che portò più volte in carcere lo stesso Gandhi.
L'impossibilità di ottenere risultati soddisfacenti per questa via fece mutare
radicalmente il segno dell'iniziativa inglese in direzione di una decisa
democratizzazione del sistema politico e di una ampia autonomia amministrativa
dei poteri locali, sancite nella nuova costituzione del 1935.
Indocina
Ma non solo l'India era attraversata da queste forti tensioni nazionaliste. Nei
domini indocinesi della Francia già nell'immediato dopoguerra si sviluppò un
ampio e radicato movimento anticolonialista, nel quale assunse un ruolo di
rilievo il Partito comunista, fondato dal vietnamita Ho Chi Minh, che
raccoglieva il consenso degli strati più poveri della popolazione impegnati
nelle piantagioni, nelle costruzioni ferroviarie e nelle fabbriche. La nascita
di questo movimento operaio e contadino dette nuova vitalità e un nuovo
indirizzo al movimento nazionalista, dapprima ristretto a pochi circoli
intellettuali, che nella seconda metà degli anni trenta avrebbe dato vita a una
serie di rivolte antifrancesi.
Partito comunista Cinese
A scandire i tempi della lotta contro il colonialismo europeo nell'Asia
orientale un ruolo decisivo occupò l'evoluzione del movimento nazionalista
cinese.
In
Cina, gli anni della guerra mondiale avevano rappresentato il momento più cupo
della lunga crisi politica apertasi dopo il crollo
dell' "Impero celeste" e la proclamazione della repubblica. Allora lo scontro tra
le forze democratiche di Sun Yat-sen e i gruppi militari legati alla monarchia e
alle potenze imperialiste sfociò in una vera e propria guerra civile.
L'esplosione del "movimento del 4 maggio" (1919), giorno nel quale si svolse a
Pechino una grande manifestazione di studenti e di operai per protestare contro
la decisione, presa dalle potenze europee vincitrici della guerra, di assegnare
i possedimenti tedeschi in Cina al Giappone, calpestando così la sovranità della
repubblica, mutò radicalmente la situazione e diede nuovo slancio alle forze
della Cina moderna.
Tra le varie anime del movimento, un ruolo significativo ebbero gruppi di
intellettuali e di studenti influenzati dalla Rivoluzione d'ottobre e dal
pensiero comunista. La mobilitazione dei giovani e dei lavoratori non si
incanalò dunque esclusivamente nel partito Kuomintang di Sun Yat-sen, ma
costituì la base di massa del nuovo Partito comunista cinese fondato nel 1921 da
un gruppo di intellettuali in stretto contatto con Mosca e con l'Internazionale
comunista.
Nel gruppo dirigente del nuovo partito assunse un ruolo di primo piano Mao
Tse-tung, un giovane bibliotecario della biblioteca di Pechino, proveniente da
una famiglia di medi proprietari agricoli della regione di Hunan, che aveva
aderito al marxismo nel 1920. L'originalità della elaborazione politica di Mao
consistette principalmente nell'individuare nelle masse contadine il vero
soggetto del movimento rivoluzionario cinese, rispetto al proletariato
industriale e alla piccola borghesia intellettuale, cui si era principalmente
rivolto il movimento democratico di Sun Yat-sen. Con la pubblicazione nel 1926
del libro "Analisi delle classi nella società cinese", la riflessione di Mao
giunse alla formulazione di una strategia politica del tutto nuova, nella quale
le spinte nazionaliste e antimperialiste riuscivano a saldarsi con le
aspirazioni alla terra e alla giustizia sociale delle masse contadine.
Il Partito comunista cinese, che ancora nel 1924 contava poche migliaia di
iscritti, si alleò con il Kuomintang nella lotta contro i "signori della
guerra", i capi militari che controllavano intere regioni ed erano fedeli al
vecchio regime, per unificare la Cina sotto il potere della repubblica.
Fino al 1927 questa alleanza resse e fu in grado di sostenere lo scontro
militare con i "signori della guerra" e di conseguire l'unità politica della
Cina. Ma dopo la morte di Sun, avvenuta nel 1925, all'interno del Kuomintang
prevalsero le componenti più conservatrici, capeggiate dal generale Chiang
Kai-shek, preoccupate della crescita dei consensi popolari attorno al Partito
comunista e decise a rompere l'unità d'azione con il movimento operaio e
contadino.
Nel 1927 Chiang Kai-shek organizzò un vero e proprio colpo di stato, procedendo
all'eliminazione fisica di migliaia di comunisti, nella speranza di sradicare il
partito dalla società cinese; egli instaurò un governo conservatore, con sede a
Nanchino, che sarebbe durato fino al 1937. Il movimento comunista diretto da Mao
fu costretto a ripiegare nelle zone rurali della Cina, dove cominciò a
promuovere forme di auto-governo popolare nelle comunità contadine, che si
contrapponevano così al governo reazionario di Nanchino; si cominciò a mettere
in pratica l'elaborazione teorica di Mao e a organizzare nelle campagne una
sorta di contropotere rispetto alle città, controllate da Chiang Kai-shek. Si
aprì così una nuova lunga guerra civile che dal 1937 si sarebbe intrecciata con
l'invasione giapponese in Cina e dal 1941 con la guerra nel Pacifico tra Usa e
Giappone.
Il declino dell'Europa
I segni vistosi di una profonda crisi del sistema coloniale non erano però che
un aspetto delle gigantesche trasformazioni che la prima guerra mondiale si
lasciò alle spalle. Agli inizi degli anni venti si era definitivamente compiuto
il processo di spostamento del centro del mondo fuori dall'Europa, avviato sul
finire dell'Ottocento. La guerra, che aveva richiesto uno sforzo immane sul
piano economico e sociale, aveva accelerato il declino del vecchio continente,
prosciugandone le risorse e portando la sua economia sull'orlo del tracollo.
Alla fine della guerra l'Europa appariva un paese impoverito. La sua agricoltura
non era più in grado di reggere i ritmi produttivi di altri paesi come gli Stati
uniti o l'Argentina; il suo apparato industriale viveva una crisi gravissima. Il
principale fattore di crisi dell'economia europea era legato alla necessità di
riconvertire in tempi rapidi la produzione industriale ai beni di consumo e a
macchinari necessari in tempo di pace: durante la guerra gli impianti
industriali erano stati trasformati per produrre quasi esclusivamente enormi
quantità di materiale militare. Alla fine delle ostilità, occorreva cambiare produzione, molte aziende non riuscirono a riconvertirsi e
fallirono; altre riuscirono nell'impresa ma con grande difficoltà; in ogni caso
questo processo trasformò le strutture industriali di tutte le
nazioni belligeranti, soprattutto di quelle sconfitte.
La crisi innescata dalla riconversione produttiva durò più del previsto: fino al
1922 si protrasse un lungo ciclo negativo alimentato da diversi fattori. La
riconversione produttiva si scontrò con varie difficoltà:
>> l'approvvigionamento dei capitali, scarsi e costosi, soprattutto
per i paesi europei gravati dai pesantissimi debiti di guerra contratti con
l'estero e in primo luogo con gli Usa;
>> il
sistema degli scambi, appesantito da una crisi costante delle tariffe doganali
in tutti i paesi europei dove erano state applicate nel vano
sforzo di proteggere i mercati interni dalla concorrenza;
>> l'inflazione,
alimentata dall'enorme quantità di cartamoneta, messa in circolazione negli anni
della guerra per sostenere i costi smisurati del conflitto,
>> l'indebitamento
degli stati e il ristagno produttivo, che produssero una progressiva perdita di
valore delle monete europee e un parallelo rialzo di tutti i prezzi.
L'egemonia economica degli Stati uniti
La gravità della crisi affondava le sue radici nel fatto che l'egemonia europea
era uscita distrutta dal conflitto mondiale: il costo della guerra aveva
prosciugato oltre il 30% della ricchezza complessiva della Francia e
della Gran Bretagna, e percentuali ancora maggiori toccarono i paesi sconfitti,
come la Germania o la Russia.
Su economie così disastrate pesavano inoltre i debiti nei confronti degli Stati
uniti che, dal punto di vista economico, risultarono l'unico vero vincitore
della guerra.
Con solo il 9 per cento della ricchezza nazionale dissipata nella guerra e
vantando oltre dieci miliardi di dollari di crediti con i paesi europei
belligeranti, gli Stati uniti erano diventati la potenza egemone a livello
internazionale, soprattutto perché erano gli unici in grado di sovvenzionare con
prestiti la ripresa economica del vecchio continente.
Si trattava di una crisi economica di enorme portata, alimentata da una netta
insufficienza dei mezzi di produzione che progressivamente trasformò l'Europa in
un paese dipendente dall'estero. Se nell'Ottocento l'Europa era stata la "fucina
del mondo", in grado di trasformare il resto del pianeta – con poche
eccezioni – in un unico grande mercato di approvvigionamento di materie prime e
di smercio dei propri manufatti, agli inizi degli anni venti i centri del potere
economico si erano trasferiti fuori del vecchio continente.
La crisi economica europea fu resa ancor più acuta dall'esplodere di una lunga
serie di scioperi operai e di agitazioni contadine e dei ceti medi urbani,
impegnati nella difesa dei loro redditi, minacciati ed erosi dall'inflazione, e
nello sforzo di ottenere quella più equa distribuzione della ricchezza sociale
che costituiva la promessa fatta dalle classi dirigenti ai milioni di lavoratori
chiamati alle armi.
Queste lotte assunsero una radicalità e un'intensità del tutto inusitate
rispetto al passato, fino a prendere in qualche caso, i connotati di una rottura rivoluzionaria dell'ordine esistente.
In questa situazione lo stato assunse un ruolo ancor più centrale di quello già
ricoperto prima della grande guerra come promotore e regolatore delle attività
economiche attraverso la spesa pubblica, la politica monetaria, il potenziamento
della domanda interna, il controllo del conflitto sociale; ruolo che nei fatti
aveva già ricoperto durante gli anni del conflitto.
Cominciarono allora
nuove teorie economiche fondate sul principio che l'iniziativa privata, la
concorrenza e il mercato, nonché il conflitto tra le classi, se lasciati al loro
libero gioco, diventavano letali per lo sviluppo dell'economia nazionale.
Essi
dovevano invece essere subordinati allo Stato, inteso come regolatore
della vita economica e sociale, unico soggetto in
grado di finalizzare lo sviluppo delle forze produttive agli interessi della
nazione. Ogni branca produttiva avrebbe dovuto essere organizzata in istituzioni
statali nelle quali erano rappresentati imprenditori, operai, tecnici e
dirigenti che avevano il compito di potenziare la produzione in uno specifico
settore, secondo direttive che provenivano dai vertici dello stato. Attraverso
questo meccanismo si sarebbe sconfitta la concorrenza tra le aziende, che
rappresentava una dissipazione di risorse, e definitivamente imbrigliata la
lotta tra capitale e lavoro che mortificava la produzione. Queste teorie vennero
sostenute soprattutto dai movimenti di destra e dai nascenti partiti fascisti in
Germania e in Italia; ma si fecero strada anche nel fronte democratico come
soluzione possibile all'estrema gravità della situazione.
La cultura politica dei "grandi condottieri"
Il corporativismo si combinò con l'affermazione di una nuova cultura politica
che, partendo da una critica profonda dei limiti della democrazia liberale,
emersi con evidenza nel crogiolo della grande guerra, si faceva sostenitrice
della necessità di superare il parlamentarismo e di rifondare il sistema
politico attorno alla figura di un capo, di una "guida", dotata di poteri
sostanzialmente autoritari, in grado di esprimere i bisogni e le aspettative
delle "masse".
In un'opera destinata a diventare famosissima "Il tramonto dell'Occidente",
pubblicata tra il 1918 e il 1922, il filosofo tedesco Oswald Spengler meglio di
ogni altro intellettuale del tempo espresse i paradigmi di questa nuova cultura.
Il nuovo potere "cesaristico" non avrebbe trovato la sua legittimazione nel
consenso di libere elezioni, ma rispondeva solo alla
capacità di mettersi in sintonia con le pulsioni profonde delle razze e dei
popoli, con il pathos e le aspirazioni delle nazioni.
Il totalitarismo si configura così come l'unico esito possibile della crisi
delle società moderne travolte dalla guerra.
Fame e scioperi
L'emergere di queste nuove teorie metteva in luce come la crisi in corso nel
primo dopoguerra non fosse soltanto economica. Era una crisi politica più
generale, che riguardava le istituzioni liberali e democratiche, incapaci di
recepire e rappresentare le novità che il conflitto mondiale aveva prodotto. La
guerra aveva lasciato nelle coscienze di milioni di uomini impegnati al fronte
un segno incancellabile, assieme alla speranza di evitare nel futuro una simile
"inutile strage".
Le vicende vissute al fronte, inoltre, sia per chi aveva detenuto posizioni di
comando, sia per chi era stato soldato semplice, rappresentarono spesso
un
bagaglio di esperienze difficili da accantonare, e crearono notevoli problemi di
adattamento alla vita quotidiana del tempo di pace.
Tra i reduci erano diffusi sentimenti di delusione, di insoddisfazione, di
impotenza di fronte alle difficoltà di trovare lavoro, di riuscire a reinserirsi
nella vita civile, mentre l'inflazione erodeva il potere d'acquisto non solo dei
salari operai, ma anche degli stipendi degli impiegati e dei funzionari
pubblici, della piccola borghesia urbana e dei contadini.
L'insoddisfazione diffusa a livello di massa si coagulò spesso nella formazione
di associazioni di ex-combattenti, allo scopo di ricreare e tenere in vita quei
legami di solidarietà e di cameratismo che si erano consolidati durante
l'esperienza della guerra. Questa tendenza all'organizzazione esprimeva un
bisogno di partecipazione alla vita civile, che si manifestò nello
sviluppo crescente dei sindacati e dei partiti politici, nonché nella ripresa
dei movimenti femministi per il riconoscimento della parità dei diritti e
l'emancipazione della donna. Questi processi di ulteriore rafforzamento del
ruolo delle masse nella vita politica si sommarono alla crisi economica del
dopoguerra: disoccupazione e inflazione si intrecciarono provocando un'ondata di
lotte sociali e l'emergere di una conflittualità che in molti casi (in Italia,
in Germania, in Gran Bretagna) rischiò di sfociare in un evento rivoluzionario.
Le istituzioni liberali dei paesi europei, da una parte, non furono in grado di
soddisfare i bisogni delle masse lavoratrici e la spinta alla partecipazione
politica delle classi subalterne; dall'altra, non riuscirono a dominare le
spinte di matrice reazionaria che si alimentavano delle promesse fatte durante
la guerra dagli stessi governi e che toccarono prevalentemente la piccola e
media borghesia. Si svilupparono movimenti politici e tendenze culturali
ispirati al mito del numero e della forza, alla demonizzazione delle
opposizioni, al disprezzo del sistema parlamentare.
Tali movimenti prefiguravano
una società fortemente gerarchizzata, dove la libertà del cittadino veniva
sacrificata alle cosiddette esigenze superiori della nazione, e dove un nuovo
rapporto tra masse e stato veniva mediato dalla figura del capo carismatico,
interprete della nazione.
|
|