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Tiberio nacque a Roma il 16 novembre
42 a.C. dall'omonimo Tiberio Claudio Nerone, cesariano, pretore nello stesso
anno, e da Livia Drusilla, di circa trent'anni più giovane del marito.
Tanto dal
ramo paterno che da quello materno apparteneva alla gens Claudia, un'antica
famiglia patrizia giunta a Roma nei primi anni dell'età repubblicana e
distintasi nel corso dei secoli per il raggiungimento di numerosi onori e alte
magistrature.
Fin dall'origine, la gens Claudia si
era divisa in numerose famiglie, tra le quali si distinse quella che assunse il
cognomen Nero (Nerone, che in lingua sabina significa "forte e valoroso"), a cui
apparteneva Tiberio. Egli poteva dunque dirsi membro di una stirpe che aveva
dato alla luce personalità di altissimo rilievo, come Appio Claudio Cieco, e che
si annoverava tra i più grandi assertori della superiorità del patriziato.
La genealogia della gens giulio-claudia.
Il padre era stato tra i più ferventi
sostenitori di Gaio Giulio Cesare e, dopo la sua morte, si era schierato dalla
parte di Marco Antonio, luogotenente di Cesare in Gallia, entrando in contrasto
con Ottaviano, erede designato dallo stesso Cesare. Dopo la costituzione del
secondo triumvirato tra Ottaviano, Antonio e Marco Emilio Lepido e le
conseguenti proscrizioni, i contrasti tra i sostenitori di Ottaviano e quelli di
Antonio si concretizzarono in una situazione di conflitto, ma il padre di
Tiberio continuò ad appoggiare l'ex luogotenente di Cesare. Allo scoppio del bellum Perusinum, suscitato dal console Lucio Antonio e da Fulvia, moglie di
Marco Antonio, il padre di Tiberio si unì dunque agli antoniani, fomentando il
malcontento che stava nascendo in molte regioni d'Italia.
Dopo la vittoria di
Ottaviano, che riuscì a sconfiggere Fulvia asserragliata a Perugia e a
restaurare il proprio controllo su tutta la penisola italica, egli fu costretto
a fuggire, portando assieme a sé la moglie e il figlio omonimo. La famiglia si
rifugiò dunque a Napoli, e partì poi alla volta della Sicilia, controllata da
Sesto Pompeo. I tre furono poi costretti a raggiungere l'Acaia, dove si stavano
radunando le truppe antoniane che avevano lasciato l'Italia.
Il piccolo Tiberio,
costretto a prendere parte alla fuga e a patire le insicurezze del viaggio, ebbe
dunque un'infanzia disagevole e agitata, fino a quando gli accordi di Brindisi,
che ristabilivano una pace precaria, permisero agli antoniani fuoriusciti di
fare ritorno in Italia.
Nel 39 a.C. Ottaviano decise di divorziare da sua moglie Scribonia, dalla quale
aveva avuto la figlia Giulia, per prendere in sposa la madre del piccolo
Tiberio, Livia Drusilla, della quale era sinceramente innamorato.
Il triumviro
chiese per le nozze l'autorizzazione del collegio dei pontefici, dal momento che
Livia aveva già un figlio ed era in attesa di un secondo. I sacerdoti
acconsentirono al matrimonio tra i due, ponendo, come unica clausola, che fosse
accertata la paternità del nascituro.
Il 17 gennaio del 38 a.C., dunque,
Ottaviano sposò Livia, la quale dopo tre mesi partorì un figlio a cui fu imposto
il nome di Druso. La questione della paternità, in realtà, rimase incerta:
alcuni sostenevano che Druso fosse nato da un rapporto adulterino tra Livia e
Ottaviano, mentre altri lodavano il fatto che il neonato fosse stato generato
nei soli novanta giorni che erano intercorsi tra il matrimonio e la sua nascita.
Si poté in un secondo momento accertare come la paternità di Druso dovesse
spettare al padre di Tiberio, poiché Livia e Ottaviano non si erano ancora
incontrati nel momento in cui il bambino fu concepito.
Mentre Druso fu allevato dalla madre nella casa di Ottaviano, Tiberio rimase
presso l'anziano padre fino all'età di nove anni: nel 33 a.C. quest'ultimo morì
e fu il giovanissimo figlio a pronunciarne la laudatio funebris dai rostri del
Foro.
Tiberio si trasferì dunque nella casa di Ottaviano assieme alla madre e al
fratello, proprio mentre le tensioni tra Ottaviano e Antonio sfociavano in un
nuovo conflitto, che si concluse nel 31 a.C. con lo scontro decisivo di Azio.
Nel 29 a.C., durante la cerimonia del trionfo di Ottaviano dopo la definitiva
vittoria su Antonio ad Azio, fu Tiberio a precedere il carro del vincitore,
conducendo il cavallo interno di sinistra, mentre Marcello, nipote di Ottaviano,
montava quello esterno di destra, trovandosi dunque al posto d'onore. Diresse in
seguito anche i giochi urbani e prese parte a quelli troiani, tenuti nel circo,
come capo della squadra dei fanciulli più grandi.
All'età di quindici anni fu vestito della toga virile, e fu dunque iniziato alla
vita civile: si distinse come difensore ed accusatore in numerosi processi
giudiziari, e si dedicò contemporaneamente all'apprendimento dell'arte militare,
distinguendosi in particolare per la sua abilità nell'equitazione. Si dedicò
inoltre, con grande interesse, a studi di oratoria latina, retorica greca e
diritto; frequentava i circoli culturali legati ad Augusto, dove si parlava
tanto in greco quanto in latino: conobbe dunque Gaio Clinio Mecenate e gli
artisti che egli finanziava, come Quinto Orazio Flacco, Publio Virgilio Marone e
Sesto Properzio.
Si dedicò con altrettanta passione alla composizione di testi
poetici, a imitazione del poeta greco Euforione di Calcide, su soggetti
mitologici, in uno stile tortuoso e arcaizzante, con grande uso di vocaboli rari
e desueti.
Carriera militare (25 - 6 a.C.)
Se Tiberio dovette molto della sua ascesa politica alla madre Livia Drusilla,
terza moglie di Augusto, restano indubbie le sue capacità militari di comandante
e stratega: egli rimase imbattuto nel corso di tutte le sue lunghe e frequenti
campagne, tanto da divenire, nel corso degli anni, uno dei migliori luogotenenti
del patrigno.
Incarichi in Spagna ed Oriente (25 - 16 a.C.)
Data la mancanza di vere e proprie scuole militari che permettessero di fare
esperienza, nel 25 a.C. Augusto decise di inviare in Spagna i sedicenni Tiberio
e Marcello, in qualità di tribuni militari. Lì i due giovani, che Augusto
vedeva come suoi possibili successori, parteciparono alle fasi iniziali della
guerra cantabrica, iniziata dallo stesso Augusto nell'anno precedente, e portata
a termine, nel 19 a.C., dal generale Marco Vipsanio Agrippa.
Due anni più tardi, nel 23 a.C., all'età di diciotto o diciannove anni, Tiberio
fu nominato questore dell'annona, in anticipo di cinque anni rispetto al
tradizionale cursus honorum delle magistrature.
Si trattava di un
incarico particolarmente delicato, a cui spettava garantire l'approvvigionamento
di frumento per l'intera città di Roma, che contava allora oltre un milione di
abitanti, duecentomila dei quali potevano sopravvivere solo grazie alle
distribuzioni gratuite di grano da parte dello stato; l'Urbe, inoltre, si
trovava ad attraversare un periodo di carestia dovuta a una piena del Tevere che
aveva distrutto buona parte dei raccolti nelle campagne laziali, impedendo anche
alle navi onerarie di giungere fino a Roma con le loro le derrate
alimentari.
Tiberio affrontò la situazione con vigore: acquistò a sue spese
il grano che gli speculatori ammassavano nei loro depositi e lo distribuì
gratuitamente, tanto da essere salutato come benefattore di Roma. Fu dunque
incaricato di condurre le ispezioni negli ergastula, prigioni sotterranee in cui
venivano rinchiusi gli schiavi, i viaggiatori e coloro che chiedevano rifugio
per evitare il servizio militare. Si trattava, questa volta, di un
compito non particolarmente prestigioso, ma ugualmente delicato, poiché i
padroni degli ergastula si erano resi odiosi a tutta la popolazione dell'Italia,
creando così una situazione di tensione.
Nell'inverno del 21-20 a.C. Augusto ordinò al ventunenne Tiberio di condurre un
esercito legionario, reclutato in Macedonia ed Illirico, e di muovere in
Oriente, verso l'Armenia. Essa era, infatti, una regione di fondamentale
importanza per l'equilibrio politico di tutta l'area orientale: svolgeva un
ruolo di cuscinetto tra l'impero romano ad ovest e quello dei Parti ad est, ed
entrambi volevano farne un proprio stato vassallo, che assicurasse la protezione
dei confini dai nemici.
Dopo la sconfitta di Marco Antonio e la caduta
del sistema che egli aveva imposto in Oriente, l'Armenia era tornata sotto
l'influenza dei Parti, che favorirono l'ascesa al trono di Artaxias II. Augusto
ordinò dunque a Tiberio di scacciare Artaxias, di cui gli Armeni filoromani
chiedevano la deposizione, e imporre sul trono il fratello minore Tigrane, di
tendenze filoromane. I Parti, spaventati dall'avanzata delle legioni romane,
scesero a compromessi e sottoscrissero una pace con lo stesso Augusto, giunto
intanto in Oriente da Samo, restituendo le insegne e i prigionieri di cui si
erano impossessati dopo la vittoria su Marco Licinio Crasso nella battaglia di
Carre del 53 a.C.
Ugualmente, anche la situazione armena si risolse prima
dell'arrivo di Tiberio e del suo esercito grazie al trattato di pace tra Augusto
e il sovrano partico Fraate IV: il partito filoromano poté prendere il
sopravvento e alcuni agenti inviati da Augusto eliminarono Artaxias. Al suo
arrivo, dunque, Tiberio non dovette far altro che incoronare Tigrane, che prese
il nome di Tigrane III, come re cliente, in una cerimonia pacifica e solenne,
tenutasi davanti agli occhi delle legioni romane. Al suo ritorno a Roma, il
giovane generale fu celebrato con grandi feste e con la costruzione di monumenti
in suo onore.
Nel 19 a.C. fu conferito a Tiberio il rango di ex-pretore, ovvero gli ornamenta
praetoria, ed egli poté dunque sedere in Senato, tra gli ex-praetores.
Sebbene Augusto, dopo la campagna in Oriente, avesse ufficialmente dichiarato in
senato che avrebbe abbandonato la politica di espansione, ben sapendo che
un'estensione territoriale eccessiva sarebbe stata letale per l'imperium romano,
decise comunque di attuare altre campagne per rendere sicuri i confini. Nel 16
a.C. Tiberio, appena nominato pretore, accompagnò Augusto in Gallia, dove
trascorse i tre anni successivi, fino al 13 a.C., per assisterlo
nell'organizzazione e governo delle province galliche. Il princeps fu
accompagnato dal figliastro anche in una campagna punitiva oltre il Reno, contro
le tribù dei Sigambri e dei loro alleati, Tencteri ed Usipeti, che nell'inverno
del 17-16 a.C. avevano causato la sconfitta del proconsole Marco Lollio e la
parziale distruzione della legio V Alaudae e la perdita delle insegne
legionarie.
Nel 15 a.C. Tiberio, insieme al fratello Druso, condusse una campagna contro le
popolazioni di Reti, stanziati tra il Norico e la Gallia, e Vindelici.
Druso aveva già in precedenza scacciato dal territorio italico i Reti, resisi
colpevoli di numerose scorrerie, ma Augusto decise di inviare anche Tiberio
affinché la situazione fosse definitivamente risolta. I due, nel tentativo
di accerchiare il nemico attaccandolo su due fronti senza lasciargli vie di
fuga, progettarono una grande "operazione a tenaglia" che misero in pratica
anche grazie all'aiuto dei loro luogotenenti: Tiberio mosse dall'Elvezia,
mentre il fratello minore da Aquileia e Tridentum, percorrendo la valle
dell'Adige e dell'Isarco (alla cui confluenza costruì il Pons Drusi, presso
l'attuale Bolzano), e risalendo infine l'Inn. Tiberio, che avanzava da ovest,
sconfisse i Vindelici nei pressi di Basilea e del lago di Costanza; in quel
luogo i due eserciti poterono riunirsi e prepararsi a invadere la Baviera.
L'azione congiunta permise ai due fratelli di avanzare fino alle sorgenti del
Danubio, dove ottennero l'ultima e definitiva vittoria sui Vindelici. Questi
successi permisero ad Augusto di sottomettere le popolazioni dell'arco alpino
fino al Danubio, e gli valsero una nuova acclamazione imperatoria, mentre
Druso, figliastro prediletto di Augusto, per questa ed altre vittorie, poté più
tardi ottenere il trionfo. Su una montagna vicino a Monaco, presso l'attuale La Turbie, venne eretto un trofeo di Augusto, per commemorare la pacificazione
delle Alpi da un estremo all'altro e per ricordare i nomi di tutte le tribù
sottomesse.
Dall'Illirico alla Macedonia, alla Tracia
Nel 13 a.C., guadagnatosi ormai la reputazione di ottimo comandante, fu
nominato console ed inviato da Augusto nell'Illirico: il valoroso
Agrippa, infatti, che aveva a lungo combattuto contro le popolazioni ribelli
della Pannonia, morì appena tornato in Italia. La notizia della morte del
generale provocò una nuova ondata di ribellioni tra le genti sconfitte da
Agrippa, in particolare Dalmati e Breuci, ed Augusto assegnò al figliastro
il compito di pacificarle.
Tiberio, assunto il comando dell'esercito nel 12 a.C.,
sgominò le forze nemiche e attuò una politica di durissima repressione contro
gli sconfitti; grazie alla sua abilità strategica e all'astuzia che
dimostrò poté ottenere una vittoria totale nel giro di soli quattro anni,
avvalendosi dell'aiuto di generali esperti come Marco Vinicio, governatore della
Macedonia e Lucio Calpurnio Pisone. Nel 12 a.C. sottomise i pannoni Breuci,
avvalendosi dell'aiuto fornitogli dalla tribù degli Scordisci, sottomessa poco
tempo prima dal proconsole Marco Vinicio: privò i suoi nemici delle armi e
vendette come schiavi la maggior parte dei loro giovani, dopo averli deportati.
Contemporaneamente, lungo il fronte orientale, il governatore di Galazia e
Panfilia Lucio Calpurnio Pisone era stato costretto ad intervenire in Tracia,
poiché le genti del luogo, in particolare i Bessi, minacciavano il sovrano trace
Remetalce I, alleato di Roma.
L'11 a.C.
vide Tiberio impegnato prima contro i Dalmati, che si erano nuovamente
ribellati, e poco dopo ancora contro i Pannoni che avevano approfittato della
sua assenza per cospirare nuovamente. Il giovane generale fu dunque
notevolemente impegnato nel combattere contemporaneamente contro più popoli
nemici e fu costretto più volte a spostarsi da un fronte all'altro. Nel 10 a.C.
i Daci si spinsero oltre il Danubio, effettuando gravi razzie nei territori di
Pannoni e Dalmati. Questi ultimi, dunque, vessati anche dai tributi imposti loro
da Roma, si ribellarono nuovamente. Tiberio, che si era recato in Gallia insieme
ad Augusto al principio dell'anno, fu così costretto a far ritorno sul fronte
illirico, per affrontarli e batterli ancora una volta. Al termine dell'anno poté
finalmente fare ritorno a Roma insieme al fratello Druso e ad Augusto.
Conclusasi la lunga campagna, anche la Dalmazia, ormai definitivamente inglobata
nello stato romano e avviata al processo di romanizzazione, fu affidata come
provincia imperiale al diretto controllo di Augusto: era infatti necessario che
vi fosse stanziato permanentemente un esercito pronto a respingere eventuali
assalti lungo i confini e a reprimere possibili nuove rivolte. Augusto,
tuttavia, evitò in un primo momento di ufficializzare la salutatio imperatoria
che i legionari avevano tributato a Tiberio e si rifiutò di tributare al
figliastro anche la cerimonia del trionfo, contro il parere che il senato aveva
espresso.
A Tiberio fu comunque concesso di percorrere la via Sacra su di un
carro ornato delle insegne trionfali e di celebrare un'ovazione: si trattò
di un uso del tutto nuovo che, sebbene inferiore al festeggiamento del trionfo
vero e proprio, costituiva comunque un notevole onore.
Nel 9 a.C. Tiberio si dedicò interamente alla riorganizzazione della nuova
provincia dell'Illirico. Mentre da Roma, dove aveva festeggiato la sua
vittoriosa campagna, tornava ai confini orientali, Tiberio fu avvisato che il
fratello Druso, mentre si trovava sulle rive dell'Elba a combattere contro le
popolazioni germaniche, era caduto da cavallo fratturandosi il femore.
L'incidente sembrò di poco conto e fu dunque trascurato; le condizioni di Druso,
tuttavia, peggiorarono repentinamente nel settembre. Tiberio lo raggiunse a Mogontiacum per portargli conforto, dopo aver percorso, in un giorno solo, oltre
duecento miglia. Druso, alla notizia dell'arrivo del fratello, ordinò che le
legioni lo accogliessero degnamente, e spirò più tardi tra le sue braccia.
Fu dunque lo stesso Tiberio a condurre il corteo funebre che riportò la salma di
Druso a Roma, precedendo tutti a piedi. A Roma, pronunciò una laudatio
funebris per il fratello defunto nel Foro, mentre Augusto pronunciò la sua nel
Circo Flaminio; il corpo di Druso fu poi cremato nel Campo Marzio e deposto nel
Mausoleo di Augusto.
Negli anni 8 - 7 a.C. Tiberio si recò nuovamente, mandato da Augusto, in
Germania per continuare l'opera iniziata dal fratello Druso e combattere le
popolazioni germaniche, dopo la sua prematura scomparsa. Attraversò dunque il
Reno e le tribù dei barbari, spaventate, ad eccezione dei Sigambri,
avanzarono proposte di pace, ma ricevettero tuttavia un netto rifiuto, in quanto
sarebbe stato inutile concludere una pace senza l'adesione dei pericolosi
Sigambri stessi; quando anch'essi inviarono degli uomini a trattare, Tiberio li fece
massacrare e deportare. Per i risultati ottenuti in Germania, Tiberio ed
Augusto guadagnarono nuovamente l'acclamazione ad imperator e Tiberio fu
designato console per il 7 a.C. Poté dunque portare a termine l'opera di
consolidamento del potere romano sulla regione costruendo numerosi forti, tra
cui quelli di Oberaden e Haltern, ed espandendo dunque l'influenza romana
fino al fiume Weser.
Allontanamento dalla vita politica (6 a.C. - 4 d.C.)
Perseguendo gli
interessi politici della famiglia, Tiberio nel 12 a.C. era stato costretto da
Augusto a divorziare dalla prima moglie, Vipsania Agrippina, figlia di Marco
Vipsanio Agrippa, che aveva sposato nel 16 a.C. e da cui aveva avuto un figlio,
Druso minore. L'anno successivo sposò dunque Giulia maggiore, figlia dello
stesso Augusto e quindi sua sorellastra, vedova di Agrippa. Tiberio
era sinceramente innamorato della prima moglie Vipsania e se ne allontanò con
grande rammarico; il sodalizio con Giulia, poi, vissuto dapprima con
concordia e amore, si guastò ben presto, dopo la morte del figlio ancora
infante che era nato loro ad Aquileia.
Il carattere di Tiberio,
particolarmente riservato, si contrapponeva inoltre a quello licenzioso di
Giulia, circondata da numerosi amanti.
Nel 6 a.C. Augusto decise di conferire a Tiberio la tribunicia potestas (potestà
tribunizia) per 5 anni: essa rendeva sacra e inviolabile la persona
di Tiberio, e conferiva inoltre il diritto di veto.
In questo modo Augusto
sembrava voler avvicinare a sé il figliastro e poteva inoltre porre un freno
all'esuberanza dei giovani nipoti, Gaio e Lucio Cesare, figli di Agrippa e
Giulia, che aveva adottato e che apparivano come i favoriti nella
successione.
Malgrado questo onore, Tiberio decise di ritirarsi dalla vita politica e
abbandonare la città di Roma, per andarsene in un volontario esilio sull'isola
di Rodi, che lo aveva affascinato fin dai giorni in cui vi era approdato, di
ritorno dall'Armenia. Alcuni, come il Grant, sostengono che fosse
indignato e sconcertato dalla situazione, altri che sentiva la scarsa
considerazione di Augusto nei suoi confronti per essere stato usato quale tutore
dei suoi due nipoti, Gaio e Lucio Cesare, gli eredi designati, oltre ad un
crescente disagio e disgusto nei confronti della nuova moglie.
Si trattava di una scelta strana e improvvisa, che Tiberio prese proprio nel
momento in cui stava ottenendo numerosi successi, mentre si trovava nel mezzo
della giovinezza ed in piena salute. Augusto e Livia tentarono inutilmente
di trattenerlo; il princeps arrivò addirittura a parlare della questione in
senato. Tiberio, in risposta, decise di smettere di mangiare e rimase a digiuno
per quattro giorni, fino a quando non gli fu concesso di lasciare l'Urbe per
recarsi dove desiderava. Gli storici antichi non seppero dare
un'interpretazione univoca della vicenda, che appariva, in effetti, abbastanza
strana. Svetonio riassunse tutte le motivazioni che potevano aver portato
Tiberio a lasciare Roma:
« [...] è dubbio se per disgusto di sua moglie, che non osava né ripudiare né
incriminare, ma che non poteva sopportare più oltre, o se, invece, per affermare
o anche accrescere, con la lontananza, la sua autorità, nel caso che lo stato
avesse bisogno di lui, evitando di stancare con la sua continua presenza. Certi
stimano che, essendo allora adulti i figli di Augusto, cedette loro il passo
spontaneamente, come se il secondo rango fosse stato un patrimonio a lungo
usurpato, seguendo così l'esempio di Marco Agrippa che, quando aveva visto Marco
Marcello chiamato a incarichi pubblici, si era ritirato a Mitilene per non
sembrare, con la sua presenza in Roma, atteggiarsi a suo concorrente o a suo
censore. Questa è, del resto, la versione che diede egli stesso, ma solo più
tardi. In quell'epoca egli chiese un congedo motivandolo con il fatto che era
sazio di onori e che voleva trovare riposo [...] »
(Svetonio, Tiberio, 10; trad. di Felice Dessì, Le vite dei Cesari, BUR.)
Cassio Dione scrisse invece che l'allontanamento di Tiberio era stato decretato
da Augusto, poiché Lucio e Gaio «ritenevano di essere stati declassati, e
Tiberio iniziava a temere il loro risentimento.»
Per
tutto il periodo della sua permanenza a Rodi (per quasi otto anni), Tiberio
mantenne un atteggiamento sobrio e defilato, evitando di porsi al centro
dell'attenzione o di prender parte alle vicende politiche dell'isola: se non in
un unico caso, infatti, non fece mai uso dei poteri che gli derivavano dalla tribunicia potestas di cui era stato investito. Quando, tuttavia, nell'1
a.C. smise di goderne, decise di chiedere il permesso di rivedere i suoi
parenti: stimava infatti che, seppure partecipe delle vicende politiche, non
avrebbe più potuto in alcun modo mettere a repentaglio il primato di Gaio e
Lucio Cesare.
Ricevette tuttavia un rifiuto.
Decise allora di fare appello
alla madre, che tuttavia non poté ottenere altro che Tiberio venisse nominato
legato di Augusto a Rodi, e che dunque la sua disgrazia fosse almeno in parte
celata. Si rassegnò così a continuare a vivere come un privato cittadino,
timoroso e sospetto, evitando tutti coloro che venivano a fargli visita
sull'isola. Nel 2 a.C. la moglie Giulia fu condannata all'esilio sull'isola di Ventotene e il suo matrimonio con lei fu di conseguenza annullato da Augusto:
Tiberio, per quanto contento della notizia, cercò di dimostrarsi magnanimo nei
confronti della lussuriosa Giulia, nel tentativo di riconquistare la stima di
Augusto.
Nell'1 a.C. decise di far visita a Gaio Cesare che era appena
giunto a Samo, dopo che Augusto gli aveva conferito l'imperium proconsolare e lo
aveva incaricato di compiere una missione in Oriente dove, morto Tigrane III, il
problema armeno si era riaperto. Tiberio lo onorò mettendo da parte ogni
rivalità ed umiliandosi ma Gaio, spinto dall'amico Marco Lollio, fermo
oppositore di Tiberio, lo trattò con distacco. Soltanto nel 1 d.C., dopo
sette anni dalla sua partenza, a Tiberio fu concesso di fare ritorno a Roma,
grazie anche all'intercessione della madre Livia, ponendo fine a quello che
aveva smesso di essere un esilio volontario. Gaio Cesare, che, infatti, si era
allontanato da Lollio, decise di acconsentire al ritorno; Augusto, che aveva
rimesso la questione nelle mani del nipote, lo richiamò così in patria,
facendogli però giurare che non si sarebbe interessato in alcun modo al governo
dello stato.
A Roma, intanto, i giovani nobiles che sostenevano i due Cesari avevano
sviluppato un forte sentimento di odio verso Tiberio e continuavano a vederlo
come un ostacolo all'ascesa di Gaio Cesare. Lo stesso Marco Lollio, prima
dell'allontanamento da Gaio Cesare, si era offerto per andare a Rodi ad uccidere
Tiberio, e molti altri nutrivano lo stesso proposito. Al suo ritorno
nell'Urbe Tiberio dovette dunque agire con grande cautela, senza mai abbandonare
il proposito di riacquisire il prestigio e l'influenza che aveva perduto
nell'esilio di Rodi.
Proprio quando la loro popolarità aveva raggiunto i massimi livelli, Lucio e
Gaio Cesare morirono, rispettivamente nel 2 e nel 4, non senza che si
sospettasse che Livia Drusilla avesse avuto qualche ruolo nella loro morte: il
primo si era misteriosamente ammalato, mentre il secondo era stato colpito a
tradimento in Armenia, mentre discuteva con i nemici una proposta di pace.
Tiberio, che al suo ritorno aveva lasciato la sua vecchia casa per trasferirsi
nei giardini di Mecenate (dei quali resta oggi il cosiddetto Auditorium, fatto
forse decorare con pitture di giardino proprio da Tiberio) e aveva evitato in
ogni modo di partecipare alla vita pubblica, fu adottato da Augusto, che non
aveva ormai altri eredi. Il princeps lo costrinse però ad adottare a sua volta
il nipote Germanico, figlio del fratello Druso Maggiore, sebbene Tiberio avesse
già un figlio, concepito dalla prima moglie, Vipsania, di nome Druso minore e
più giovane di un anno soltanto.
L'adozione di Tiberio, che prese il
nome di Tiberio Giulio Cesare, fu celebrata il 26 giugno del 4 con grandi
festeggiamenti e Augusto ordinò che si distribuisse alle truppe oltre un milione
di sesterzi. Il ritorno di Tiberio al potere supremo dava, infatti,
non solo al Principato una naturale stabilità, continuità e una concordia
interna, ma nuovo slancio alla politica augustea di conquista e gloria
all'esterno dei confini imperiali.
Nuovi successi militari (4 - 12) -
Le campagne di Tiberio e del suo legato, Gaio Senzio Saturnino, in Germania nel
4 - 6.
Subito dopo la sua adozione, Tiberio fu nuovamente investito dell'imperium
proconsolare e della tribunicia potestas quinquennale o decennale e
inviato da Augusto in Germania, poiché i precedenti generali (Lucio Domizio Enobarbo, legato dal 3 all'1 a.C., e Marco Vinicio dall'1 al 3) non erano
riusciti a espandere ulteriormente la zona d'influenza romana rispetto alle
conquiste che Druso maggiore aveva portato a termine tra il 12 e il 9 a.C.
Tiberio desiderava inoltre riacquistare il favore delle truppe dopo un decennio
di assenza.
Dopo un trionfale viaggio durante il quale fu più volte festeggiato dalle
legioni che già aveva comandato in precedenza, Tiberio giunse in Germania, dove,
nel corso di due campagne svolte tra il 4 e il 5, occupò in modo permanente, con
nuove azioni militari, tutte le terre della zona settentrionale e centrale
comprese tra i fiumi Reno ed Elba.
Nel 4 sottomise Canninefati, Cattuari e
Bructeri, e riportò sotto il dominio romano i Cherusci, che se ne erano
sottratti. Assieme al legato Gaio Senzio Saturnino, decise di avanzare ancora di
più nel territorio germanico per superare il fiume Weser, e organizzò nel 5 una
grande operazione che prevedeva l'impiego delle forze terrestri e della flotta
proveniente dal Mare del Nord: poté così stringere in una morsa letale i
temibili Longobardi assieme a Cimbri, Cauci e Senoni, che furono costretti a
deporre le armi e ad arrendersi al potere di Roma.
L'ultimo atto necessario era quello di occupare anche la parte meridionale della
Germania, ovvero la Boemia dei Marcomanni di Maroboduo, al fine di completare il
progetto di annessione e portare il confine dal fiume Reno all'Elba.
Tiberio aveva progettato un complesso piano d'attacco che prevedeva l'impiego di
numerose legioni, quando scoppiò una grande rivolta in Dalmazia e Pannonia, che
fermò dunque l'avanzata di Tiberio e del suo legato Senzio Saturnino in Moravia.
La campagna, progettata come una "manovra a tenaglia", costituiva infatti una
grande operazione strategica in cui gli eserciti di Germania (2-3 legioni),
Rezia (2 legioni) ed Illirico (4-5 legioni) dovevano riunirsi in un punto
convenuto e sferrare l'ultimo attacco. Lo scoppio della rivolta dalmato-pannonica, però, impediva che le legioni dell'Illirico raggiungessero la
Germania, e c'era inoltre il rischio che Maroboduo si alleasse ai ribelli per
marciare contro Roma: Tiberio, dunque, quando era a pochi giorni di marcia dal
territorio nemico, concluse in fretta un trattato di pace con il capo marcomanno,
e si diresse al più presto in Illirico.
Nell'Illirico (6 - 9)
Dopo un quindicennio di relativa tranquillità, nel 6 l'intero settore dalmato-pannonico riprese le armi contro il potere di Roma: la causa della
nuova insurrezione era il malgoverno dei magistrati inviati da Roma a gestire le
province, che erano state vessate mediante l'imposizione di gravosi tributi.
L'insurrezione ebbe inizio nella zona sudorientale dell'Illirico, fra il popolo
dei dalmati Desiziati, comandati da un certo Batone, a cui si unirono le
tribù dei pannoni Breuci, sotto il comando di un certo Pinnes e di un secondo
Batone.
Con il timore di altre ribellioni ovunque nell'Impero, il reperimento delle
reclute diventò problematico, tanto da dover essere utilizzata la "ferma"
obbligatoria e nuove tassazioni per far fronte a una simile emergenza. Le
forze messe in campo dai Romani furono tanto ingenti, come dai tempi delle
guerre annibaliche o cimbriche di Gaio Mario non si ricordava: dieci legioni ed
oltre ottanta unità ausiliarie, pari a circa cento/centoventimila armati.
Tiberio mandò avanti i suoi luogotenenti perché sbarrassero la strada ai nemici
nel caso avessero deciso di marciare contro l'Italia: Marco Valerio Messalla
Messallino riuscì a sconfiggere un esercito di 20 000 uomini e si asserragliò a
Siscia, mentre Aulo Cecina Severo difese la città di Sirmium (Sirmio) evitandone
la caduta, e respinse Batone il Pannone presso il fiume Drava. Tiberio
giunse sul teatro della guerra sul finire dell'anno, quando gran parte del
territorio, ad eccezione di poche piazzeforti, era nelle mani dei ribelli, e
anche la Tracia era scesa in guerra a fianco dei Romani.
La campagna di Tiberio in Illirico nel 9. Poiché a Roma si temeva che Tiberio
indugiasse nella risoluzione del conflitto, nel 7 Augusto inviò presso di
lui Germanico in qualità di questore; il generale, intanto, meditava di
riunire gli eserciti romani impegnati della regione lungo il fiume Sava, in modo
tale da poter disporre di oltre dieci legioni. Da Sirmio, dunque, Cecina e Marco
Plauzio Silvano condussero l'esercito verso Siscia, sconfiggendo le forze
congiunte dei ribelli nella battaglia delle paludi Volcee. Ricongiunte le
forze, Tiberio inflisse ripetute sconfitte ai nemici, ristabilendo l'egemonia
romana sulla valle del Sava e consolidando le conquiste ottenute mediante la
costruzione di alcuni forti. Successivamente, in previsione dell'inverno, separò
nuovamente le legioni, inviandole a presidiare i confini, e trattenendone cinque
con sé a Siscia.
Nell'8 Tiberio riprese le manovre militari e sconfisse in agosto un nuovo
esercito pannone; a seguito della sconfitta, Batone il Pannone tradì Pinnes
consegnandolo ai Romani, ma fu poi catturato e giustiziato per ordine di Batone
il Dalmata, che prese il comando anche delle forze dei Pannoni. Tuttavia
Silvano, poco più tardi, riuscì a sconfiggere gli stessi pannoni Breuci, che
erano stati tra i primi popoli a ribellarsi. Iniziata ormai la penetrazione
romana in Dalmazia, Tiberio dispose le truppe in modo tale da poter sferrare
l'attacco finale nell'anno successivo.
Nel 9 Tiberio riprese le ostilità suddividendo in tre colonne l'esercito e
ponendosi assieme a Germanico alla guida di una di esse. Mentre i suoi
luogotenenti spegnevano gli ultimi residui focolari di ribellione, egli si
addentrò nel territorio dalmata alla ricerca del capo ribelle Batone il
Dalmata: ricongiuntosi con la colonna guidata dal nuovo legato Marco Emilio
Lepido, lo raggiunse nella città di Andretium, dove il ribelle si arrese ponendo
fine, dopo quattro anni, al conflitto.
Per la vittoria, Tiberio fu insiginito ancora una volta del titolo di imperator
e ottenne il trionfo, che celebrò tuttavia solo più tardi, mentre a
Germanico furono concessi gli ornamenta triumphalia.
Campagne di Tiberio del 10-12 d.C.
Nel 9, dopo
che Tiberio aveva brillantemente sconfitto i ribelli dalmati, l'esercito romano
di stanza in Germania, guidato da Publio Quintilio Varo, fu attaccato e
sconfitto in un'imboscata da un esercito germanico guidato da Arminio mentre
attraversava la selva di Teutoburgo. Tre legioni, costituite dagli uomini più
esperti e addestrati, furono totalmente annientate e le conquiste romane
oltre il Reno andarono perdute, poiché rimasero del tutto prive di un esercito
di guarnigione che le custodisse. Augusto, inoltre, temeva che dopo una simile
disfatta romana Galli e Germani, alleatisi, marciassero contro l'Italia;
fondamentale perché questo timore potesse risultare vano fu l'apporto del
sovrano dei Marcomanni Maroboduo, che tenne fede ai patti stipulati con Tiberio
nel 6 e rifiutò l'alleanza con Arminio.
Tiberio, pacificato l'Illirico, tornò a Roma, dove decise di posticipare la
celebrazione del trionfo che gli era stato tributato in modo tale da rispettare
il lutto imposto per la disfatta di Varo. Il popolo avrebbe comunque
desiderato che prendesse un soprannome, come Pannonico, Invitto o Pio, che
ricordasse le sue grandi imprese; Augusto, tuttavia, respinse le richieste
rispondendo che un giorno avrebbe preso anch'egli l'appellativo di Augusto,
e poi lo inviò sul Reno, per evitare che il nemico germanico attaccasse la
Gallia e che le province appena pacificate potessero rivoltarsi nuovamente
ancora una volta in cerca dell'indipendenza.
Giunto in Germania, Tiberio poté constatare la gravità della disfatta di Varo e
delle sue conseguenze, che impedivano di progettare una nuova riconquista delle
terre che andavano fino all'Elba. Adottò, dunque, una condotta
particolarmente prudente, prendendo ogni decisione assieme al consiglio di
guerra ed evitando di far ricorso, per la trasmissione di messaggi, a uomini del
luogo come interpreti; sceglieva allo stesso modo con cura i luoghi in cui
erigere gli accampamenti, in modo tale da fugare qualsiasi pericolo di rimanere
vittima di una nuova imboscata; mantenne, infine, tra i legionari una
disciplina ferrea, punendo in modo estremamente rigoroso tutti coloro che
trasgredivano i suoi rigidi ordini. In questo modo poté ottenere numerose
vittorie e confermare il confine lungo il fiume Reno, mantenendo fedeli a Roma i
popoli germanici, tra cui Batavi, Frisoni e Cauci, che abitavano quei luoghi.
La successione (12 - 14)
-
La
successione fu una delle più grandi preoccupazioni della vita di Augusto, spesso
affetto da malattie che avevano fatto più volte temere una sua morte prematura.
Il princeps aveva sposato nel 42 a.C. Clodia Pulcra, figliastra di Antonio, ma
l'aveva poi ripudiata l'anno successivo (41 a.C.), per sposare prima Scribonia
e, poco dopo, Livia Drusilla.
Per alcuni anni Augusto sperò di avere come erede il nipote Marco Claudio
Marcello, figlio di sua sorella Ottavia, che fece sposare con sua figlia Giulia,
nel 25 a.C. Marcello fu così adottato, ma morì ancora in giovanissima età
due anni più tardi. Augusto costrinse allora Agrippa a sposare la giovanissima
Giulia, scegliendo dunque come successore il fidato amico, cui attribuì l'imperium
proconsolare e la tribunicia potestas. Tuttavia anche Agrippa morì prima di
Augusto, nel 12 a.C., mentre si distinguevano per le loro imprese Druso,
favorito dello stesso Augusto, e Tiberio. Dopo la prematura morte di Druso,
il princeps diede la figlia Giulia in sposa a Tiberio, ma adottò i figli di
Agrippa, Gaio e Lucio Cesare: anche'essi morirono però in giovane età, non
senza che si sospettasse un coinvolgimento di Livia. Augusto, dunque, non poté
che adottare Tiberio, poiché l'unico altro discendente diretto di sesso maschile
ancora in vita, il figlio di Agrippa, Agrippa Postumo, appariva brutale e del
tutto privo di buone qualità, ed era stato mandato al confino nell'isola di
Pianosa.
Secondo Svetonio, tuttavia, Augusto, per quanto affezionato al figliastro,
ne biasimava spesso alcuni aspetti, ma scelse comunque di adottarlo per più
motivi:
« [...] E non ignoro nemmeno che, secondo alcuni, [...] acconsentì ad adottarlo
solo per le preghiere di sua moglie, e anche spinto dal desiderio di farsi
maggiormente rimpiangere, dandosi un simile successore. Non posso però credere
che quel principe tanto circospetto e prudente abbia agito alla leggera in un
caso di così grande importanza; credo piuttosto che
abbia accuratamente pesato
le virtù e i vizi di Tiberio e trovato maggiori le virtù, soprattutto tenendo
conto che aveva giurato in assemblea di adottarlo nell'interesse dello stato, e
che in molte sue lettere lo celebrò come un grande comandante militare e l'unico
sostegno del popolo romano. [...] »
(Svetonio, Tiberio, 21; trad. di Felice Dessì, Vite dei Cesare, BUR.)
Tiberio, dunque, dopo aver portato a termine le operazioni in Germania, celebrò
in Roma il trionfo per la campagna in Dalmazia e Pannonia nell'ottobre del
12, in occasione del quale si prostrò pubblicamente di fronte ad Augusto e ottenne nel 13 il rinnovo della tribunicia potestas e l'imperium
proconsulare maius, titoli che ne completavano di fatto la successione,
elevandolo al rango effettivo di coreggente, insieme allo stesso
Augusto: poteva, dunque, amministrare le province, comandare gli eserciti, ed
esercitare pienamente il potere esecutivo. Tuttavia già dal momento della sua
adozione Tiberio aveva iniziato a prendere parte attiva al governo dello stato,
coadiuvando il patrigno nella promulgazione delle leggi e nell'amministrazione.
Nel 14, Augusto, ormai prossimo alla morte, chiamò con sé Tiberio sull'isola di
Capri: l'erede, che non ci era mai stato, ne rimase profondamente affascinato.
Lì si decise che Tiberio si sarebbe nuovamente recato in Illirico per dedicarsi
alla riorganizzazione amministrativa della provincia; i due ripartirono assieme
per Roma, ma Augusto, colto da un improvviso malore, fu costretto a fermarsi
nella sua villa di Nola, l'Octavianum, mentre Tiberio proseguì per l'Urbe e
partì poi per l'Illirico, com'era stato concordato. Proprio mentre si
avvicinava alla provincia Tiberio fu urgentemente richiamato indietro perché il
patrigno, che non si era più potuto spostare da Nola, era ormai in fin di
vita. L'erede poté giungere da Augusto e i due tennero assieme ancora un
ultimo colloquio, prima che il principe morisse. Secondo altre versioni,
invece, Tiberio giunse a Nola quando Augusto era già morto.
Tiberio annunciò dunque la morte di Augusto, mentre sopraggiungeva anche la
notizia del misterioso assassinio di Agrippa Postumo da parte del centurione
addetto alla sua custodia. Temendo inoltre eventuali attentati alla sua
persona, Tiberio si attribuì una scorta militare, e convocò il senato per il 17
settembre perché si discutesse delle onoranze funebri da rendere ad Augusto e se
ne leggesse il testamento: egli lasciava come eredi del suo patrimonio Tiberio e Livia (che assumeva il nome di Augusta), ma assegnava numerosi donativi anche al
popolo di Roma e ai legionari che militavano negli eserciti. I senatori
decisero allora di tributare solenni onoranze funebri al princeps defunto, il
cui corpo fu cremato nel Campo Marzio, e iniziarono poi a rivolgere
preghiere a Tiberio perché assumesse il ruolo e il titolo che era stato di suo
padre, e guidasse dunque lo stato romano. Tiberio inizialmente rifiutò, secondo
Tacito e Svetonio volendo in realtà essere supplicato dai senatori,
perché non sembrasse che il governo dello stato subisse svolte in senso
autocratico e perché il sistema repubblicano rimanesse almeno formalmente
intatto. Alla fine Tiberio accettò l'offerta dei senatori, prima di irritarne
gli stessi animi, probabilmente essendosi reso conto che vi era l'assoluta
necessità di un'autorità centrale: il corpo (l'Impero) aveva bisogno di una
testa (Tiberio). Risulta, pertanto, più probabile la tesi sostenuta dagli autori filotiberiani,
che raccontano che le esitazioni di Tiberio nell'assumere la guida dello stato
furono dettate da una reale modestia, più che da una premeditata strategia,
forse suggerita dallo stesso Augusto.
Dopo la seduta del Senato del 17 settembre del 14, dunque, Tiberio divenne il
successore di Augusto alla guida dello stato romano, mantenendo la tribunicia
potestas e l'imperium proconsulare maius insieme agli altri poteri di cui aveva
usufruito Augusto, e assumendo il titolo di princeps. Rimase imperatore per
quasi ventitré anni, fino alla sua morte, nel 37. Il suo primo atto fu quello
ratificare la divinizzazione di suo padre adottivo, Augusto (divus Augustus),
come in precedenza era stato fatto con Gaio Giulio Cesare, confermandone inoltre
il lascito ai soldati.
Fin dall'inizio del suo principato, Tiberio si trovò a dover convivere con
l'incredibile prestigio che Germanico, il figlio di suo fratello, Druso
maggiore, che egli stesso aveva adottato per ordine di Augusto, andava
acquisendo presso tutto il popolo di Roma. Quando questi ebbe portato a
termine le sue campagne sul fronte settentrionale, dove si era guadagnato la
stima dei suoi collaboratori e dei legionari, riuscendo a recuperare due delle
tre Aquile legionarie perdute nella battaglia di Teutoburgo, la sua
popolarità era tale da consentirgli, se avesse voluto, di prendere il potere
scacciando il padre adottivo, che in alcuni contesti era già malvisto poiché la
sua ascesa al principato era stata segnata dalla morte di tutti gli altri
parenti che Augusto aveva indicato come eredi. Il risentimento spinse
quindi Tiberio ad affidare al figlio adottivo uno speciale compito in Oriente,
in modo da allontanarlo ulteriormente da Roma; il Senato decise di conseguenza
di conferire al giovane l'imperium proconsulare maius su tutte le province
orientali. Tiberio, tuttavia, non aveva fiducia in Germanico, che in
Oriente si sarebbe trovato lontano da qualsiasi controllo ed esposto alle
influenze dell'intraprendente moglie Agrippina maggiore, e decise dunque di
affiancargli un uomo di sua fiducia: la scelta di Tiberio ricadde su Gneo
Calpurnio Pisone, che era stato collega nel consolato dello stesso Tiberio nel 7
a.C., aspro ed inflessibile. Germanico, dunque, partì nel 18 verso l'Oriente
assieme a Pisone, che fu nominato governatore della provincia di Siria.
Germanico, tornato in Siria nel 19 dopo aver soggiornato in Egitto
durante l'inverno, entrò in aperto conflitto con Pisone, che aveva annullato
tutti i provvedimenti che il giovane figliastro di Tiberio aveva preso; Pisone, in risposta, decise di lasciare la provincia per fare ritorno a Roma.
Poco dopo la partenza di Pisone, Germanico cadde malato ad Antiochia e morì il
10 ottobre dopo lunghe sofferenze; prima di spirare, lo stesso Germanico
confessò la propria convinzione di essere stato avvelenato da Pisone, e rivolse
un'ultima preghiera ad Agrippina affinché vendicasse la sua morte.
Officiati i funerali, dunque, Agrippina tornò con le ceneri del marito a Roma,
dove grandissimo era il compianto di tutto il popolo per il defunto.
Tiberio, tuttavia, evitò di manifestare pubblicamente i suoi sentimenti, e non
partecipò neppure alla cerimonia in cui le ceneri di Germanico furono riposte
nel mausoleo di Augusto. In effetti Germanico potrebbe essere deceduto di
morte naturale, ma la popolarità crescente enfatizzò molto l'avvenimento, che
comunque è anche ingigantito dallo storico Tacito.
Subito, però, si manifestò il sospetto, alimentato dalle parole pronunciate da
Germanico morente, che fosse stato Pisone a causarne la morte avvelenandolo. Si
diffuse dunque anche la voce di un coinvolgimento dello stesso Tiberio, quasi
fosse il mandante del delitto di Germanico, avendo lo stesso scelto
personalmente di inviare Pisone in Siria: quando dunque lo stesso Pisone fu processato, accusato anche di aver commesso numerosi reati in
precedenza, l'imperatore tenne un discorso particolarmente moderato, in cui
evitò di schierarsi a favore o contro la condanna del governatore. A Pisone non
poté comunque essere imputata l'accusa di veneficio, che appariva, anche agli
accusatori, impossibile da dimostrare; il governatore, tuttavia, certo di dover
essere condannato per gli altri reati che aveva commesso, decise di suicidarsi
prima che venisse emesso un verdetto.
La popolarità di Tiberio, dunque, uscì danneggiata dall'episodio, proprio perché
Germanico era molto amato. Tacito scrisse così di lui, decenni dopo la sua
morte:
« [Germanico] ...giovane, aveva sentimenti liberali ed una straordinaria
affabilità, che contrastava con il linguaggio e l'atteggiamento di Tiberio,
sempre arroganti e misteriosi... »
(Tacito, Annales, I, 33)
I due, infatti, avevano modi di fare
particolarmente contrastanti: Tiberio si distingueva per la freddezza, la
riservatezza e pragmatismo, Germanico per la sua popolarità, la semplicità ed il
fascino.
Il Syme sostiene che sia indubbiamente vero che Tiberio scelse Pisone quale suo
confidente, conferendogli un secreta mandata per evitare che la giovane età
dell'erede al trono potesse portare Germanico ad una inutile e dispendiosa
guerra contro i Parti. La situazione, però, sfuggì di mano a Pisone, forse anche
a causa degli attriti tra le mogli del legato imperiale e del detentore dell'imperium
proconsolare, tanto che l'inimicizia tra i due degenerò in un conflitto aperto.
E la successiva morte di Germanico, non fece altro che determinare ripercussioni
negative sulla figura del princeps nella storiografia successiva
Successione di Druso (19-23)
La morte di Germanico aprì la strada
per la successione all'unico figlio naturale di Tiberio, Druso, che aveva, fino
a quel momento, accettato un ruolo secondario rispetto al cugino Germanico.
Egli era soltanto di un anno più giovane del defunto, ma ugualmente abile, come
risulta dal modo con cui fronteggiò la rivolta in Pannonia.
Intanto, Lucio Elio Seiano, nominato prefetto del Pretorio insieme al padre nel
16, riuscì presto a conquistarsi la fiducia di Tiberio. Accanto a Druso, dunque,
favorito per la successione, si andò a collocare anche la figura di Seiano, che
acquisì un grande influsso sull'opera di Tiberio: il prefetto del Pretorio,
infatti, che mostrava nel carattere una riservatezza del tutto simile a quella
dell'imperatore, era invece animato da un forte desiderio di potere, e ambiva
lui stesso a divenire il successore di Tiberio. Seiano vide inoltre
crescere enormemente il suo potere quando le nove coorti pretoriane furono
raggruppate nella stessa città di Roma, presso la Porta Viminalis. Tra
Druso e Seiano si venne quindi a creare una situazione di aperta rivalità;
il prefetto, allora, iniziò a meditare l'ipotesi di assassinare Druso e gli
altri possibili successori di Tiberio, sedusse la moglie dello stesso
Druso, Claudia Livilla e intraprese con lei una relazione. Poco tempo dopo,
nel 23, lo stesso Druso morì avvelenato; l'opinione pubblica arrivò a
sospettare, pur senza alcun fondamento, che potesse essere stato Tiberio a
ordinare l'assassinio di Druso, ma appariva più verosimile che vi fosse stata
coinvolta Claudia Livilla. Otto anni più tardi Tiberio venne a sapere che
ad uccidere il figlio era stata proprio la nuora Livilla, insieme al suo più
fidato consigliere, Seiano.
Dopo Druso: il ritiro a Capri e l'ascesa di Seiano (23-31)
Tiberio, dunque, si trovò ancora una volta, all'età di 64 anni, privo di un
erede, perché i gemelli di Druso, nati nel 19, erano troppo giovani, ed uno di
loro era morto poco dopo il padre. Scelse allora di proporre come suoi
successori i giovani figli di Germanico, che erano stati adottati da Druso e che
Tiberio pose sotto la tutela dei senatori. Seiano ebbe, allora, un potere sempre
maggiore, tanto da poter sperare di divenire imperatore egli stesso dopo la
morte di Tiberio, e iniziò una serie di persecuzioni prima contro i figli e la
moglie di Germanico, Agrippina, poi verso gli amici dello stesso Germanico;
molti di loro furono infatti costretti all'esilio, o scelsero di darsi la morte
per evitare una condanna.
Tiberio, addolorato per la morte del figlio ed esasperato per l'ostilità del
popolo di Roma, nel 26 decise di ritirarsi prima in Campania e l'anno successivo
a Capri su consiglio dello stesso Seiano, per non fare mai più ritorno
nell'Urbe. Egli aveva già sessantasette anni e sembra che il piano di
allontanarsi da Roma lo accarezzasse già da diverso tempo. Si racconta che dopo
aver visto il figlio morire agonizzante, avesse parlato di dimettersi. Non
poteva più sopportare di vedere intorno a sé gente che gli ricordava Druso,
senza dimenticare che la vicinanza della madre Livia era divenuta per lui
insopportabile. Una malattia che gli sfigurava il viso ne aveva, infine,
aumentato la suscettibilità e l'ombrosità del carattere. Ma il suo ritiro fu un
errore molto grave, sebbene Tiberio non avesse diminuito la cura con cui
affrontava i problemi dell'Impero dalla villa di Capri.
Il prefetto del pretorio, intanto, godendo della totale fiducia
dell'imperatore, prese il controllo di tutte le attività politiche,
divenendo rappresentante
incontrastato del potere imperiale. Egli era
riuscito, inoltre, a convincere il princeps a concentrare tutte le nove coorti
pretorie, in precedenza distribuite tra Roma ed altre città italiche, nell'Urbe
(presso il Castro Pretorio) a sua totale disposizione, ora che Tiberio aveva
lasciato Roma.
Tiberio, invece, si impegnò a mantenersi informato sulla vita politica di Roma,
e riceveva regolarmente missive che lo informavano delle discussioni intraprese
in senato; egli stesso, grazie all'istituzione di un vero e proprio servizio
postale, poteva esprimere il proprio parere, ed era anche in grado di impartire
ordini ai suoi emissari nell'Urbe. L'allontanamento di Tiberio da Roma
portò, comunque, a una progressiva esautorazione del senato, a tutto vantaggio
dell'imperatore stesso e di Seiano.
Il prefetto del pretorio, infatti, iniziò a perseguitare i propri oppositori
accusandoli di lesa maestà ed eliminandoli, dunque, dalla scena politica; grande
credito acquisirono i delatori, ovvero coloro che fungevano da accusatori, e
permettevano la condanna dell'imputato. Una tale situazione portò alla
creazione di un clima di generale sospetto, che, a sua volta, fomentò
ulteriormente le voci sul coinvolgimenti dell'imperatore nei numerosi processi
politici intentati da Seiano e dai suoi collaboratori.
Nel 29, quando Livia Drusilla,
madre di Tiberio, che con il suo carattere autoritario aveva sempre influenzato il
governo, morì all'età di ottantasei anni, il figlio si rifiutò di far
ritorno a Roma per le esequie e proibì la sua divinizzazione. Seiano,
allora, poté procedere indisturbato in una serie di azioni contro Agrippina
maggiore e il suo figlio primogenito Nerone: contro il giovane furono
riversate numerose accuse infamanti, tra cui quella di tentata sovversione, ed
egli fu dunque condannato al confino sull'isola di Ponza, dove morì nel 30
patendo la fame. Agrippina, invece, accusata di adulterio, fu deportata
nell'isola Pandataria dove morì nel 33.
Nei progetti di Seiano rientrava appunto il proposito di assicurarsi la successione nel ruolo di
imperatore. Eliminati i discendenti diretti di Tiberio, il prefetto era ormai
l'unico candidato alla successione: dopo aver già tentato inutilmente di
imparentarsi con l'imperatore sposando la vedova di Druso minore Claudia Livilla,
iniziò ad aspirare al conferimento della tribunicia potestas, che avrebbe
formalmente sancito la sua successiva nomina ad imperatore, rendendo la sua
persona sacra e inviolabile, e ottenne, intanto, nel 31 il consolato assieme
allo stesso Tiberio. Contemporaneamente, però, la vedova di Druso
maggiore, Antonia minore, facendosi portavoce dei sentimenti di gran parte della
classe senatoriale, comunicò in una lettera a Tiberio tutti gli intrighi e i
fatti di sangue di cui Seiano, che stava ordendo una cospirazione ai danni dello
stesso imperatore, era responsabile; Tiberio, allertato decise allora di
destituire il potente prefetto, e organizzò un'abile manovra con l'aiuto del
prefetto dell'Urbe Macrone.
Per non destare sospetti, l'imperatore nominò Seiano pontefice, promettendo di
conferirgli al più presto la tribunicia potestas; contemporaneamente, però,
lasciò anticipatamente la carica di console, costringendo così anche il collega
a rinunciarvi. Il 17 ottobre del 31, infine, Tiberio, nominato segretamente
prefetto del pretorio il prefetto dell'Urbe e capo delle coorti urbane Macrone,
lo inviò a Roma con l'ordine di accordarsi con Grecinio Lacone, prefetto dei
Vigiles, e col nuovo console designato Publio Memmio Regolo, affinché convocasse
per il giorno successivo il senato nel tempio di Apollo, sul Palatino. In tal
modo Tiberio, garantendosi il sostegno delle coorti urbane e dei vigili, si era
premunito contro un'eventuale reazione dei pretoriani in favore di Seiano.
Quando Seiano giunse in Senato, venne informato da Macrone dell'arrivo di una
lettera di Tiberio annunciante il conferimento della potestà tribunizia.
Così, mentre questi prendeva giubilante il proprio posto tra i senatori, Macrone,
rimasto fuori dal tempio, allontanò i pretoriani di guardia facendoli sostiuire
dai vigili di Lacone. Poi, consegnata la lettera di Tiberio al console perché la
leggesse al Senato, raggiunse i castra praetoria per annunciare la propria
nomina a prefetto del pretorio. Nella lettera, volutamente molto lunga e
vaga, Tiberio trattava di vari argomenti, di tanto in tanto intessendo le lodi
di Seiano, a volte muovendogli qualche critica; solo alla fine, l'imperatore
accusava all'improvviso il prefetto di tradimento, ordinandone la destituzione e
l'arresto. Seiano, sbigottito per l'inatteso voltafaccia venne
immediatamente condotto via in catene dai vigiles e poco dopo sommariamente
processato dal Senato riunito nel tempio della Concordia: fu condannato a
morte e alla damnatio memoriae.
La sentenza venne eseguita nella stessa notte nel Carcere Mamertino per
strangolamento, e il corpo esanime del prefetto fu poi lasciato al popolo, che
ne fece scempio trascinandolo per le strade dell'Urbe. A seguito dei
provvedimenti che Seiano aveva preso contro Agrippina e la famiglia di
Germanico, infatti, la plebe aveva sviluppato una forte avversione nei confronti
del prefetto. Il Senato dichiarò il 18 ottobre festa pubblica, ordinando
l'innalzamento di una statua alla Libertà con la seguente dedica:
« Saluti perpetuae Augustae Libertatique populi romani Providentia Ti. Caesaris
Augusti nati ad aeternitatem romani nominis, sublato hoste perniciosissimo »
« Alla salute del perpetuo Augusto e alla Libertà del popolo romano, per la
Provvidenza di Tiberio Cesare, figlio di Augusto, per l'eternità della gloria di
Roma, [essendo stato] eliminato il pericolosissimo nemico. »
(Dedica del Senato a Tiberio.)
Pochi giorni più tardi furono brutalmente strangolati nel Carcere Mamertino i
tre giovani figli del prefetto; la sua ex-moglie, Apicata, si suicidò, dopo
aver inviato una lettera a Tiberio rivelando le colpe di Seiano e Claudia
Livilla in occasione della morte di Druso minore. Livilla fu dunque
processata, e, per evitare una sicura condanna, si lasciò morire di fame.
Alla morte di Seiano e dei suoi familiari seguirono poi una serie di processi
contro gli amici e i collaboratori del defunto prefetto, che furono condannati a
morte o costretti al suicidio
Gli ultimi anni: un nuovo esilio (31-37) -
Tiberio, intanto, trascorse l'ultima parte del suo regno sull'isola di Capri,
circondato da uomini di studio, giuristi, letterati ed anche astrologi: lì
fece costruire dodici ville, per poi risiedere in quella che preferiva, la Villa Jovis. Tacito e Svetonio raccontano che a Capri Tiberio poté lasciare libero
sfogo ai suoi inenarrabili vizi, abbandonandosi alla gola e alla sfrenata
libidine; sembra tuttavia più verosimile che Tiberio abbia mantenuto la sua
consueta riservatezza, evitando gli eccessi come aveva sempre fatto, non
trascurando i propri doveri nei confronti dello Stato e continuando a lavorare
nel suo interesse.
Dopo la caduta di Seiano si riaprì la questione della successione, e nel 33
anche Druso Cesare, il maggiore dei figli di Germanico rimasti in vita, morì di
inedia dopo essere stato condannato al confino nel 30 con l'accusa di aver
cospirato contro Tiberio. Quando Tiberio, nel 35, depositò il suo
testamento, potendo scegliere tra tre possibili eredi, incluse nel testamento il
nipote Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, e il nipote collaterale Gaio,
figlio di Germanico. Restò dunque escluso dal testamento il fratello dello
stesso Germanico, Claudio, che era considerato del tutto inadatto al ruolo di princeps, in quanto debole di corpo e di dubbia sanità mentale. Il favorito
nella successione apparve subito il giovane Gaio di venticinque anni, meglio
noto come Caligola, poiché Tiberio Gemello, peraltro sospettato di essere in
realtà figlio di Seiano (per le relazioni adulterine con la moglie di Druso
minore, Claudia Livilla), aveva dieci anni di meno: due ragioni sufficienti
per non lasciargli il Principato. Il prefetto del pretorio Macrone, infatti,
dimostrò subito la sua simpatia per Gaio, guadagnandosene con ogni mezzo la
fiducia.
Nel 37, Tiberio lasciò Capri, come aveva già fatto in precedenza, forse con
l'idea di rientrare finalmente in Roma per trascorrervi i suoi ultimi giorni;
intimorito però dalle reazioni che il popolo avrebbe avuto, si fermò a sole
sette miglia dall'Urbe, e decise di tornare indietro verso la Campania. Qui
fu colto da malore, e trasportato nella villa di Lucullo a Miseno; dopo un
iniziale miglioramento, il 16 marzo cadde in uno stato di delirio e fu creduto
morto. Mentre molti già si apprestavano a festeggiare l'ascesa di Caligola,
Tiberio si riprese ancora una volta, suscitando scompiglio tra coloro che
avevano già acclamato il nuovo imperatore; il prefetto Macrone, tuttavia,
mantenendo la lucidità, ordinò che Tiberio fosse soffocato tra le
coperte. Il vecchio imperatore, debole e incapace di reagire, spirò
all'età di settantasette anni.
La plebe romana reagì con grande gioia alla notizia della morte di Tiberio,
festeggiandone la scomparsa. Molti monumenti che celebravano le imprese
dell'imperatore furono distrutti, così come numerose statue che lo
raffiguravano. In molti tentarono di far cremare il corpo di Tiberio a Miseno,
ma fu comunque possibile trasportarlo a Roma, dove fu cremato nel Campo Marzio e
sepolto, tra le ingiurie, nel Mausoleo di Augusto il 4 aprile, presidiato dai
pretoriani. Mentre l'imperatore defunto riceveva queste modeste onoranze
funebri il 29 marzo, Caligola era già stato acclamato princeps dal senato.
Politica interna
-
Tiberio
non si distinse mai per nessuna tendenza al rinnovamento. Durante il suo regno
dimostrò, anzi, un rigido rispetto per la tradizione augustea, cercando di
osservare tutte le istruzioni di Augusto. Suo scopo era quello di salvaguardare
l'Impero, assicurandone la tranquillità interna ed esterna, oltre a consolidare
il nuovo ordinamento evitando, tuttavia, che esso assumesse le caratteristiche
di un dominato. Per mettere in atto questo suo piano utlilizzò quali
collaboratori e consiglieri personali molti di quegli ufficiali che lo avevano
seguito nel corso delle lunghe e numerose campagne militari, durate quasi
quarant'anni. Si può aggiungere che l'amministrazione dello stato durante i
primi anni di principato fu riconosciuta da tutti ottima per buon senso e
moderazione. Lo stesso Tacito apprezzò le capacità del nuovo princeps almeno
fino alla morte del figlio Druso avvenuta nel 23.
La stessa cosa dicasi nelle relazioni tra Tiberio e la nobilitas senatoriale,
che furono, tuttavia, diverse da quelle instauratesi con Augusto. Il nuovo
imperatore, infatti, appariva, per meriti ed ascendenze, diverso dal patrigno,
che aveva posto fine alle guerre civili, riportato la pace all'impero, e
ottenuto di conseguenza una grandissima autorevolezza. Tiberio dovette
quindi basare il rapporto tra princeps e nobiltà senatoriale su una moderatio
che accresceva il potere di entrambi, sovrapponendolo a quello del tradizionale
ordine gerarchico; stabilì, inoltre, una netta distinzione tra gli onori
che andavano tributati agli imperatori viventi e il culto di quelli defunti
divinizzati.
Nonostante questi provvedimenti, che contribuivano a mantenere in
vita la "finzione repubblicana", non mancarono, accanto agli adulatori,
esponenti della classe senatoriale che osteggiarono fortemente l'opera di
Tiberio. Tuttavia nei primi anni Tiberio, seguendo il modello augusteo,
cercò sinceramente una cooperazione con il senato, partecipando sovente alle sue
sedute e rispettandone la libertà di discussione, consuldandolo anche su
questioni che era in grado di risolvere da solo ed ampliandone le stesse
funzioni amministrative. Egli sosteneva infatti che il buon princeps deve
servire il senato (bonum et salutarme principem senatui servire debere).
Le magistrature conservarono, comunque, la loro dignità, e il senato, che
Tiberio consultava spesso prima di prendere decisioni in qualsiasi ambito, fu
favorito mediante più provvedimenti:
- sebbene fosse consuetudine che l'imperatore segnalasse alcuni candidati alle
magistrature, le elezioni avevano continuato a svolgersi, almeno formalmente,
nell'assemblea dei comizi centuriati. Tiberio decise di porre fine alla
consuetudine, e assegnò ai senatori il compito di eleggere i magistrati;
- allo stesso modo, Tiberio decise di assegnare ai senatori il compito di
giudicare i senatori stessi o i cavalieri di alto rango che si fossero macchiati
di reati particolarmente gravi, come l'omicidio o il tradimento;
- i senatori furono anche incaricati di giudicare, senza l'intervento
dell'imperatore, l'operato dei governatori di provincia;
- al senato, infine, fu assegnata la giurisdizione in campo religioso e sociale
su tutta l'Italia.
Durante il periodo della sua permanenza a Capri, tuttavia, Tiberio, per evitare
che il senato prendesse provvedimenti a lui non graditi, soprattutto nell'ambito
dei numerosi processi di lesa maestà condotti da Seiano, stabilì che ogni
decisione approvata dal senato dovesse essere applicata soltanto dieci giorni
più tardi, in modo da avere egli stesso la possibilità di controllare,
nonostante la lontananza da Roma, l'attività dei senatori.
Il principe si consultava spesso con il senato tramite i senatus consulta,
talvolta su questioni fuori della sua competenza, ad esempio sulle questioni di
carattere religioso, ambito nel quale Tiberio mostrò una particolare avversione
per i culti orientali: nel 19 furono infatti resi illegali i culti caldei e
giudaici, e coloro che li professavano furono costretti all'arruolamento o
espulsi dall'Italia. Ordinò di bruciare ogni paramento e oggetto sacro
adoperato per i culti in questione e, mediante l'arruolamento, poté inviare i
giovani di religione ebraica nelle regioni più lontane e malsane, in modo da
infliggere un duro colpo alla diffusione del culto.
Tiberio riformò almeno in parte l'ordinamento augusteo contro il celibato,
incentrato sulla lex Papia Poppea: egli, pur senza abolire le disposizioni del
patrigno, nominò una commissione che si occupò di riformare l'ordinamento e di
rendere meno severe le pene da comminare ai celibi, o a coloro che, pur sposati,
non avevano figli; furono, tuttavia, ugualmente presi dei provvedimenti che
tenessero a freno il lusso e garantissero la moralità dei costumi.
Tra i provvedimenti più importanti rientra, poi, l'approvazione della lex de
maiestate, che prevedeva che fossero perseguibili e passibili di condanna tutti
coloro che avessero recato offesa alla maestà del popolo romano. Sulla base di
una legge tanto vaga poteva ritenersi colpevole sia chi si fosse reso
responsabile di una sconfitta militare o di una sedizione, sia chi avesse male
amministrato lo stato. La legge, che tornava in vigore dopo essere stata
abrogata, divenne presto uno strumento nelle mani dell'imperatore, del senato, e
soprattutto del prefetto Seiano, per incriminare gli oppositori politici.
Tiberio, tuttavia, si mostrò più volte contrario alle sentenze politiche,
evitando che i processi fossero determinati da raccomandazioni e incitando più
volte i magistrati ad agire in totale onestà.
Amministrazione finanziaria e
provinciale - Tiberio risultò eccellente nella gestione
finanziaria, tanto da lasciare alla sua morte un avanzo memorabile nelle casse
dello stato: per fare solo pochi esempi, i beni del re Archelao di Cappadocia
divennero proprietà imperiale, come pure alcune miniere della Gallia della
moglie Giulia, una miniera d'argento tra i Ruteni, una d'oro di un certo Sesto
Mario in Spagna confiscata nel 33, ed altre ancora. Affidò l'amministrazione del
patrimonio dello stato a funzionari particolarmente oculati, il cui incarico
durava spesso fino alla vecchiaia; fu sempre
pronto e generoso nell'intervento in ogni circostanza interna difficile, come
durante le carestie che la plebe urbana patì o come quando nel 36 costituì un
sussidio, in seguito ad un incendio sull'Aventino, di cento milioni di sesterzi.
Nel 33, dopo aver preso alcuni provvedimenti contro l'usura, riuscì ad attenuare
una grave crisi agraria e finanziaria provocata da una riduzione della
circolazione monetaria, istituendo con il proprio patrimonio personale un fondo
di prestito di altri cento milioni di sesterzi, dal quale i debitori potevano
attingere per tre anni senza interessi, purché possedessero, a garanzia, terreni
di valore doppio rispetto alla somma chiesta in prestito. Egli,
appena possibile, cercò di razionalizzare la spesa pubblica per gli spettacoli
riducendo le paghe degli attori e diminuendo il numero delle coppie di
gladiatori che partecipavano ai giochi; ridusse di conseguenza dall'1% allo 0,5%
l'impopolare tassa sulle vendite, e lasciò, alla sua morte, 2.700 milioni di
sesterzi nelle casse del Tesoro. Ai governatori provinciali che lo invitavano a
imporre nuove imposte, egli si oppose fermamente, rispondendo che è compito del
buon pastore tosare le pecore, non scorticarle.
Seppe scegliere, inoltre, degli amministratori competenti e curò in modo
particolare il governo delle province. I governatori che avevano ottenuto buoni
risultati e che si erano dunque distinti per onestà e abilità poterono, infatti,
spesso ricevere delle proroghe al mandato. Tacito, tuttavia, vide in quest'uso
la volontà da parte dell'indeciso Tiberio di allontanare da sé la preoccupazione
del governo delle province e di evitare che più persone potessero godere dei
benefici che derivavano dall'aver ricoperto un'alta magistratura. La riscossione
delle imposte nelle province fu affidata ai cavalieri, che si organizzavano in
apposite società d'appalto; Tiberio evitò in ogni modo l'imposizione di nuove
tasse ai provinciali, e scongiurò in questo modo il pericolo di rivolte. Fece, infine, costruire strade in Africa, in
Spagna soprattutto nella parte nord-ovest, in Dalmazia e Mesia fino alle Porte
di ferro lungo il Danubio, ed altre furono riparate come in Gallia Narbonense.
Politica estera e militare
-
Tiberio si
mantenne fedele al consilium coercendi intra terminos imperii di Augusto, ovvero
alla decisione di mantenere i confini dell'impero invariati, cercando di
salvaguardare i territori interni e di assicurarne la tranquillità ed operò
soltanto i cambiamenti necessari per la sicurezza. Egli riuscì ad evitare
guerre o spedizioni militari inutili, con le conseguenti spese, riponendo una
fiducia maggiore nella diplomazia. Allontanò i re clienti e i governatori che si
erano rivelati inadatti al loro ruolo, e cercò di garantire un sistema
amministrativo più efficiente. Le uniche modifiche territoriali interessarono,
infatti, il solo Oriente, quando alla morte dei re clienti, Cappadocia, Cilicia
e Commagene furono incorporate nei confini imperiali. Tutte le rivolte che
si susseguirono nel suo lungo principato, durato 23 anni, furono soffocate nel
sangue dai suoi generali, come quella di Tacfarinas e dei suoi Musulami dal 17
al 24, o in Gallia di Giulio Floro e Giulio Sacroviro nel 21, o in Tracia tra i
re clienti degli Odrisi attorno al 21.
Durante l'impero di Tiberio, le forze militari erano dislocate con la seguente
disposizione: la tutela dell'Italia era affidata a due flotte, quella di Ravenna
e quella di Capo Miseno, e Roma, in particolare, era difesa dalle nove coorti
pretorie, che Seiano fece riunire in un accampamento alle porte dell'Urbe, e da
tre coorti urbane. Il nordovest dell'Italia era invece presidiato da
un'ulteriore flotta, all'ancora sulle coste della Gallia, costituita dalle navi
rostrate che Augusto aveva catturato ad Azio. Le restanti forze erano stanziate
nelle province, con l'obiettivo di salvaguardare i confini e reprimere eventuali
rivolte interne: otto legioni erano schierate nella zona del Reno a protezione
dalle invasioni germaniche e dalle rivolte galliche, tre legioni si trovavano in
Spagna, e due tra le province dell'Egitto e dell'Africa, dove Roma poteva anche
contare sull'aiuto del regno di Mauretania. Ad Oriente, quattro legioni erano
stanziate tra la Siria e il fiume Eufrate. Nell'Europa orientale, infine, due
legioni erano stanziate in Pannonia, due in Mesia, a protezione del confine
danubiano, e due in Dalmazia. Dislocati ovunque sul territorio, in modo da poter
intervenire dove ce ne fosse bisogno, erano altre piccole flotte di triremi,
battaglioni di cavalleria e gruppi di ausiliari reclutati tra gli abitanti delle
province.
In Germania -
Riguardo alla politica estera lungo i confini settentrionali, Tiberio seguì il
principio di mantenere e consolidare una barriera contro i Germani lungo la
linea del Reno, ponendo fine dopo pochi anni dalla salita al trono alle
operazioni militari improduttive e pericolose che Germanico aveva intraprese
negli anni 14-16. Tacito che ammirava Germanico, ed aveva poca simpatia per
Tiberio, imputò la decisione del princeps alla sola invidia per i successi
raggiunti dal nipote. Tiberio che gli riconosceva il merito di aver ridato
lustro al prestigio romano tra i Germani, ritenne al contrario ed a ragione, che
un nuovo tentativo di stabilire il confine sull'Elba avrebbe implicato un
allontanamento dalla politica di Augusto, considerata da Tiberio come un
praeceptum, oltre a comportare un notevole aumento della spesa militare e
l'obbligo di condurre poi una successiva campagna in Boemia contro Maroboduo, re
dei Marcomanni. Tiberio, inoltre, non lo reputava né utile né necessario. I
dissensi interni delle tribù germaniche produssero di lì a poco una guerra tra
Catti e Cherusci, una successiva tra Arminio e Maroboduo, fino a quando quest'ultimo
fu esiliato nel 19, mentre il primo assassinato (nel 21).
Nel 14, mentre era in corso la rivolta delle legioni in Pannonia, anche gli
uomini stanziati lungo il confine germanico si ribellarono ai loro comandanti,
dando inizio ad un'efferata serie di violenze e massacri. Germanico, che era a
capo dell'esercito stanziato in Germania e godeva di grande prestigio, si incaricò di riportare alla calma la situazione,
confrontandosi personalmente con i soldati in rivolta. Essi chiedevano, come i
loro compagni Pannoni, la riduzione della durata del servizio militare e
l'aumento della paga: Germanico decise di concedere loro il congedo dopo venti
anni di servizio e di inserire nella riserva tutti i soldati che avevano
combattuto per oltre sedici anni, esonerandoli così da ogni obbligo ad eccezione
di quello di respingere gli assalti nemici; raddoppiò allo stesso tempo i
lasciti a cui, secondo i testamento di Augusto, i militari avevano diritto. Le
legioni, che avevano da poco appreso della recente morte di Augusto, arrivarono
addirittura a garantire il proprio appoggio al generale se avesse desiderato
impadronirsi del potere con la forza, ma egli rifiutò dimostrando allo stesso
tempo grande rispetto per il padre adottivo Tiberio e una grande fermezza. La
rivolta, che aveva attecchito tra molte delle legioni di stanza in Germania,
risultò comunque difficile da reprimere, e si concluse con la strage di molti
legionari ribelli. I provvedimenti presi da Germanico
per soddisfare le esigenze delle legioni furono poi ufficializzati in un secondo
momento da Tiberio, che assegnò le stesse indennità anche ai legionari pannoni.
La spedizione del 15 di Germanico in Germania. -
Ripreso il controllo della
situazione, Germanico decise di organizzare una spedizione contro le popolazioni
germaniche che, venute a conoscenza delle notizie della morte di Augusto e della
ribellione delle legioni, avrebbero potuto decidere di lanciare un nuovo attacco
contro l'impero. Assegnata, dunque, parte delle legioni al luogotenente Aulo
Cecina Severo, attaccò le tribù di Bructeri, Tubanti e Usipeti, sconfiggendole
nettamente e compiendo numerose stragi; attaccò, poi i Marsi, ottenendo nuove
vittorie e pacificando così la regione ad ovest del Reno: poté in questo modo
progettare per il 15 una spedizione ad est del grande fiume, con la quale
avrebbe potuto vendicare Varo e frenare ogni volontà espansionistica dei
Germani.
Nel 15, dunque, Germanico attraversò il Reno assieme al luogotenente Cecina
Severo, che sconfisse nuovamente i Marsi, mentre il generale ottenne una
netta vittoria sui Catti. Il principe dei Cherusci Arminio, che aveva
sconfitto Varo a Teutoburgo, incitò allora tutte le popolazioni germaniche alla
rivolta, invitandole a combattere contro gli invasori romani; si formò,
tuttavia, anche un piccolo partito filoromano, guidato dal suocero di Arminio,
Segeste, che offrì il proprio aiuto a Germanico. Questi si diresse verso Teutoburgo, dove poté ritrovare una delle aquile legionarie perdute nella
battaglia di sei anni prima, e rese gli onori funebri ai caduti le cui ossa
erano rimaste insepolte. Decise, poi, di inseguire Arminio per affrontarlo
in battaglia; il principe germanico, però, attaccò gli squadroni di cavalleria
che Germanico aveva mandato in avanscoperta sicuro di poter cogliere il nemico
impreparato, e fu dunque necessario che l'intero esercito legionario
intervenisse per evitare una nuova disastrosa sconfitta. Germanico
decise di tornare ad ovest del Reno assieme ai suoi uomini; mentre si trovava
sulla strada del ritorno presso i cosiddetti pontes longi, Cecina fu attaccato e
sconfitto da Arminio, che lo costrinse a retrocedere all'interno
dell'accampamento. I Germani convinti di poter avere la meglio sulle
legioni, assaltarono l'accampamento stesso, ma furono a loro volta duramente
sconfitti e Cecina poté condurre le legioni sane e salve ad ovest del Reno.
Nonostante avesse riportato una sostanziale vittoria, Germanico era cosciente
che i Germani erano ancora in grado di riorganizzarsi, e decise, nel 16, di
condurre una nuova campagna che avesse l'obiettivo di annientare definitivamente
le popolazioni tra il Reno e l'Elba. Per giungere indisturbato nelle terre
dei nemici, decise di approntare una flotta che conducesse le legioni fino alla
foce del fiume Amisia: in tempi rapidi furono approntate oltre mille navi agili
e veloci, in grado di trasportare numerosi uomini, dotate anche di macchine da
guerra per la difesa. Non appena i Romani sbarcarono in Germania, le tribù
del luogo, riunite sotto il comando di Arminio, si prepararono a fronteggiare
gli invasori e si riunirono a battaglia presso Idistaviso; gli uomini di
Germanico, ben più preparati dei loro nemici, fronteggiarono allora i Germani, e
riportarono una schiacciante vittoria. Arminio e i suoi si
ritirarono presso il Vallo Angirvariano, ma subirono un'altra durissima
sconfitta da parte dei legionari romani: le genti che abitavano tra il Reno e
l'Elba erano così state debellate. Germanico ricondusse dunque i suoi in Gallia,
ma, sulla strada del ritorno, la flotta romana fu dispersa da una tempesta e
costretta a subire notevoli perdite; l'inconveniente occorso ai Romani diede
nuovamente ai Germani la speranza di poter ribaltare le sorti della guerra, ma i
luogotenenti di Germanico poterono facilmente avere la meglio sui loro nemici. Sebbene Roma non fosse dunque riuscita ad espandere la sua
area d'influenza, il confine stabilito dal Reno era, così, protetto da altre
eventuali rivolte germaniche; a segnare in modo ancora più netto la fine delle
ribellioni delle genti del luogo intervenne, nel 19, la morte di Arminio, che,
dopo aver sconfitto in guerra il re filoromano dei Marcomanni, Maroboduo, fu
tradito e ucciso dai suoi compagni quando aspirava ormai al regno.
In Oriente
-
Ad Oriente la situazione politica, dopo un periodo di relativa
tranquillità successivo agli accordi tra Augusto e i sovrani partici, tornò a
farsi conflittuale: a causa delle lotte intestine, Fraate IV e i suoi figli
morirono mentre a Roma regnava ancora Augusto, e i Parti chiesero dunque che
Vonone, figlio di Fraate inviato tempo prima come ostaggio, potesse tornare in
Oriente, per salire al trono in qualità di unico membro ancora in vita della
dinastia arsacide. Il nuovo sovrano, però, estraneo alle tradizioni locali,
risultò inviso ai Parti stessi, e fu quindi sconfitto e scacciato da Artabano II,
e costretto a rifugiarsi in Armenia. Qui i re imposti sul trono da Roma erano
morti, e Vonone fu dunque scelto come nuovo sovrano; tuttavia, ben presto
Artabano fece pressione su Roma perché Tiberio destituisse il nuovo re armeno, e
l'imperatore, per evitare di dover intraprendere una nuova guerra contro i
Parti, fece arrestare Vonone dal governatore romano di Siria.
A turbare la situazione orientale intervennero anche le morti del re della
Cappadocia Archelao, che era venuto a Roma a rendere omaggio a Tiberio, di
Antioco III, re di Commagene, e di Filopatore, re di Cilicia: i tre stati, che
erano vassalli di Roma, si trovavano in una situazione di instabilità politica,
e si acuivano i contrasti tra il partito filoromano e i fautori dell'autonomia.
La difficile situazione orientale rendeva necessario un intervento romano, e
Tiberio nel 18 inviò il figlio adottivo, Germanico, che fu nominato console e
insignito dell'imperium proconsolaris maius su tutte le province orientali.
Contemporaneamente l'imperatore nominò un nuovo governatore per la provincia di
Siria, Gneo Calpurnio Pisone, che era stato suo collega durante il consolato del
7 a.C. Giunto in Oriente, Germanico, con il consenso dei Parti, incoronò ad Artaxata un nuovo sovrano d'Armenia: il regno, infatti, dopo la deposizione di
Vonone era rimasto privo di una guida, e Germanico conferì la carica di re al
giovane Zenone, figlio del sovrano del Ponto Polemone I. Stabilì, inoltre,
che Commagene ricadesse sotto la giurisdizione di un pretore, pur mantenendo la
propria formale autonomia, che la Cappadocia fosse istituita come provincia a sé
stante, e che la Cilicia entrasse invece a far parte della provincia di Siria. Germanico aveva così brillantemente risolto tutti i problemi che
avrebbero potuto far temere l'accendersi di nuove situazioni di conflitto nella
regione orientale. Ricevette, intanto, un'ambasceria da parte del re dei Parti Artabano, che era intenzionato a confermare e rinnovare l'amicizia e l'alleanza
dei due imperi: in segno di omaggio alla potenza romana Artabano decise di
recarsi in visita da Germanico in riva al fiume Eufrate, e chiese che in cambio
Vonone fosse scacciato dalla Siria, dov'era rimasto dal momento del suo arresto,
poiché fomentava nuove discordie; Germanico accettò di rinnovare l'amicizia
con i Parti, e acconsentì dunque all'allontanamento dalla Siria di Vonone, che
aveva stretto un legame di amicizia con il governatore Pisone. L'ex-re
dell'Armenia fu dunque confinato nella città di Pompeiopoli in Cilicia, e morì
poco tempo dopo, ucciso da alcuni cavalieri romani mentre tentava la fuga.
Nel 19 anche Germanico morì, dopo aver evitato con oculati provvedimenti
che una carestia sviluppatasi in Egitto avesse conseguenze catastrofiche per la
provincia stessa.
La sistemazione dell'Oriente approntata da Germanico garantì la pace fino al 34:
in quell'anno il re Artabano II di Partia, convinto che Tiberio, ormai vecchio,
non avrebbe opposto resistenza da Capri, pose il figlio Arsace sul trono di
Armenia dopo la morte di Artaxias. Tiberio, allora, decise di inviare Tiridate, discendente della dinastia arsacide tenuto in ostaggio a Roma, a
contendere il trono partico ad Artabano, e sostenne l'insediamento di Mitridate,
fratello del re di Iberia, sul trono di Armenia. Mitridate, con
l'aiuto del fratello Farasmane, riuscì ad impossessarsi del trono di Armenia: i
servi di Arsace, corrotti, uccisero il loro padrone, gli Iberi invasero il regno
e sconfissero, alleatisi con i popoli locali, l'esercito dei Parti guidato da
Orode, figlio di Artabano. Artabano, temendo un nuovo massiccio intervento
da parte dei Romani, rifiutò di inviare altre truppe contro Mitridate, e
abbandonò le proprie pretese sul regno di Armenia. Contemporaneamente, gli
odi che Roma fomentava tra i Parti contro Artabano costrinsero il re a lasciare
il trono e a ritirarsi, mentre il controllo del regno passava all'arsacide
Tiridate. Poco tempo più tardi, tuttavia, quando Tiridate era sul trono da
circa un anno, Artabano, radunato un grosso esercito, marciò contro di lui; l'arsacide
inviato da Roma, impaurito, fu costretto a ritirarsi, e Tiberio dovette
accettare che lo stato dei Parti continuasse ad essere governato da un sovrano
ostile ai Romani.
In Africa
Nel 17, il numida Tacfarinas, che aveva servito come ausiliario nell'esercito
romano, iniziò a raccogliere attorno a sé numerosi briganti, ma divenne poi
guida dell'intero popolo dei Musulami, nomadi che abitavano le zone vicine al
deserto del Sahara. Organizzato un esercito con il quale compiere razzie e
tentare di intaccare il dominio romano, Tacfarinas attirò dalla sua parte i
Mauri guidati da Mazippa; il proconsole d'Africa Marco Furio Camillo, allora, si
affrettò a marciare contro Tacfarinas e i suoi alleati, nel timore che i ribelli
rifiutassero di ingaggiare battaglia, e li sconfisse nettamente, meritandosi
anche le insegne trionfali.
L'anno successivo, Tacfarinas riprese le ostilità, iniziando una serie di
attacchi e razzie contro villaggi e accumulando un grosso bottino; cinse infine
d'assedio una coorte dell'esercito romano, e riuscì a sconfiggerla
duramente. Allora, il nuovo proconsole, che era succeduto a Camillo, inviò
il corpo dei veterani contro Tacfarinas, che fu sconfitto. Il numida, allora,
intraprese una tattica di guerriglia contro i Romani, ma, dopo alcuni successi
iniziali, fu nuovamente sconfitto, e ricacciato nel deserto.
Dopo alcuni anni di pace, nel 22 Tacfarinas inviò ambasciatori presso Tiberio a
Roma, affinché chiedessero per lui e per i suoi uomini la possibilità di
risiedere stabilmente all'interno dei territori romani; se Tiberio non avesse
accettato le condizioni, il numida minacciava di scatenare una nuova guerra che
avrebbe protratto ad oltranza. L'imperatore, tuttavia, considerò la minaccia di
Tacfarinas come un oltraggio al potere di Roma, e ordinò di condurre una nuova
offensiva contro i ribelli numidi. Il comandante dell'esercito romano,
Bleso, decise di adottare una strategia simile a quella che Tacfarinas aveva a
sua volta adottato nel 18: egli divise il suo esercito in tre colonne, con le
quali poté attaccare ripetutamente i nemici e costringerli alla ritirata. Il
successo sembrò essere definitivo, tanto che Tiberio acconsentì alla
proclamazione ad imperator di Bleso.
La guerra contro Tacfarinas ebbe fine soltanto nel 24: nonostante le sconfitte
sofferte fino ad allora, il ribelle numida continuava a resistere, e decise di
condurre ancora un'offensiva contro i Romani. Cinse dunque d'assedio una
piccola cittadina, ma fu subito attaccato dall'esercito romano e costretto a
retrocedere; molti capi ribelli, tuttavia, furono catturati e uccisi.
All'inseguimento dei fuggiaschi si lanciarono i battaglioni di cavalleria e le
coorti leggere, rinforzate anche dagli uomini inviati dal re Tolomeo di Mauretania, che alleato dei Romani, aveva deciso di scendere in guerra contro
Tacfarinas, che aveva danneggiato anche il suo regno. Raggiunti, i ribelli numidi diede nuovamente battaglia, ma furono duramente sconfitti; Tacfarinas,
certo dell'inevitabilità di una sconfitta definitiva, si gettò nel mezzo delle
schiere nemiche, e cadde trafitto dai colpi. Con la morte dell'uomo che l'aveva
saputa organizzare, la rivolta ebbe fine.
In Gallia
Nel 21 gli abitanti della Gallia, oppressi dalla richiesta di esosi tributi ed
imposte, si ribellarono spinti da Giulio Floro e Giulio Sacroviro. I due
organizzatori della rivolta, uno membro della tribù dei Treviri, l'altro di
quella degli Edui, godevano della cittadinanza romana, che i loro antenati
avevano ricevuto per i servigi prestati allo stato, e conoscevano il sistema
politico e militare romano. Per avere maggiori speranze di successo, decisero di
estendere la ribellione a tutte le tribù della Gallia, e intrapresero dunque
numerosi viaggi, guadagnando alla propria causa anche i Belgi. Tiberio tentò di evitare un intervento diretto di Roma, ma quando i
Galli arruolati nelle milizie ausiliarie iniziarono a defezionare, le legioni
marciarono contro Floro e lo sconfissero presso la selva Arduenna. Il capo
dei Treviri, vedendo che per il suo esercito non v'era alcuna via di fuga,
decise di uccidersi; per i suoi, rimasti senza una guida autorevole, ebbe dunque
fine la ribellione. Sacroviro assunse allora il comando generale della
ribellione, radunando attorno a sé tutte le tribù ancora disposte a combattere
contro Roma; presso Augustodunum fu attaccato dall'esercito romano e, dopo aver
dato prova di notevole valore, fu sconfitto. Anch'egli, per non finire nelle
mani dei nemici, decise di togliersi la vita assieme ai suoi più fedeli
collaboratori; morti coloro che l'avevano saputa organizzare, la ribellione
delle Gallie finì, senza che si fosse ottenuta nessuna riduzione delle gravose
imposte che gli abitanti del territorio dovevano pagare.
Nell'area Illirico-balcanica
Nel 14, non appena le legioni stanziate nella regione dell'Illirico vennero a
conoscenza della notizia della morte di Augusto, scoppiò una rivolta fomentata
dai legionari Percennio e Vibuleno. Essi speravano infatti di poter
scatenare una nuova guerra civile da cui trarre notevoli guadagni e, allo stesso
tempo, intendevano migliorare le condizioni in cui si trovavano tutti i
militari: chiedevano infatti che si riducessero gli anni di servizio militare, e
che il loro salario giornaliero venisse portato ad un denario.
Tiberio, da
poco salito al potere, rifiutò di intervenire personalmente, e inviò presso le
legioni il figlio Druso assieme ad alcuni cittadini romani e due coorti pretorie
assieme a Lucio Elio Seiano, figlio del prefetto del pretorio Seio Strabone.
Druso pose fine alla rivolta uccidendo i capi Percennio e Vibuleno e
attuando ulteriori repressioni contro i ribelli; ai legionari non furono
fatte sul momento particolari concessioni, ma essi poterono poi beneficiare
delle stesse indennità che Germanico concesse più tardi alle legioni di
Germania.
Nell'area dell'ex-Illirico, Tiberio dispose nel 15 che le province senatorie di
Acaia e Macedonia fossero unite alla provincia imperiale di Mesia, prorogando
l'incarico del governatore Gaio Poppeo Sabino (che rimase in carica 21 anni dal
15 al 36) e dei suoi successori.
Anche in Tracia la situazione di tranquillità dell'epoca augustea si ruppe alla
morte del re Remetalce I, alleato di Roma: il regno fu diviso in due parti, che
furono assegnate al figlio e al fratello del re defunto, Cotys V e Rescuporide.
A Cotys spettò la regione vicina alla costa e alle colonie greche, a Rescuporide
quella selvaggia e incolta dell'interno, esposta agli attacchi degli ostili
popoli confinanti. Rescuporide, allora, deciso a impossessarsi delle terre
spettate al nipote, iniziò a condurre contro il suo regno una serie di azioni
violente; nel 19, Tiberio, nel tentativo di evitare lo scoppio di una nuova
guerra che avrebbe probabilmente richiesto l'intervento di truppe romane, inviò
emissari ai due re traci, favorendo l'avvio delle trattative di pace. Rescuporide, tuttavia, non desistette dal suo proposito, ma fece anzi
imprigionare Cotys impossessandosi del suo regno, e chiese poi che Roma
riconoscesse la sua sovranità su tutta la Tracia. Tiberio invitò allora lo
stesso Rescuporide a raggiungere l'Urbe per giustificare l'arresto di Cotys,
ma il re trace si rifiutò e uccise il nipote. Tiberio inviò allora da Rescuporide il governatore della Mesia Pomponio Flacco, che, vecchio amico del
re trace, lo convinse a recarsi a Roma; ivi Rescuporide fu processato e
condannato al confino per l'uccisione di Cotys, e morì più tardi mentre si
trovava ad Alessandria. Il regno di Tracia fu diviso tra Remetalce III,
figlio di Rescuporide che aveva apertamente osteggiato i piani del padre, e i
giovanissimi figli di Cotys, in nome dei quali fu nominato reggente l'ex-pretore
Trebelleno Rufo.
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