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Cuba, terra della musica,
dello zucchero e del rum. Negli anni '40 a Miami e a New York i manifesti
multicolori di propaganda promettevano delizie di ogni genere al turista
statunitense. Palme, spiagge, sole, rumba, carnevali, alcool, orchestre, riti
magici e mistero, donne bianche e nere. Con un sorriso di complicità, al
visitatore veniva garantito un "sicuro effetto afrodisiaco" quando, al tramonto,
sarebbe giunto a Cuba, la perla dei Caraibi: e tutto questo ben di Dio era in
vendita, tutto compreso nel prezzo fissato dalle agenzie turistiche.
Venne un giorno in cui i manifesti multicolori furono violentemente strappati e
si poté vedere chiaramente che cosa nascondessero in realtà. Effetto
afrodisiaco... In effetti, più che di un composto magico, si trattava del
prodotto finale di una industria assai redditizia: la prostituzione. All'Avana,
erano diecimila le donne che esercitavano quel mestiere; e ogni giorno,
puntualmente, il capo della polizia incassava la sua percentuale. Ma questo era
solo, a ben guardare, un particolare di un quadro più ampio, occultato dai
manifesti variopinti.
Negli anni '50, secondo l'UNESCO, un cubano su tre era analfabeta e Cuba
apparteneva a un gruppo di paesi il cui reddito medio pro capite oscillava tra i
300 e i 499 dollari l'anno. Tuttavia, tra il señor Julio Lobo, re dello
zucchero, o il señor Emilio Bacardi, re del rum, situati al vertice della
piramide sociale, e la base di questa, costituita dagli strati più poveri della
popolazione, la distanza era enorme: un cubano su due aveva un reddito che non
superava i 100-150 dollari all'anno.
Ma non era tanto nella capitale dell'isola,
l'Avana, quanto nelle zone rurali, che si poteva toccare davvero con mano
l'entità della disuguaglianza sociale.
Prendiamo ad esempio la produzione agricola fondamentale, la canna da zucchero:
il 41,9% delle piantagioni era proprietà di sei grandi aziende; e, secondo un
inchiesta condotta nel 1957 dalla Agrupaciòn Catòlica Universitaria, su dieci
cubani appartenenti alla popolazione rurale meno di due consumavano carne.
Latifondo da un lato, miseria dall'altra: questa era la Cuba che i turisti
nordamericani non avevano mai avuto modo di conoscere.
E non era ancora tutto.
Fra i cubani appartenenti alla
popolazione attiva uno su quattro era soggetto al "tiempo muerto", il tempo
morto, com'era chiamata la disoccupazione ciclica che, ogni anno, bussava
all'uscio del lavoratore. Perché, finito il raccolto della canna da zucchero,
non c'era altra possibilità di occupazione. Per tre mesi, tutti avevano da
lavorare, l'economia agricola basata sul latifondo richiedeva braccia e ancora
braccia; ma la stagione finiva e cominciava il "tiempo muerto".
Alcuni riuscivano a trovare un altro lavoro come addetti alla manutenzione
del terreno oppure presso le distillerie; la maggior parte, tuttavia, era
costretta ad andarsene.
Nelle città era possibile trovare solo occupazioni
occasionali, e c'era chi preferiva rifugiarsi sulle montagne più vicine, tra cui
la Sierra Maestra nella provincia di Oriente.
Qualcuno, ancora, trovava impiego in altre attività di raccolta collettiva, come
quella del caffè; altri tentavano di cavare faticosamente di che vivere da un
minuscolo appezzamento di terra che poteva permettere al più un'economia di
sussistenza. Occupavano terre che non erano di loro proprietà, a volte tollerati
dal latifondista o dal contadino ricco, altre espulsi seduta stante. I più
fortunati tra questi riuscivano a volte a trasformarsi in precaristas, vale a
dire piccoli coltivatori diretti "precari", senza alcun diritto legale, che
zappavano terre marginali, frazioni di ettaro lungo questo o quel pendio
montano. Ma anche queste, a conti fatti, davano ben scarso reddito, mentre le
bocche da sfamare erano tante.
E c'era chi, in mancanza di altri mezzi di sussistenza, si costruiva un bohìo,
la dimora della popolazione rurale precaria, addirittura ai margini delle
strade. Tutti costoro rientravano nel novero dei tipici campesinos, piccolissimi
proprietari o fittavoli costretti a rinnovare il contratto di anno in anno. E su
tutti, in un modo o nell'altro, si proiettava l'ombra del taglio della canna, e
non solo perché era facile incontrare tra loro il bracciante agricolo stagionale
che il "tiempo muerto" aveva costretto a mettere radici su un fazzoletto di terra,
ma anche perché, a rigor di termini, i legami con la calia non erano mai sciolti
del tutto. E, se non il capofamiglia, almeno i suoi figli (che potevano essere
cinque o dieci) spesso erano travolti dal circolo vizioso del "tiempo
muerto".
Erano troppi per poter essere assunti stabilmente in una piccola piantagione di
caffè; ma, se le braccia erano in eccesso, non era certo troppo quello che
riuscivano a mettere sotto i denti.
Questa era dunque Cuba: un paese di cui era per lo meno difficile affermare che
godesse di buona salute. Ma si trattava di una repubblica, e come tale avrebbe
dovuto godere almeno dell'indipendenza.
E che faceva il governo "indipendente" dell'isola per modificare le cose? Era
ancora vivo il ricordo del tentativo, compiuto negli anni '30, di creare un
governo popolare che dopo quattro mesi fu però abbattuto da un golpe militare,
organizzato da Fulgencio Battista.
Da allora, la maggior parte dei componenti la popolazione civile aveva fatto
tesoro della lezione, e anche i borghesi giocavano al colpo di stato. Era
insomma il tipico meccanismo politico operante, all'epoca, nella maggior parte
dei paesi centro e sudamericani. Inutile dire che gli unici a disporre di una
forza effettiva erano i militari; ma i governi da essi costituiti avevano un
difetto, ed era che, dopo un certo periodo, finivano per irritare e stancare;
sicché i militari si prendevano una vacanza, e lasciavano che fossero i civili a
occupare le poltrone governative, fino al prossimo colpo di stato. In attesa di
questo, preferivano lasciare che a sbrogliarsela fossero i civili i quali, a
parole, possedevano un programma-panacea universale. E quando poi il programma
si riduceva a carta straccia, e con esso svanivano le illusioni, i militari
tornavano a ristabilire l'ordine, fino al giorno in cui i loro metodi di governo
avessero esasperato la gente, e così di seguito.
1952 - Il 10 marzo del 1952, alla vigilia delle elezioni, con l'appoggio delle
lobby dello zucchero e con il beneplacito di Washington, il sergente Fulgencio
Batista instaura la dittatura con un colpo di Stato. Batista sospende le
garanzie costituzionali, assolda gruppi di gangster e, con il riconoscimento
ufficiale degli Usa, iniziano vere e proprie esecuzioni di massa.
Già nel 1940 era salito al potere Fulgencio Batista e, a seguito dell'alleanza
Usa-Urss nella Seconda guerra mondiale, il partito comunista entra nel governo,
e rimarrà fino al 1944.
Finita la Seconda Guerra Mondiale, emerge nella vita politica cubana il Partito
Ortodosso con a capo Eduardo Chibás che propugna una linea di pulizia nel
governo e nell'amministrazione. Sicuramente questo partito potrebbe vincere le
elezioni del 1952, ma gli Stati Uniti, avvertito il pericolo, favoriscono un
colpo di stato capeggiato da Fulgencio Batista, loro uomo di fiducia.
Il processo rivoluzionario ebbe
inizio con l'assalto alla caserma Moncada a Santiago, capoluogo della provincia
di Oriente, il 26 luglio 1953. A guidare i rivoltosi era Fidel Castro. Il piano
prevedeva la conquista delle armi custodite presso quella caserma (e presso
un'altra, più piccola), per poi consegnarle al popolo e dare il via
immediatamente all'insurrezione armata.
Centosettanta giovani ascoltarono il discorso di Fidel: "Compagni " disse "tra
qualche ora sarete vittoriosi o sconfitti. Ma in ogni caso fate bene attenzione
a quello che vi dico, compagni! In ogni caso il nostro movimento finirà per
trionfare. Se domani sarete vittoriosi, si potrà realizzare più in fretta quello
cui aspirava Martì'." Un istante prima di dare il via all'azione, Fidel evocava
dunque quelli che, per un cubano, erano i ricordi più cari.
Le idee di Martì, tra le più avanzate all'epoca in cui era vissuto, verso la
fine del XIX secolo, continuavano a ispirare quei giovani nei quali, oltre
all'aspirazione alla libertà, fermentava l'anelito alla piena indipendenza
nazionale, il compito che Martì aveva lasciato a mezzo.
Più vicino nel tempo, un altro esempio li incitava all'azione, quello di un
leader che, nell'intento di impartire dinamismo all'azione sociale, nel 1951 si
era suicidato in maniera spettacolare davanti ai microfoni della radio; alla
corruzione dei governanti e ai maneggi elettorali, Chibas, munito di una
simbolica scopa, opponeva una parola d'ordine immutabile: Dignità contro denaro.
La sua scomparsa non aveva però impedito al suo programma di conservare piena
attualità, ed ora esso imponeva ai giovani di riunirsi nelle prime ore di quel
26 luglio, di affrontare altrettanto coraggiosamente la morte, se questa era
utile al trionfo delle loro idee.
L'assalto alla caserma non riuscì, ma fu comunque un'esplosione sufficiente a
innescare un processo rivoluzionario. Benché all'epoca non sussistessero
condizioni tali da permettere il passaggio diretto all'insurrezione generale, la
giornata del 26 luglio 1953 rivelò chiaramente qual'era la via da seguire: la
lotta armata.
Per i nordamericani, manifesti policromi; per i cubani, il meccanismo politico
dei colpi di stato.
Tra questi due estremi si collocavano i grandi problemi irrisolti dell'isola.
C'era però anche un terzo piano: al di là della miseria e del "tiempo muerto",
dell'analfabetismo e della corruzione, era possibile scorgere qualcosa d'altro,
le conseguenze di ciò che era avvenuto alla fine del secolo, quando gli Stati
Uniti avevano occupato militarmente l'isola obbligando tutta quanta la
popolazione a dedicarsi alla produzione dello zucchero di cui i primi avevano
bisogno.
Zucchero, sempre zucchero, null'altro che zucchero: e Cuba si trasformò in un
paese di monocoltura, senza mai avere il tempo e il modo di industrializzarsi.
La conseguenza era che qualsiasi manufatto doveva essere acquistato all'estero.
Con quale denaro? Quello ricavato dall'esportazione dello zucchero, quasi
completamente indirizzata verso gli Stati Uniti. Sicché, quanto più era lo
zucchero cubano acquistato dagli Stati Uniti, tanto maggiore era la quantità di
beni di consumo che a sua volta Cuba poteva acquistare negli Stati Uniti, dalle
Cadillac agli alimenti in scatola. Per una cinquantina d'anni, il sistema parve
funzionare più o meno bene. Ma, negli anni '50 si verificò un intoppo.
Il governo cubano decise di limitare la produzione di zucchero, in ragione delle
restrizioni poste alle vendite all'estero: il mercato nordamericano preferiva lo
zucchero prodotto localmente, dai coltivatori statunitensi di barbabietole.
Tuttavia, se la produzione cubana doveva per forza di cose venire ridotta (e con
essa le importazioni, poiché, come si é visto, dipendevano strettamente dal
volume delle esportazioni), la sua popolazione continuava a crescere. La
conseguenza era che, restando uguale la quantità dei beni di consumo, questi
dovevano essere distribuiti a un numero di individui di anno in anno maggiore; e
di pari passo con l'incremento demografico aumentavano i mali tradizionali
dell'isola i quali, lungi dal trovar soluzione, peggioravano progressivamente.
Ma c'era chi "vegliava" per i cubani...
Gli Stati Uniti, che alla fine dell'800 avevano costretto l'isola a produrre
quasi null'altro che zucchero, ora proponevano una soluzione politica ai suoi
problemi economici, e la soluzione aveva un nome proprio, quello di Fulgencio
Batista. In realtà, si trattava di null'altro che di una nuova versione dei
colpi di stato in serie, con funzioni preventive, caratteristici dell'America
centrale e meridionale. Se erano inattuali i governi militari, altrettanto lo
erano le coalizioni civili classiche, da un lato prive ormai di prestigio,
dall'altro incapaci di frenare il malcontento in rapida ascesa, di convincere i
cubani che miseria, "tiempo muerto", analfabetismo, prostituzione erano mali
inevitabili; che inoltre dovevano rassegnarsi alla riduzione delle proprie
entrate e che, infine, la monocoltura e il latifondo, lungi dall'essere anomalie
economiche, erano un destino. Era dunque indubbiamente suonata l'ora di
sostituire anche le coalizioni civili con quello che, da quasi due decenni, era
l'uomo forte dell'isola, Fulgencio Batista, a proposito del quale Arthur
Gardner, per quattro anni ambasciatore degli Stati Uniti all'Avana, affermava
che "non abbiamo mai avuto un amico migliore".
Ma chi era Batista agli occhi dei cubani?
Un sergente che, negli anni '30, si
era schierato sotto la bandiera del nazionalismo (cosa che, all'epoca,
comportava un impegno politico e sociale avanzato), per poi rinnegarlo; e che,
negli anni '40, divenuto nel frattempo generale, aveva governato sotto etichetta
liberale nella congiuntura della seconda guerra mondiale. Negli anni '50,
senatore, col sostegno dei militari aveva imposto al paese la propria dittatura.
Era cresciuto alla scuola di un esercito di carriera, i cui componenti, dal
generale all'ultimo soldato, erano uniti, per la vita e per la morte, dallo
stesso legame: il salario sicuro, la possibilità di carriera, la pensione, i
vantaggi economici della casta. Fulgencio Batista, il sergente che, nella sua
parentesi nazionalista degli anni '30, era riuscito a farsi nominare colonnello,
questo singolare self-made man divenne ben presto il capo di un siffatto
esercito. E si trattava d un uomo venuto dal niente: suo padre aveva lavorato
alla zafra, il taglio della canna. Un elemento questo che, in terra cubana, dove
vivissima era la tradizione delle lotte operaie, di eccezionale vigore rispetto
al contesto centroamericano, aveva una certa importanza. E per soprammercato,
figlio di un paese in cui così forte é la minoranza negra, Fulgencio Batista era
mulatto. Il personaggio pareva fatto su misura per le necessità storiche, degli
anni '50. Il colpo di stato da lui organizzato non urtò contro nessuna
resistenza degna di tal nome; e la sua dittatura si iniziò proponendosi come
obiettivo quello di indurre i cubani a rassegnarsi ai mali di sempre, di far
loro pagare le conseguenze della crisi zuccheriera, di portare Cuba a schierarsi
fianco a fianco agli USA sul terreno della guerra fredda.
Non tutti i cubani chinarono il capo. La protesta andò anzi crescendo; e un bel
giorno si verificò l'esplosione rivoluzionaria, l'assalto alla caserma Moncada.
Quale fu la reazione di Fulgencio Batista? Servendosi dell'esercito, schiacciò i
rivoltosi e la maggior parte dei giovani che avevano partecipato all'azione
caddero prigionieri; per parecchi giorni furono torturati e quindi sommariamente
giustiziati. La risposta repressiva data dalla dittatura non era soltanto
inumana: essa non era neppure in rapporto proporzionale con l'impresa tentata da
quei centosettanta giovani armati di doppiette più adatte a uccidere passeri. Il
fatto che, non appena iniziata, l'impresa fosse andata incontro al fallimento, i
suoi moventi romanticheggianti, e il fatto ancora che neppure per un istante era
stata messa in forse la stabilità del governo, al quale le truppe erano rimaste
fedeli, erano tutti elementi che avrebbero dovuto indurre alla clemenza. Ma
Fulgencio Batista non era certo andato al potere per mostrarsi clemente. Alterò
i fatti, accusò i giovani di aver assassinato dei soldati, credendo con ciò di
avere il pretesto per infliggere un castigo esemplare. E tutti coloro i quali si
levavano a protestare, che scendevano in sciopero, che partecipavano a
manifestazioni di strada o alla lotta armata, che aspiravano a uscire
dall'asfissiante atmosfera economica della monocoltura, sapessero bene a cosa
andavano incontro! E, dal suo punto di vista, il dittatore aveva ragione. Date
le condizioni economiche in cui versava l'isola, ulteriormente aggravate dalla
guerra fredda, c'era un solo modo di continuare a governare secondo la
tradizione: ricorrere al terrore.
Il terrore
Abbagliati dai manifesti multicolori, i turisti nordamericani che affluivano
alla terra della musica, dello zucchero e del rum, non si avvedevano della sua
esistenza. Ma giunse il giorno in cui i manifesti in questione furono
violentemente strappati, e ciò si verificò al momento dell'esplosione
rivoluzionaria, l'assalto alla caserma Moncada.
All'epoca, Cuba era anche questo: il massacro di prigionieri inermi. Fidel
Castro, che aveva guidato il fallito assalto, fu sottoposto a processo. Ma a
trovarsi sul banco degli imputati, non fu lui, bensì la dittatura; e, insieme a
questa la miseria, il "tiempo muerto", l'analfabetismo, la corruzione.
Perché
Fidel ignorò i capi d'accusa ed espose invece un programma rivoluzionario,
quello contenuto nel testo della sua autodifesa, divenuta in seguito celebre col
titolo "La storia mi assolverà".
Viene condannato a 15 anni di detenzione e trasferito nelle carceri speciali
dell'Isola dei Pini. Dopo due anni di dura prigione, a seguito di numerose e
imponenti manifestazioni popolari, viene liberato ed esiliato in Messico. dove
incontra il medico argentino Ernesto Guevara, detto il Che, e organizza con lui
e il fratello Raul il Movimento 26 Luglio, ispirato al pensiero di José Martì.
Fidel Castro, il rampollo di una famiglia di agrari, il dirigente universitario
di cui era ancora vivo il ricordo, il giovane avvocato più impegnato a far
politica che a procurarsi cause, approfittò dei mesi trascorsi dietro le sbarre
per completare la sua formazione culturale, leggendo Martì, Marx, Lenin.
Nonostante tali letture,
Fidel conservava ancora le convinzioni religiose che
gli erano state impartite durante l'infanzia. Toccò comunque con mano una
realtà: nel contesto della guerra fredda, le idee marxiste che ora tanto lo
attraevano, urtavano contro tenaci resistenze persino tra le masse popolari
urbane. Così, mentre i comunisti ideologicamente si battevano contro
l'avversario, assaltandolo frontalmente, Fidel decise che conveniva tentare una
manovra aggirante, passando per la strada del nazionalismo avanzato, una
copertura grazie alla quale avrebbe potuto far passare, sotto un'altra veste,
quelle soluzioni marxiste che riteneva necessarie alla realtà cubana. Inoltre il
"nationalismo" faceva appello allo spirito che animava i suoi compagni. Ed é
tipico di Fidel, lo stratega politico, l'intellettuale, il leader sempre in
prima linea, l'aver scelto una soluzione del genere.
Liberato dal carcere, Fidel é costretto all'esilio, ed eccolo in Messico intento
a preparare l'invasione d Cuba. Gli sono accanto Camilo Cienfuegos, Raul Castro,
suo fratello minore, ed Ernesto Guevara, l'argentino soprannominato dai compagni
"il Che", dall'interiezione di cui faceva così frequente uso, del resto
diffusissima in Argentina, e che significa "Ehi, senti!". E giunse anche Frank
Paìs, capo della resistenza nella provincia di Oriente: non per partecipare alla
spedizione, ma per coordinare le azioni da condurre a Cuba in appoggio allo
sbarco.
Castro e Guevara
A un certo punto, la polizia messicana trae in arresto Fidel a causa delle sue
attività insurrezionali; si interessa a lui Teresa Casuso, una cubana che da
parecchio tempo vive all'estero. "Sono andata a trovarlo in carcere e al momento
del congedo gli ho offerto la mia casa, aggiungendo la solita frase fatta:
"Ricordati che in me hai un'amica".
Solo che con Fidel Castro non sono cose che
si dicono per semplice cortesia: due giorni dopo era in libertà e, un'ora più
tardi, se ne stava seduto sul divano del mio soggiorno. Un sofà che, dopo tre
notti, era ormai il suo letto... E come se non bastasse, il piano superiore di
casa mia si andava trasformando in un arsenale pieno di armi e munizioni." Così
era fatto Fidel, quest'uomo dotato di una straordinaria capacità di coagulare
attorno a sé le volontà, di suscitare la fede in imprese apparentemente
impossibili.
1956. Un panfilo, il Granma, salpa dal Messico con a bordo gli uomini che
dovranno invadere Cuba. Sono ottantadue, un numero che supera di parecchio la
portata effettiva del panfilo. Un guscio di noce in mezzo al mare: quale impresa
potrebbe sembrare più impossibile? Si direbbe che la storia, per raggiungere i
propri fini, ricorra all'ironia: il guscio di noce, che nessuno prenderebbe sul
serio, trasporta in realtà il detonatore che innescherà la carica destinata a
sconvolgere in breve tempo l'isola intera.
Contemporaneamente la città di Santiago insorge ma la rivolta viene nuovamente
soffocata nel sangue. I superstiti, stremati e senza armi, si rifugiano sulla
Sierra Maestra; qui cominciano a riorganizzarsi, ampliando le proprie file con
nuovi volontari e con l'aiuto dei contadini. Fra i comandanti sulla sierra,
oltre a Fidel, Raul e al Che, ci sono Camilo Cienfuegos e Celia Sanchez.
E l'astuzia sembra il segno sotto cui
si svolge anche il gioco tra Fidel, il rivoluzionario, e Fulgencio Batista, il
controrivoluzionario. Necessità demagogiche avevano imposto il governo di
quest'ultimo, il mulatto figlio di proletari, le necessità di una rivoluzione
che avrebbe avuto luogo a centottanta chilometri dagli Stati Uniti imposero che
a esserne il protagonista fosse il rampollo di una famiglia di agrari, gente
religiosa, che aveva frequentato l'università dei ricchi. Stando al copione
storico tradizionale, Fidel risultava del tutto insospettabile, date appunto le
sue origini. Egli però stava subendo un processo di maturazione ideologica, le
cui conseguenze ultime per il momento nessuno avrebbe potuto prevedere. E fu
così che, qualche anno dopo Fidel si sentì autorizzato ad affermare "possibile
che, all'epoca, io sia apparso meno radicale di quanto fossi in realtà. Ma é
anche possibile che fossi meno radicale di quanto io stesso non credessi". È
certo comunque che a Cuba, a 180 km dagli USA, la storia stava per giungere a
una svolta.
Camilo Cienfuegos
- ha ventiquattro anni quando giunge in Messico per partecipare
alla spedizione del Granma. È un'età che corrisponde a quella media dei suoi
compagni: Camilo è più giovane di Fidel e del Che, ma più vecchio di Raul Castro
e di Frank Paìs. Due anni più tardi, trasformato in barbuto e leggendario capo
guerrigliero, entrerà all'Avana alla testa delle colonne dell'esercito ribelle,
al fianco del Che. Per il momento, Camilo Cienfuegos é un giovane come tanti
altri, mosso dal patriottismo e dallo spirito di avventura. La lotta farà di lui
un leader, ma adesso egli non é che un semplice volontario. Tale, per lo meno,
può sembrare.
Certi particolari sulla sua biografia e gli aneddoti che corrono sul suo conto
ci dicono però qualche cosa di più. Un mattino all'alba, poco dopo il golpe di
Fulgencio Batista, in casa dei genitori, con i quali all'epoca Camilo viveva,
era comparso un cane randagio; e Camilo lo aveva adottato come prima altri cani,
battezzandolo Fulgencio: gli era parso che fosse il nome più adatto per un
bastardo. In quella casa, la politica era pane quotidiano: il padre di Camilo,
Ramòn, uno spagnolo, era stato attivista sindacale della Uniòn de Operarios
Sastres (Unione dei lavoratori di sartoria) e qualche anno prima aveva
pubblicato un manifesto dal titolo incendiario "La rivoluciòn rusa si extenderà
por el mundo".
In seguito, durante la guerra civile spagnola, Camilo, ancora bambino, aveva
spesso accompagnato il padre durante le sue collette per la raccolta di fondi.
Buon narratore, amante degli animali, audace e pronto ad affrontare qualsiasi
rischio, animato da un profondo senso dell'amicizia, Camilo mancava però di una
virtù, la disciplina. All'epoca, tuttavia, poteva sostituirla con lo spirito
d'avventura. Operaio come suo padre, un giorno aveva deciso di andare negli
Stati Uniti.
Lì aveva fatto i lavori più
svariati, nessuno dei quali stabile. Ma un bel giorno il cubano emigrato avverte
"un gelo da spaccare il cuore a chiunque", e ritorna in patria. La distanza gli
ha permesso di rendersi conto dei mutamenti intervenuti. È partito con Batista
al potere; tornato, ritrovava ancora Batista al suo posto: con la differenza che
l'ex sergente ha ormai dato fondo a tutti i suoi trucchi demagogici, mostrando
apertamente il ceffo del dittatore.
"Sono certo - scrive Camilo a un amico nel 1956 - che se tu fossi a Cuba
resteresti sbalordito delle cose che qui avvengono. I soprusi sono tali, che
solo chi ne é testimone può convincersi della loro realtà". La lotta per le
strade, le manifestazioni che, nelle città, si sono trasformate in aperta
protesta, lo coinvolgono, e Camilo finisce una volta in carcere e un'altra
all'ospedale. In quel torno di tempo, gli capita un'esperienza che non
dimenticherà mai più, e la riferisce in una sua lettera: "Fu quando il mio
vecchio, travolto dalla tensione e dall'emozione, levò la benda macchiata di
sangue con cui mi aveva tamponato la ferita, e disse: "È il sangue di mio
figlio, ma é sangue versato per la rivoluzione".
Il padre e il figlio, che un tempo avevano raccolto, fianco a fianco, fondi per
la guerra civile spagnola, sarebbero ancora proceduti assieme. La tradizione
rivoluzionaria non era andata perduta: al pari di tanti altri giovani cubani
della sua generazione, Camilo si era assunto la responsabilità di portarla
avanti. Non gli fu però concesso di partecipare a lungo, dopo la vittoria sulla
dittatura, alla costruzione della sua nuova patria: il 28 ottobre 1959, Camilo
Cienfuegos moriva in un incidente aereo. Ma egli continua a vivere nella memoria
di un popolo che si riconosce pienamente in colui che, semplice lavoratore, fu
esaltato dalla rivoluzione a capo leggendario di un popolo che ha fatto proprio
il motto: "C'é stato un Camilo, ci saranno molti Camilo".
Il Ciclone -
Il panfilo Granma raggiunge le coste cubane il 2 dicembre 1956. Tre giorni dopo
i membri della spedizione, attaccati di sorpresa, sono decimati. Sotto una
pioggia di pallottole, il Che, che era stato arruolato come medico della
spedizione, si trova, come egli stesso ricorda, alle prese con un dilemma,
quello tra professione e rivoluzione. "Avevo davanti a me - racconta - uno zaino
pieno di medicinali e una cassetta di pallottole. Pesavano troppo per
trasportarli tutte e due; ho preso la cassetta, lasciando lo zaino." In seguito
il Che, più che medico, sarà guerrigliero. Alla fine, degli ottantadue
componenti la spedizione non più di una decina sarà ancora in grado di
combattere. Inoltre, lo sbarco avrebbe dovuto essere sostenuto da una
sollevazione generale dell'isola, ma una sommossa ci sarà solo a Santiago, dove
i miliziani comandati da Frank Paìs occupano alcuni quartieri della città; alla
fine però, privi di ogni appoggio, sono costretti a ritirarsi. Comunque Fidel,
che si dirige adesso verso la Sierra Maestra, ha potuto constatare che la
popolazione della zona solidarizza con lui, e ciò vale soprattutto per il leader
dei contadini precaristas, Crescencio Pérez. È un sostegno che si spiega anche
con la situazione contingente. I precaristas sono stati oggetto di espulsioni in
massa a opera di gruppi di latifondisti produttori di caffè: provvedimenti che
si aggiungono alla loro miseria secolare, al penoso circolo vizioso del "tiempo
muerto". A completare il quadro delle loro disgrazie, é venuto l'ordine di
togliersi dai piedi.
Crescencio Pérez, uomo pronto alla lotta armata e che si è forgiato in quella
per la terra, ha bisogno dell'aiuto militare di Fidel; e il giovane di origine
cittadina, dalle idee radicali, si presta di buon grado alla bisogna.
È da questa congiunzione che nascono la guerriglia e la sua bandiera, la riforma
agraria.
La guerriglia inaugura anche per altra via un dialogo col resto del paese. A
parte i due primi mesi, in seguito essa non sarà più isolata. Il Che ricorda che
proprio quando un reportage giornalistico era più importante di una vittoria
militare, il New York Times ha pubblicato la serie di articoli di un suo
prestigioso collaboratore, Herbert Matthews, che si era recato al persona nella
Sierra Maestra. Attraverso la rivista Bohemia, che riproduce gli articoli, Cuba
viene così a sapere che Fidel Castro é vivo e continua la lotta e, come se non
bastasse, la guerriglia ha avuto l'avallo della parte liberale dell'opinione
pubblica statunitense, rappresentata dal grande foglio newyorkese.
Viene così creandosi un clima favorevole alla solidarietà civile, agli aiuti
economici, alla propaganda e all'afflusso, nelle file dei guerriglieri, di
volontari giunti dalle città. Il turbine si sposta subito dopo all'Avana, dove
ha luogo un fallito attentato contro Fulgencio Batista. Il Directorio
Revolucionario, organizzazione formata da universitari e che é estranea al
movimento di Fidel, decide di sferrare l'assalto al palazzo presidenziale; nel
corso dell'azione cadono parecchi dei suoi aderenti, tra i quali il presidente
della Federaciòn Estudiantil Universitaria, Josè Antonio Echeverrìa. E quello
stesso giorno, nel quadro di una nuova ondata repressiva lanciata dalla
dittatura, viene assassinato il presidente del Partito ortodosso (liberale di
opposizione) Pelayo Cuervo.
Due mesi dopo, il fulcro degli avvenimenti diviene Santiago, dove é in corso il
processo a carico dei partecipanti al la spedizione del Granma caduti in mano
all'esercito. Il giudice Manuel Urrutia (e questo suo atteggiamento gli
assicurerà, due anni dopo, caduta la dittatura, la presidenza della repubblica)
fa propria l'opinione della minoranza dei giurati e pronuncia un verdetto di
assoluzione, proclamando il diritto dei detenuti di ribellarsi alla dittatura.
Si sono appena spenti gli echi dell'inaspettata sentenza, quando a prendere la
parola è la Sierra: al termine di un combattimento durato varie ore, la
guarnigione militare dell'Uvero è messa in rotta. Anche in precedenza si erano
avuti scontri con l'esercito, ma questo è il primo di una certa entità. Sul
piano politico, in un momento in cui la censura sulla stampa è stata sospesa, la
risonanza di questa vittoria dei ribelli è enorme in tutto il paese. Ma gli
effetti sono cospicui anche sul piano militare: di fronte all'impossibilità di
difendere le sue guarnigioni isolate tra le montagne, l'esercito evacua una
vasta zona che passa sotto il controllo dei guerriglieri, cosa questa che
assicurerà loro una fase di relativa tranquillità; ne approfitteranno per
promuovere un'azione sociale a beneficio delle popolazioni rurali: assistenza
medica e didattica, confisca dei raccolti ai proprietari terrieri conniventi con
la dittatura.
Avviene così che molti contadini per la prima volta mangino carne, per la prima
volta sappiano che cos'é un medico, che finalmente imparino a leggere e a
scrivere.
Si costituisce un battaglione di donne volontarie, il cui valore non è certo da
meno di quello degli uomini; tuttavia all'inizio ci sono proteste da parte dei
guerriglieri: le donne, dicono questi, possono essere impiegate come infermiere
o cuoche, ma la guerra non è per loro. Fidel però insiste; e del resto ha i suoi
buoni motivi per farlo: nessun cubano tollererebbe che una donna gli sia
superiore. E dimostra di aver ragione: la presenza femminile serve da incentivo
durante i combattimenti.
Nel frattempo, la guerriglia va sempre più affermandosi. Era una situazione che
Fulgencio Batista non poteva tollerare. E la sua reazione fu proporzionale alle
sue possibilità e alla sua mentalità. Nell'intento di isolare la guerriglia,
ordinò la reconcentraciòn campesina, vale a dire il concentramento dei
contadini. Fu un vero e proprio esodo: migliaia di persone per un'ampia regione
attorno alla Sierra Maestra furono cacciate dalle loro case e dai loro campi col
ricorso alle bombe incendiarie, per essere quindi rinchiuse tra barriere di filo
spinato. La risposta delle città, in particolare Santiago dove giunsero alcuni
contingenti dei contadini costretti ad abbandonare le terre, fu di tale vigore
da obbligare la dittatura a far marcia indietro e da rinunciare alla
reconcentracion campesina; ed é facile immaginare con che animo i contadini
tornarono alle loro case: sembrava che i latifondisti prima e ora la dittatura
avessero fatto e facessero del loro meglio per gettarli in braccio alla
rivoluzione, e che questa non avesse bisogno di andare a cercarli nelle loro
case, perché li trovava già in marcia.
Nel pieno del caos prodotto dalla repressione, la guerriglia appariva come
l'unica certezza. Ma la città non era solo l'alleata della Sierra: essa influiva
anche per proprio conto sul corso degli eventi, e lo dimostra quel che accadde a
Santiago a partire dal 30 luglio 1957, giorno in cui le pallottole della polizia
falciarono Frank Paìs, capo della resistenza della provincia di Oriente.
All'epoca, Frank aveva soltanto ventitré anni ed era uno dei giovani più
benvoluti di Santiago; e la città intera se ne sentì ferita. Due giorni dopo,
quando si tennero i funerali che furono seguiti da una moltitudine enorme, gli
operai abbandonarono le fabbriche, i bottegai abbassarono le saracinesche. La
repressione non riesce a impedirlo: é lo sciopero generale che, per cinque
giorni, si estende all'intero paese. Il governo non cade, ma traballa. E non
riuscirà più a riprendersi. Se, tra le montagne le masse rurali hanno fatto
fronte comune con un settore radicaleggiante della piccola borghesia, ora é il
grosso della classe rurale e dei lavoratori urbani a unirsi al processo
rivoluzionario. E con che vigore! A Santiago, la risposta all'uccisione di Frank
Paìs non ha bisogno del pretesto di rivendicazioni corporativistiche ne delle
parole d'ordine di una qualsiasi organizzazione.
È il "Basta!" gridato alla dittatura da un popolo intero. Lo sciopero generale
rivoluzionario diviene così una possibilità concreta. Tuttavia, é impossibile
riprodurre a volontà l'impatto emozionale, né d'altra parte si può sostituirlo
con parole d'ordine che non siano il frutto della stretta collaborazione di
tutte le organizzazioni anti Batistiane e non solo del Movimento 26 de julio,
come è stato chiamato, in ricordo dell'assalto, guidato da Fidel, alla caserma
Moncada.
Per tale motivo, lo sciopero fallisce quando, il 9 aprile 1958, viene
prematuramente indetto; ma l'esperienza fatta in tale occasione favorirà d'ora
in poi la formazione di un ampio fronte anti dittatoriale. A fianco del
Movimento 26 de julio si schiererà cosi il grosso dei politici liberali, i quali
non possono restare insensibili alle istanze sociali: non sono solo le masse ad
abbracciare la causa della rivoluzione, ma accade che una corrente della grossa
borghesia zuccheriera cessi di prestare il proprio appoggio a Fulgencio Batista,
irritata dalle sue misure di politica economica. E scenderanno in campo anche i
comunisti, che hanno riaffermato la propria influenza in seno al movimento
operaio (un tempo lo dirigevano: quando contavano tra le loro fila uomini come
Jesùs Menéndez, leader dei lavoratori dello zucchero, assassinato nel 1948); e
con essi il Directorio Revolucionario che rinuncia alla lotta armata nelle città
e organizza la guerriglia nella provincia di Las Villas, e ancora sacerdoti
protestanti e cattolici, questi ultimi mettendosi in conflitto con le alte
gerarchie ecclesiastiche. Ormai si è avviato un processo unitario.
Nel periodo tra lo sciopero spontaneo seguito all'uccisione di Frank Paìs e il
fallito sciopero del 9 aprile, il ciclone non ha cessato di imperversare. Oggi,
rendendo evidente il malessere che regna in seno alle forze armate, si solleva
un reparto di marina, domani è la guerriglia che dopo aver inflitto una serie di
sconfitte all'esercito sulla Sierra, investe la pianura con efficaci e fulminee
incursioni, la cui audacia, impone all'attenzione generale il nome di Camilo
Cienfuegos. Al comando di Raul Castro si apre un secondo fronte in un altro
settore montagnoso della provincia di Oriente, la Sierra Cristal; qui
l'aviazione nemica concentrerà le proprie incursioni, ma la volontà dei
contadini di una regione in cui i comunisti conservano la propria influenza
dall'epoca delle lotte agrarie degli anni '30 é più forte delle bombe: si
organizza la difesa antiaerea, l'intera regione à messa sul piede di guerra
sotto la giuda civile e militare di Raul Castro.
Finalmente la dittatura decide di scatenare un'offensiva generale contro la
Sierra Maestra: diecimila regolari vengono lanciati contro trecento
guerriglieri, i quali finiscono per essere accerchiati in una zona del diametro
di sette chilometri. È una battaglia decisiva, che si svolge lungo l'arco di due
mesi, dal giugno al luglio del 1958. Ma l'offensiva della dittatura fallisce al
momento dell'assalto decisivo: l'inettitudine dei capi militari, la deficienza
dei rifornimenti, che aumenta a mano a mano che le truppe si allontanano dalla
pianura, l'aperta ostilità dei contadini, l'altissimo morale dei ribelli, le
caratteristiche del terreno, il fatto che quello è il periodo delle piogge, le
capacità militari di Fidel, sono altrettanti fattori che hanno certamente una
cospicua influenza: ma, a conti fatti, se trecento uomini riescono a metterne in
rotta diecimila, è perché questi non hanno nessuna intenzione di impegnarsi a
fondo. L'impeto delle masse in rivolta, che finora non sono riuscite a
rovesciare il regime solo perché mancavano di armi, e la cui espressione più
eloquente si è avuta a Santiago, durante i funerali di Frank Paìs, mina il
morale degli organi repressivi della dittatura.
"Non si può negare che l'esercito sia stato battuto dalla fatica, dalle insidie
dei guerriglieri e, soprattutto, dalla demoralizzazione... la quale raggiunse
vette tali da indurre le truppe a ritirarsi su posizioni difensive", ammetterà,
qualche anno dopo, un collaboratore del regime.
Il ciclone rivoluzionario ha ormai travolto il paese intero.
La pianura e le città, indignate dai crimini e dal terrore, si schierano con la
montagna. E ancora una volta, come già in occasione della reconcentraciòn
campesina, il regime si rivela impotente: la sua grande offensiva "finale"
contro la Sierra Maestra si risolve in una sconfitta perché la crescente
resistenza delle masse, per quanto ancora disarmate, lo obbliga a far marcia
indietro. A partire dalla provincia di Oriente, e sviluppandosi lungo l'asse
Sierra Maestra-Santiago, la rivoluzione avanza verso la parte occidentale
dell'isola, alla volta dell'Avana. Su questa convergono le colonne dell'Esercito
ribelle al comando del Che e di Camilo Cienfuegos. Quasi senza incontrare
resistenza, a marce forzate i guerriglieri giungono nella provincia di Las
Villas, al centro, dell'isola.
Ormai, è la guerra civile. Ma Fulgencio Batista tenta ancora una manovra,
convocando le elezioni presidenziali: lui non si presenterà candidato, si
riserva solo di indicare il proprio successore. Ma il tentativo risulta vano: il
successore di Fulgencio Batista non riuscirà mai ad assumere l'incarico. E il
prezzo che la dittatura paga si rivela subito esorbitante: il popolo boicotta le
elezioni, Batista e i suoi si trovano attorno il vuoto, hanno la precisa
sensazione che per essi sia finita. Quella che segue, non é che la resistenza
disperata di alcuni dei suoi reparti militari. Si combattono due battaglie: una
a Guisa, nella provincia di Oriente, dove Fidel sconfigge un nemico dotato di
carri armati, e una a Santa Clara, capoluogo della provincia di Las Villas, che
vede il trionfo del Che il quale intercetta un treno blindato.
Entrambe le battaglie, in certi momenti assai accanite, si concludono allo
stesso modo: la resa o la fuga dei reparti regolari tra l'ostilità di una
popolazione che si é convertita in massa alla causa dei ribelli.
Il 1° gennaio 1959, Fidel lancia, dalla Sierra Maestra, la parola d'ordine dello
sciopero generale rivoluzionario, che per sei giorni paralizza il paese. La
parola d'ordine è: "Tutto il potere all'Esercito ribelle!" E l'alba del mattino
dopo, le sue colonne entrano all'Avana, che il crollo del regime e lo sciopero
generale permettono di conquistare senza colpo ferire.
Nella notte di capodanno del '59 Batista e i suoi seguaci fuggono in aerei
carichi d'oro verso gli USA. Il 1° gennaio 1959 i barbudos entrano all'Avana. La
rivoluzione cubana aveva vinto.
26 luglio 1953 -
La rivoluzione al potere -
È difficile che oggi turisti statunitensi mettano piede all'Avana; e se lo
fanno, non sono più quelli di un tempo, attratti dagli sgargianti manifesti e
dalle allusioni sussurrate. Oggi, i viaggiatori che giungono all'isola sono
mossi da un preciso intento, quello di assistere a un esperimento sociale. Non
trovano chiasso, le automobili sono poche, le vetrine non traboccano di merci.
C'è una sola maniera per affrontare i mali di sempre, la miseria e il "tiempo
muerto", l'analfabetismo e la corruzione, ed essa è consistita e consiste
nell'abolire il privilegio e quindi lavorare, lavorare duramente. L'Avana ha
cessato così di essere la Bengodi dei turisti, il luogo dove il piacere e il
divertimento non conoscevano soste.
Che, una volta giunte al potere, le rivoluzioni debbano fare i conti con una
realtà meno rosea di quella sognata dai suoi dirigenti, costituisce forse una
regola. Comunque, la rivoluzione cubana presenta una curva di sviluppo senza
precedenti. I giovani che parteciparono all'assalto contro la caserma Moncada,
credettero di individuare il loro programma nella autodifesa pronunciata da
Fidel davanti al tribunale, La storia mi assolverà. Si trattava di un programma
di nazionalismo avanzato, nel quale facevano spicco la riforma agraria e la
nazionalizzazione dei monopoli elettrici e telefonici statunitensi.
Il turbine del 1957-58 travolse anche il programma di Fidel. I documenti di
quegli anni, e soprattutto le dichiarazioni rese da Fidel alla stampa
nordamericana, o non facevano parola o addirittura apertamente revocavano le
nazionalizzazioni; la riforma agraria non era dimenticata, ma se ne limitavano
gli effetti e l'accento era posto sulle elezioni da convocarsi una volta
abbattuta la dittatura. A che cosa si doveva questa mitigazione del programma?
Alla necessità di coinvolgere tutte le forze, compresa la grande borghesia
zuccheriera, nella battaglia contro Fulgencio Batista.
L'ora della ridefinizione dei programmi suonò quando la rivoluzione fu al
potere; la grande borghesia zuccheriera l'intendeva a modo suo, e lo stesso
facevano gli Stati Uniti; l'esercito ribelle formato da poveri contadini,
lavoratori rurali ed urbani, giovani rappresentanti radicalizzati della classe
media avevano anch'essi la loro idea della rivoluzione. Le conseguenze sono ben
note. Un'intera fase venne "saltata" con stupefacente rapidità, accantonando il
programma di nazionalismo avanzato esposto ne La Storia mi assolverà.
Fu il
"grande balzo" degli anni 1959-61: la proprietà terriera venne abolita, i
capitali USA espropriati insieme ai possessi della grande borghesia zuccheriera
e della borghesia industriale.
E lo scontro fu inevitabile, fino al tentativo di invasione organizzato
all'estero e del quale il presidente Kennedy si dirà pubblicamente responsabile:
il vano tentativo controrivoluzionario, nel 1961, lo sbarco a Playa Giròn (Baia
dei porci) che venne respinto dalle forze armate cubane.
E poi, l'anno dopo, la crisi dei missili: l'URSS aveva installato sull'isola
rampe di missili nucleari e gli aerei spia statunitensi le avevano individuate;
immediatamente Kennedy ordinò il blocco navale e chiese con forza lo
smantellamento delle basi.
Krushëv non era intenzionato a cedere e per qualche giorno il braccio di ferro
tra le due superpotenze rischiò di trasformarsi in scontro diretto: sarebbe
stata la terza guerra mondiale.
L'intensissimo lavoro diplomatico (cui partecipò attivamente anche Giovanni
XXIII) riuscì a trovare una mediazione e la catastrofe fu evitata.
Ma gli USA continuarono in tutti i modi a colpire Cuba: il pretesto era la sua
posizione geografica, una sorta di gigantesca "portaerei" nemica a poche miglia
dalle coste della Florida, ma col ritiro dei missili sovietici ciò non aveva
senso. Il punto era un altro: America centrale e del sud venivano considerate
dagli USA territori sotto la propria sfera d'influenza, ed era intollerabile che
proprio a due passi vi fosse un paese che non voleva saperne di dire sempre yes
e che, anzi, era addirittura governato dai comunisti...
Il blocco economico, i sabotaggi, i piani della CIA per assassinare Fidel, gli
incidenti organizzati a partire dalla base navale che gli USA continuano a
tenere a Guantanamo, in territorio cubano.
In tale contesto, che è virtualmente uno stato di guerra, risultava difficile
pensare alle elezioni; inoltre, da un lato il governo rivoluzionario ereditava
dalla struttura politica preesistente uno strumento elettorale viziato in
partenza, dall'altro la maggior parte dei politici, benché si fossero lasciati
indurre ad affrontare la dittatura, non parevano più disposti a rinnovare
l'alleanza con la rivoluzione ora che questa, conquistato il potere, si stava
dando un programma degno di lei. E, come un secolo prima avevano fatto i loro
colleghi francesi, quando c'era stata la Comune di Parigi, gli uomini politici
imitarono i rappresentanti della classe di cui erano dopo tutto i portavoce, la
grande borghesia zuccheriera, e se la svignarono alla volta di Miami.
E lì
rimasero.
Il biennio 1959-1961 vide compiersi il grande balzo: riforma agraria,
nazionalizzazioni, campagna contro l'analfabetismo, il tentativo di invasione
alla Baia dei Porci fatto fallire nel giro di settantadue ore, la proclamazione
del carattere socialista della rivoluzione. Fu il "grande balzo", furono le
grandi illusioni. Cuba, vetrina del mondo nuovo; Cuba, avanguardia della
rivoluzione continentale. Ma alle grandi illusioni ha fatto seguito la
delusione, salvo in coloro che, in buona fede, sognavano la rivoluzione pura e
in coloro che sognavano una Cuba contrapposta all'Unione Sovietica.
Sull'isola,
una presa di coscienza nuova rimpiazzò le illusioni, imponendo l'aperto
riconoscimento delle difficoltà e degli errori commessi. Ed è a questo livello
che la rivoluzione cubana si integra nel contesto del fenomeno rivoluzionario
generale: la realtà impone assai spesso mete più modeste di quelle desiderate o
previste dai leader. E ciò spiega i discorsi autocritici di Fidel o quelli da
lui pronunciati, verso la fine del 1971, in Cile: discorsi non meno
rivoluzionari di quelli a suo tempo fatti dal giovane tutto proteso verso la
lotta armata.
Anche nell'America centrale e meridionale, durante gli anni '60, le illusioni
seguirono una strada e i fatti invece ne seguirono un'altra. Un'intera
generazione, uscita per lo più dalle fila della classe media, fece proprie
quelle aspettative.
La lezione costò vite di valorosi, tra esse quella dell'argentino che un giorno
partì a bordo del Granma deciso a battersi per la libertà dei cubani, Ernesto
Che Guevara. Questo certo non basta a togliere alla rivoluzione cubana
l'importanza che le spetta nel processo storico. Da tempo era noto che
nell'America centrale e meridionale qualcosa poteva esser fatto. Ma i risultati
erano stati assai scarsi: la rivoluzione messicana era stata messa in
frigorifero, la boliviana s'era risolta con un processo involutivo, la
guatemalteca era stata schiacciata. E più di recente, ecco la rivoluzione
cubana, che ha inaugurato un nuovo ciclo, nel quale rientrano varie esperienze:
negli anni '70 Unidad Popular in Cile e i militari nazionalisti di sinistra del
Perù, poi i sandinisti del Nicaragua, e più di recente i nuovi atteggiamenti di
una serie di paesi del continente nei confronti degli Stati Uniti, il
nazionalismo populista del Venezuela, il Brasile di Lula.
E a sua volta la
rivoluzione cubana rivela tratti singolari, inediti, per la maniera con cui si
inserisce nel processo rivoluzionario contemporaneo dal punto di vista
geografico, dal momento che non ha frontiere in comune con nessun altro paese
socialista, e insieme, storico, perché non trae origine, né direttamente né
indirettamente dalla congiuntura di una guerra mondiale, e infine ideologico
perché affonda radici nel nazionalismo.
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