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C’ERA UNA VOLTA LA JUGOSLAVIA
 

Storia del conflitto che ha portato alla disgregazione dei Balcani
Le origini delle tensioni tra le diverse etnie della Jugoslavia «Quando si parla della ex-Jugoslavia si suole dire che vi convivevano sei gruppi nazionali: serbi, croati, macedoni, montenegrini, sloveni e musulmani bosniaci, oltre una miriade di gruppi etnici minori quali albanesi, ungheresi, italiani, bulgari, romeni, slovacchi, cechi, ucraini, rom, turchi;

che vi si usavano tre lingue ufficiali e due alfabeti;

che vi si praticavano le religioni cattolica, ortodossa musulmana.

Politicamente era uno Stato federale diviso in sei repubbliche e due province autonome, retto da un regime socialista, diverso però da tutti gli altri socialismi reali.
Questa lucida sintesi fatta dallo storico Jože Pirjvec mostra la complessa realtà socio-politica dellaPaesi della Ex Jugoslavia regione balcanica; realtà che riesce a sopravvivere fino a quando una personalità forte e carismatica come quella del maresciallo Tito difende, conserva, impone, attraverso l’apparato comunista, gli equilibri essenziali per una pacifica convivenza.
Le guerre che insanguinano la Jugoslavia alla fine del secolo scorso hanno, quindi, come immediato background, una situazione di calma apparente, costruita nel corso degli anni da un regime che, tuttavia, non aveva cancellato le divisioni di carattere storico, culturale, religioso che da sempre distinguevano gli slavi del sud.
Nell’età moderna, la storia della penisola balcanica fu fortemente improntata dai giochi di forza di due imperi: quello cristiano degli Asburgo e quello islamico degli Ottomani.
Gli Ottomani, che a partire dalla seconda metà del XV secolo imposero un lunghissimo dominio, influenzarono in maniera determinante i popoli balcanici soprattutto in Bosnia, dove maggiormente si diffuse la cultura e la religione islamica.

Ad ostacolare la loro avanzata in Occidente difendendo, allo stesso tempo, i propri possedimenti e la cristianità dell’Europa, furono gli imperatori d’Asburgo che non nascondevano il desiderio di espandersi a loro volta nei Balcani.
Fin dal Seicento, i sovrani d’Austria avevano creato una sorta di baluardo difensivo tra la Croazia e la Bosnia per impedire lo sconfinamento dei turchi. Quella regione di confine, chiamata Krajina, venne popolata fin da allora da coloni di origine serba e religione ortodossa che all’occorrenza avrebbero dovuto fornire un sostegno militare di difesa: «si formò così una popolazione guerriera, divenuta col tempo uno dei punti di forza dell’esercito asburgico, fatalmente estranea alla maggioranza croata in cui era inserita».

Tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento, si diffusero tra gli intellettuali serbi e croati nuovi ideali che se per certi versi s’ispiravano all’Illuminismo e alla sua ansia riformatrice, per altri erano fortemente influenzati dal nascente Romanticismo di area tedesca che aveva nel nazionalismo e nell’indipendenza dei popoli oppressi due dei suoi punti fermi. Approfittando della profonda decadenza in cui ormai versava l’impero ottomano, i serbi organizzarono negli anni 1804 e 1815 due rivolte per scrollarsi di dosso il potere del sultano; il risultato di queste insurrezioni fu la creazione nel periodo 1817-30 di un piccolo principato semiautonomo retto da un despota locale: Miloš Obrenovic.
Intanto si andava formando una sorta di coscienza ‘jugoslava’ che riteneva possibile unire i popoli balcanici in un unico stato sovrano e indipendente: «In questo clima di fervore intellettuale incominciò a prendere corpo l’idea jugoslava, la quale nacque dalla convinzione, di matrice illuminista, che data l’affinità del loro lessico, sarebbero bastate una lingua letteraria e una
cultura comune per far scoprire ai popoli jugoslavi la loro parentela, fondendoli in un unico Stato.
Portavoce di tale programma fu Ljudevit Gaj, fondatore del ‘movimento illirico’ (gli slavi meridionali erano considerati i discendenti degli antichi illiri), che negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, ebbe ampia diffusione nell’ambito croato».

I difficili rapporti tra l’elemento serbo e il governo di Instabul si trasformarono in una questione internazionale nel 1877, quando la Russia intervenne a fianco della Serbia in un nuovo conflitto. Al Congresso di Berlino del 1878, convocato dal cancelliere Bismarck dopo la vittoria dello zar sulla
Turchia, le maggiori potenze europee decisero di porre la Bosnia-Erzegovina sotto l’amministrazione austriaca per bilanciare l’influenza che la Russia stava assumendo nella regione balcanica. Altro importante risultato del Congresso fu il pieno riconoscimento del regno di Serbia dove ben presto si diffuse un nazionalismo sempre più esasperato.

Quando nel 1908 la Bosnia venne annessa all’Austria-Ungheria anche formalmente, i malumori di serbi e musulmani aumentarono in quanto «tale gesto fu interpretato come una sfida alle propria aspirazioni al dominio della provincia, dando ulteriore impulso alle reciproche animosità.

Dopo le due guerre balcaniche (1912-13), la Serbia riuscì ad annettersi parte della Macedonia - la vallata del Vardar e la regione del Kosovo  - abitata prevalentemente da albanesi. Per impedire al nuovo stato di divenire troppo potente, l’Austria-Ungheria e l’Italia favorirono la nascita del principato d’Albania, che doveva impedire alla Serbia lo sbocco nell’Adriatico. Poiché non si tenne in nessun conto il principio etnico, gli albanesi si trovarono divisi tra diverse entità statali.
Durante il primo conflitto mondiale, i popoli jugoslavi si trovarono su opposte barricate: sloveni, croati, musulmani di Bosnia, come pure i serbi della Croazia della Vojvodina e della Bosnia, sotto le bandiere asburgiche; serbi e montenegrini furono invece alleati dell’Intesa. Alla fine della guerra, croati e sloveni, che si trovavano in una posizione piuttosto ambigua in quanto non si sapeva se considerarli nemici sconfitti o popoli liberati dal dominio di Vienna, decisero di aggregarsi al regno serbo «al quale guardavano da tempo come ad una possibile alternativa per sottrarsi al dominio ungherese e austro-tedesco.

Affrettatamente e senza precisi accordi preliminari fu dunque proclamata l’unione dei tre popoli sotto la dinastia dei Karadjordjevic, soluzione che si sarebbe dimostrata ben presto assai problematica per il manifestarsi di inattesi conflitti d’interesse, di tradizioni storiche e culturali. Mentre i serbi vedevano il nuovo regno come un ampliamento del loro vecchio stato ed erano insensibili alle richieste d’autonomia provenienti da Zagabria eAlessandro 1° di Jugoslavia Lubiana, i croati e gli sloveni lo avvertivano come una compagine sostanzialmente estranea ai loro interessi e alla loro mentalità. Ne derivò tutta una serie di scontri e violenze, culminati nell’ottobre 1934 con l’assassinio a Marsiglia del re Alessandro, in viaggio ufficiale in Francia, organizzato da Ante Pavelic, capo del movimento di estrema destra croato degli ‘ustascia’.

Difficile era anche il rapporto tra i musulmani di Bosnia e il governo di Belgrado soprattutto perché nell’ambito di una vasta riforma agraria venne tolta ai feudatari musulmani tutta la terra possibile che fu ridistribuita a nuovi proprietari in maggioranza serbi.

A complicare ulteriormente la situazione, non mancarono le rivendicazioni sulla Bosnia-Erzegovina da parte dei croati, non solo perché sul suo territorio erano stanziati da sempre dei loro connazionali, ma anche perché gli stessi  musulmani venivano considerati dei cattolici convertiti durante il dominio ottomano.
Nei confronti delle altre etnie, albanese e macedone, il governo di Belgrado negò, «fin dalla conquista delle loro terre nel corso delle guerre balcaniche, qualsiasi diritto all’individualità nazionale e culturale. Essi furono considerati dai nuovi padroni una popolazione sottosviluppata da assimilare o scacciare il prima possibile. A tal fine non si andò per il sottile, scatenando contro i macedoni e in maniera ancora più brutale contro gli albanesi, avvertiti del tutto estranei per stirpe e fede musulmana o cattolica, un vero e proprio regime di terrore, che causò numerose vittime guastando irrimediabilmente i rapporti interetnici.
La convivenza tra le diverse etnie divenne addirittura drammatica durante la seconda guerra mondiale, quando la Jugoslavia venne occupata dagli eserciti stranieri e, in Croazia, si formò lo stato autonomo filofascista di Ante Pavelic che inglobò anche la Bosnia-Erzegovina. Gli ‘ustascia’di Pavelic portarono avanti una politica fortemente discriminatoria nei confronti della minoranza serba che subì deportazioni, massacri e conversioni forzate al cattolicesimo.
Intanto cominciava ad organizzarsi la resistenza contro le truppe di occupazione, in prevalenza tedesche e italiane; a partire dall’estate del 1941, due formazioni, diverse per ideologia, composizione etnica, diffusione nel territorio, iniziarono la lotta di liberazione.

Si trattava dei cetnici di Draža Mihailovic e dei partigiani comunisti di Tito: i primi erano serbi fedeli al governo e al giovane re Pietro Karadjordjevic in esilio a Londra; i secondi aspiravano a realizzare uno stato federale di tipo socialista, sul modello dell’URSS, una volta liberati dal tallone nazi-fascista.
Alla fine «il movimento partigiano uscì vittorioso dal marasma della seconda guerra mondiale perché si mostrò capace di diffondersi in gran parte del paese ma soprattutto perché a partire dal 1943, fu considerato dai britannici l’unico in grado di combattere veramente i tedeschi e aiutato di conseguenza con armi e rifornimenti di ogni tipo.


Terminato il conflitto, Tito riuscì a creare un organismo federale comprendente sei repubbliche (Serbia, Croazia, Montenegro, Macedonia, Bosnia, Slovenia ) e due province autonome (Kosovo e Vojvodina) che avevano fatto parte integrante del regno di Serbia. Il distacco delle due province venne considerato dai serbi come un tradimento e una sopraffazione da parte dei comunisti: «Al momento non fu ovviamente possibile nessun tipo di protesta, dato il totale controllo che il partito, attraverso l’esercito e la polizia segreta, esercitava sulla società. Solo decenni più tardi la protesta avrebbe trovato espressione nell’accusa a Tito e ai suoi di aver voluto una Serbia debole per avere un Jugoslavia forte».
Nel 1948 avvenne un fatto piuttosto traumatico per l’universo socialista: il partito comunista jugoslavo, a cui probabilmente i diktat del Cremlino andavano stretti, venne espulso dal Cominform, l’organismo di consultazione fra partiti comunisti europei. La Jugoslavia di Tito usciva dall’orbita sovietica per portare avanti un percorso di stato non allineato.
Malgrado lo stretto controllo del regime, le rivendicazioni delle varie etnie, soprattutto di quelle maggiormente svantaggiate, non vennero meno. Quando nel 1968 le truppe del Patto di Varsavia, che avevano già invaso la Cecoslovacchia per porre fine alla Primavera di Praga, sembravano minacciare un intervento contro Tito, i kosovari decisero di sfruttare il difficile momento per ottenTitoere maggiori diritti e il distacco completo dalla Serbia.

Per porre un limite alle rimostranze, nel 1974 venne promulgata una nuova costituzione che garantiva alle province autonome della Vojvodina e del Kosovo maggiori libertà e possibilità di autogestione, impedendo in pratica alla Serbia qualunque ingerenza. Inoltre, «secondo la formula rituale, presa a prestito da Lenin, alle repubbliche – ma non alle due province– veniva riconosciuto il diritto alla secessione e all’autodeterminazione.

Alla morte di Tito, avvenuta il 4 maggio 1980, la Jugoslavia si trovò ad affrontare le sue tante contraddizioni senza che la forza coesiva del partito comunista potesse impedirne la disgregazione.
Ancora una volta la spia del malessere si accese nel Kosovo dove, nel marzo 1981, la popolazione di etnia albanese tentò l’ennesima rivolta contro la minoranza serba chiedendo il distacco definitivo da Belgrado. La questione del Kosovo era estremamente delicata perché per i serbi quella regione era storicamente essenziale per la loro identità nazionale. Pertanto, non solo la rivolta venne
repressa facendo intervenire l’Armata popolare, ma si scatenò un violento nazionalismo che mise in allarme le altre etnie della Federazione.


Se da una parte Croazia e Slovenia incominciavano a pianificare la secessione, dall’altra aumentavano i timori dei serbi di vedere il loro popolo smembrato in tre indipendenti entità statali: la Serbia, la Croazia e la Bosnia Erzegovina.
Frutto di questo clima esasperato fu il Memorandum elaborato da un gruppo di intellettuali dell’Accademia delle Scienze e delle Arti di Belgrado nel 1986: Esso si basava su tre considerazioni fondamentali: affermava che il popolo serbo nella sua storia si era sempre sacrificato per gli altri, ma, nonostante ciò, era stato sempre derubato dei frutti delle proprie vittorie e che, anche nella Jugoslavia socialista, come già nei secoli precedenti, era esposto a un genocidio strisciante. “A nessun popolo della Jugoslavia viene negata in maniera massiccia la sua identità culturale e spirituale come a quello serbo”. Per ovviare a tale triste situazione il Memorandum chiedeva il ripristino della piena sovranità di Belgrado su tutto il territorio repubblicano (in pratica l’abolizione dell’autonomia del Kosovo e della Vojvodina), nonché l’instaurazione della piena integrità nazionale e culturale serba a prescindere dalla Repubblica o dalla Provincia in cui vive".
Alla fine degli anni Ottanta, chi seppe abilmente influenzare l’opinione pubblica in Serbia in senso spiccatamente nazionalista fu Slobodan Milosevic che, dal 1987, si trovava a capo del partito comunista serbo. Facendosi promotore della difesa dei valori e degli interessi del popolo serbo, riuscì a portare dalla sua parte non solo i nazionalisti più accesi ma la stessa chiesa ortodossa e, soprattutto, l’Armata popolare i cui ufficiali erano in prevalenza serbi e montenegrini. Non contento del suo successo personale in patria, dove oramai veniva chiamato vožd (duce), cercò di manovrare anche la politica del Montenegro e delle province autonome rovesciando, con l’aiuto dei servizi segreti, i rispettivi governi e sostituendoli con altri a lui favorevoli, malgrado la forte opposizione degli albanesi del Kosovo. Incominciò, inoltre, a influenzare la popolazione serba di Croazia e della Bosnia con il progetto della Grande Serbia il cui fine era “riunire tutte le terre serbe sotto un unico tetto”.

Non si trattava solo di propaganda ideologica: segretamente i serbi delle repubbliche vicine incominciarono ad armarsi. Mentre si andava sgretolando il sistema comunista nell’Europa orientale, in Slovenia e Croazia furono indette le prime libere elezioni, proprio all’indomani dell’abbattimento del muro di Berlino. Se in Slovenia gli ex comunisti furono sconfitti da una coalizione di orientamento cattolico-liberale, in Croazia divenne il nuovo protagonista della vita politica un ex partigiano di Tito, Franjo Tudjman.

Leader dell’Unione democratica croata, Tudjman si fece portavoce di un nazionalismo non meno becero di quello serbo.

Appena al potere, invece di tranquillizzare la minoranza serba presente nella sua repubblica, prese una serie di misure miranti a diminuirne il peso nella vita pubblica e nell’amministrazione, dando il via ad un’ondata di licenziamenti e atti discriminatori.
Né si limitò a questo: nella nuova costituzione, approvata nel dicembre del 1990, all’etnia serba, circa il 12% della popolazione della Croazia, veniva tolto lo status di nazione costituente la Repubblica, relegandola a livello di una qualsiasi minoranza etnica. Tale attitudine, accompagnata dal recupero di simboli nazionali croati, cui gli ustascia avevano impresso il marchio infame della loro ideologia, e dalla riabilitazione dello stato indipendente croato di Pavelic, suscitò tra i serbi un vivissimo allarme che Milosevic, eletto nel dicembre del 1989 presidente della Serbia, seppe sfruttare con molta accortezza.
Era come gettare benzina sul fuoco. Incoraggiato dall’indifferenza dell’Occidente dove nessuno si curava di ciò che stava succedendo in Jugoslavia, Milosevic non solo promosse embarghi economici contro le repubbliche di Slovenia e Croazia, ma fomentò un movimento di resistenza al legittimo governo di Zagabria nella cittadina di Knin dove la popolazione era in maggioranza serba.
Nell’agosto del 1990, la rivolta dei serbi di Knin si estese a tutta la Krajina dove si richiedeva l’indipendenza dalla Croazia per annettersi alla Serbia.
Il 28 febbraio 1991 venne proclamata la Provincia autonoma serba della Krajina. Ogni tentativo da parte di Zagabria di ristabilire il proprio controllo sulle aree coinvolte fallì per l’intervento dell’Armata popolare a favore dei rivoltosi.


La guerra in Slovenia. 1991
La dissoluzione della Jugoslavia avviene in un momento in cui la situazione internazionale non si presenta affatto favorevole ai movimenti indipendentisti. Sono tanti gli avvenimenti, e tutti di importanza capitale, che in quell’inizio di decennio coinvolgono il mondo intero: la prima guerra del Golfo, l’unificazione della Germania, lo sfacelo dell’impero sovietico, il disarmo nucleare.
L’Europa e gli Stati Uniti non vogliono che si crei un’altra area di crisi nei Balcani. Tutti si augurano che il governo federale riesca a riportare alla ragione le repubbliche “ribelli” e lasciano, di fatto, campo libero a Milosevic.

Nei circoli governativi internazionali era infatti assai diffusa la convinzione che la Jugoslavia alla fin fine non fosse altro che una Grande Serbia da preservare nella sua integrità, a costo di lasciarla in balia di Slobodan Milosevic e dell’Armata popolare, capeggiata da un gruppo di ufficiali vetero-comunisti.

La volontà di conservare intorno al nucleo serbo i territori che vi gravitavano era condizionata dalla consapevolezza che la Jugoslavia aveva un preciso ruolo strategico nel mantenimento dei delicati equilibri militari e geopolitici dell’intero Sud-est europeo. Costituiva inoltre un importante nodo di comunicazione tra il mar Egeo e il bacino danubiano che bisognava conservare se non altro per non interrompere i flussi commerciali via terra tra il grosso della CEE e la Grecia».

La situazione intanto andava precipitando: il 25 giugno 1991, i parlamenti di Slovenia e Croazia proclamarono l’indipendenza dei loro paesi.
Il governo di Lubiana ordinò ai poliziotti e doganieri sloveni di prendere il controllo delle frontiere con l’Italia, l’Austria e l’Ungheria ma posti di blocco vennero istituiti anche a confine con la Croazia.

I simboli federali furono sostituiti con quelli nazionali.
Il parlamento federale di Belgrado, privo ormai dei suoi membri sloveni e croati, si riunì e dichiarò illegittima la dichiarazione di indipendenza.

Il 26 giugno, intanto, si svolse nella piazza principale di Lubiana la solenne cerimonia, nel corso della quale fu proclamata l’indipendenza della Slovenia e sostituito il tricolore jugoslavo con la nuova bandiera.
Il governo federale pensava di liquidare la faccenda nell’arco di ventiquattro ore facendo intervenire l’Armata popolare nei punti strategici della Slovenia.

Ma la Difesa territoriale, formata da forze armate volute dallo stesso Tito per assicurarsi il controllo del territorio, seppe opporre una valida resistenza all’esercito. Dopo aver tentato ancora una volta di evitare lo scontro armato, telefonando al presidente del Consiglio federale Markovic per indurlo a fermare l’offensiva, il presidente sloveno Kucan diede l’ordine di sparare.
Gli ufficiali dell’Armata popolare sottovalutarono imprudentemente l’organizzazione della Difesa territoriale, alla quale loro stessi avevano contribuito durante il regime, non riuscendo a contrastarla efficacemente.

L’azione militare, infatti, si concluse per loro con una clamorosa umiliazione che mise in crisi il governo di Markovic a cui l’Occidente aveva affidato il compito di risolvere la questione senza intervenire direttamente.
Ora Markovic non aveva altra scelta che accettare l’ingerenza della Comunità europea per risolvere i problemi interni del paese.
Una trojka, formata dal ministro degli Esteri del paese che aveva la presidenza della Comunità, dal suo predecessore e dal suo successore, venne inviata a Belgrado per cercare di risolvere la crisi puntando ancora sull’integrità della Jugoslavia.

Vista l’irremovibilità degli Sloveni a cedere sulla questione dell’indipendenza, si prese tempo con una moratoria di tre mesi che “congelava” la separazione da Belgrado.
Intanto, la posizione del governo federale nei confronti della Slovenia andava mutando per influenza della stessa Serbia di Milosevic che non vedeva negativamente “l’amputazione” della Slovenia, dove non vivevano minoranze serbe. Così, ai primi di luglio, l’Armata popolare cominciò a ritirarsi dalla Slovenia per dirigersi verso la Croazia.

Il 7 luglio 1991, i rappresentanti della Comunità europea e delle parti in lotta si riunirono a Brioni per raggiungere un accordo con cui si sarebbe sancita la fine della guerra in Slovenia.
Il conflitto durò dieci giorni e si concluse con un bilancio di 74 morti e 280 feriti, in maggioranza appartenenti all’Armata popolare jugoslava
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La guerra in Croazia
A preparare la guerra contro la Croazia ci fu un’attiva propaganda da parte di Belgrado in cui il passato veniva strumentalizzato per fomentare nella popolazione serba l’odio e il timore verso i croati e il nuovo governo di Zagabria.
D’altra parte, i provvedimenti che Tudjman aveva preso, appena giunto al potere, non erano i più idonei a tranquillizzare la minoranza serba della repubblica croata.

Ai servizi segreti e all’Armata popolare non fu dunque difficile costituire fin dal 1990, nelle aree prescelte, gruppi armati per spingerli a lottare contro gli odiati ustascia e dimostrare all’opinione pubblica locale e internazionale che il “popolo serbo minacciato” si era levato spontaneamente a propria difesa, come già mezzo secolo prima ai tempi dello stato indipendente croato.
Essendo ancora in atto la guerra contro la Slovenia, alla fine del giugno1991 venne attaccata la Slavonia orientale, regione croata a confine con la Serbia. Ben presto le azioni militari si estesero ad altri territori tra cui la Dalmazia con l’area di Dubrovnik dove i serbi rappresentavano una minoranza.
Punto di forza dei serbi era la Provincia autonoma della Krajina che aveva disconosciuto il governo di Zagabria fin dal febbraio 1991 chiedendo l’annessione alla Serbia. I croati, temendo ritorsioni, cominciarono ad abbandonare la regione.
Ma il teatro principale della guerra restava la Slavonia dove furono attaccate le città di Osijek,
Il 4 agosto a Dalj, poco distante da Vukovar, si ebbe uno dei primi esempi di ‘pulizia etnica’ di grandi proporzioni.

180 croati si rifugiano nella chiesa locale, tra loro Sjepan Penic, cronista del quotidiano croato “Glas Slavonije”. I serbi intimano la resa, un primo gruppo di sessanta persone esce dalla chiesa ed è trucidato sul posto. I rimanenti vengono portati nello stadio e fucilati. I loro corpi restano per tre giorni in vista e poi vengono bruciati.
Ancora una volta l’Armata popolare venne utilizzata come forza di aggressione, non solo contro militari ma anche contro civili inermi. Tuttavia, a causa della renitenza alla leva, l’esercito federale era piuttosto sguarnito, perciò Belgrado fece ricorso alla polizia locale, alla Difesa territoriale e, soprattutto, a forze paramilitari adeguatamente addestrate fin dalla primavera precedente. Queste si distinsero ben presto per la loro ferocia; tra i gruppi che diverranno tristemente famosi ci fu quello delle Tigri il cui comandante Arkan, ex capo della tifoseria della Stella Rossa di Belgrado e killer dei servizi segreti jugoslavi, era un uomo fidato di MiEsercito Serbo - Tigri di Arkanlosevic.

Saranno i suoi mercenari, insieme ad altri gruppi paramilitari, ad entrare per primi a Vukovar dopo un assedio durato più di tre mesi, e a macchiarsi di crimini inauditi come l’uccisione di 261 persone, tra medici e feriti ricoverati nell’ospedale locale.
In un quadro estremamente drammatico fin dai primi atti del conflitto, la comunità internazionale si dimostrò impreparata a gestire la crisi anche a causa delle divisioni che tenevano le potenze europee su posizioni nettamente distanti le une dalle altre per motivi di opportunità politica. Se la Germania, attraverso il suo ministro degli Esteri Genscher, premeva per il riconoscimento di Slovenia e Croazia, Francia e Inghilterra dimostravano a tal proposito la loro contrarietà in quanto preoccupate di una possibile espansione dell’influenza tedesca nei Balcani. Di queste divisioni e incertezze seppe approfittare Milosevic che continuava a negare di essere in guerra con la Croazia, sostenendo che gli interventi militari contro i croati avevano l’esclusivo scopo di difendere i serbi dalla persecuzione degli ustascia. Grazie alla propaganda, questa era la convinzione di buona parte dell’opinione pubblica serba e della stessa Chiesa ortodossa, guidata dal patriarca Pavle.
Per capire quanto fosse miope la visione che gli europei avevano della questione jugoslava basti dire che il ministro degli Esteri olandese Van den Broek considerava Milosevic il miglior politico europeo, nel tragico luglio del 1991.
Intanto, i ministri degli esteri della Comunità europea, riuniti a Bruxelles, promisero di inviare in Croazia cinquecento osservatori e riconobbero l’inviolabilità delle frontiere tra le diverse repubbliche jugoslave.
Nella notte tra il 19 e il 20 agosto venne messo in atto a Mosca il golpe contro Gorbaciov che fece sperare a Milosevic un ritorno al regime comunista nell’URSS, fatto che avrebbe potuto favorire la ricostituzione di una Jugoslavia socialista a netta supremazia serba. Nell’immediato, l’insurrezione russa allentò il controllo dell’Occidente sugli avvenimenti jugoslavi, consentendo ai serbi di inasprire l’offensiva contro la Croazia. È di quei giorni l’inizio dell’assedio di Vukovar, importante porto fluviale sul Danubio che in quel tratto segna la frontiera croata-serba.
L’assedio fu durissimo perché i croati, che rappresentavano la maggioranza della popolazione, contrapposero una valida resistenza, coadiuvati da forze paramilitari. Da parte loro gli assedianti non si limitarono all’uso di blindati e artiglieria pesante ma ricorsero, come poi succederà a Sarajevo, ai cecchini che colpivano civili inermi nelle strade, scuole, asili, ospedali.
Quando le armate serbe conquistarono la città dopo ottantasei giorni d’assedio, i civili morti erano circa quattromila.
Il 6 settembre si aprì all’Aia, presieduta dall’inglese Lord Carrington, la conferenza di pace voluta dalla Comunità europea per risolvere il conflitto in Jugoslavia. In realtà, la conferenza servì a mettere ancora una volta in evidenza le solite divisioni. Alla fine, prevalse la proposta franco-britannica di chiedere l’intervento dell’ONU, decretando in questo modo l’incapacità degli europei di risolvere autonomamente i propri problemi.
Il Consiglio di Sicurezza non ritenne opportuno inviare un contingente di pace come richiesto dalla Comunità europea anche per la contrarietà espressa dai serbi riguardo ogni intervento di forze esterne in territorio jugoslavo; pertanto si limitò a decretare, con la Risoluzione 713, «un generale e totale embargo su tutte le forniture di armi e materiale bellico alla Jugoslavia». Di fatto questo provvedimento avvantaggiava la Serbia che aveva il controllo dell’Armata popolare e di gran parte dell’industria bellica, senza contare che da tempo aveva armato i villaggi serbi delle altre repubbliche. Milosevic rafforzò così l’offensiva contro la Slavonia e la Dalmazia meridionale, colpendo la stessa cittadina di Dubrovnik, malgrado fosse sotto la tutela dell’UNESCO.
Intanto, in Bosnia-Erzegovina i serbi incominciarono a favorire la formazione di ‘regioni autonome’, costituite in base a criteri etnici e strategici e dotate di milizie locali. Il presidente bosniaco Izetbegovic, allarmato all’idea di trovarsi alla mercé di Milosevic e dell’Armata popolare, propose al parlamento di Sarajevo il progetto di una Bosnia-Erzegovina indipendente da Belgrado; il 15 ottobre i deputati croati e musulmani votarono a favore dell’indipendenza mentre i serbi abbandonarono l’aula. Tuttavia i croati non si limitarono a dichiararsi favorevoli alla secessione dalla Federazione ma crearono l’Unione croata Herceg-Bosna che, per volontà di Tudjman, verrà posta sotto la guida di Mate Boban, un personaggio poco rassicurante già condannato per reati comuni e agente del controspionaggio dell’Armata popolare.
In dicembre, le regioni autonome di etnia serba si costituirono in Repubblica serba della Bosnia-Erzegovina, includendovi Sarajevo; come presidente venne scelto il capo del Partito democratico serbo, Radovan Karadžic che, riguardo l’indipendenza della Bosnia da Belgrado, si era in precedenza così espresso: «State attenti a che gioco giocate. Se ci muoviamo, l’intero vostro popolo perirà sull’autostrada dell’inferno».


La dissoluzione della Bosnia era iniziata.
Mentre il conflitto serbo-croato raggiungeva l’acme della violenza, Milosevic e Tudjman trovavano un punto di contatto per il loro acceso nazionalismo nell’idea di spartirsi la Bosnia-Erzegovina per dare vita a una Grande Serbia e ad una Grande Croazia, sicuri che l’Occidente non avrebbe ostacolato i loro piani intervenendo a favore dei musulmani bosniaci.
In dicembre, anche l’inconcludente diplomazia europea arrivò finalmente ad un accordo: a Bruxelles, i ministri degli esteri comunitari s’impegnarono a riconoscere, entro il 15 gennaio 1992, l’indipendenza di tutte le repubbliche jugoslave che avessero fatto richiesta del riconoscimento, a patto che si conformassero ad una serie di principi stabiliti in base alle direttive ONU e della stessa Ue.
L’ONU, da parte sua, decise l’invio di un contingente di Caschi blu nelle zone interessate dal conflitto e affidò a Cyrus Vance l’elaborazione di un piano per l’attuazione della tregua tra le parti in lotta.
Il Piano Vance venne accettato da Milosevic e Tudjeman che si preoccuparono di imporlo ai rispettivi parlamenti; ciò permise di porre temporaneamente fine al conflitto in Croazia.
Il 15 gennaio 1992 i paesi dell’Ue, il Vaticano, gli stati baltici, l’Ucraina e l’Islanda riconobbero l’indipendenza della Croazia e della Slovenia.


La guerra in Bosnia-Erzegovina. 1992-1995
Alla vigilia della guerra la composizione etnica della Bosnia era così formata: musulmani 41% della popolazione; croati 17%; serbi 31%. Le varie etnie erano sparse nel territorio in modo irregolare, perciò era praticamente impossibile tracciare dei confini netti come cercherà di fare la diplomazia internazionale per porre fine alle violenze. I croati erano concentrati soprattutto nell’Erzegovina  occidentale; l’etnia serba era prevalente nella Bosnia settentrionale e in quella occidentale. I serbi bosniaci erano separati dalla madrepatria da territori in cui era molto forte la presenza della popolazione musulmana, che doveva essere cacciata via se si voleva ricongiungere quelle regioni alla Serbia.
Dopo la creazione dell’Herzeg-Bosna croata e della Repubblica serba di Bosnia–Erzegovina, solo il presidente Izetbegovic credeva nella possibilità di uno stato bosniaco unitario in cui le tre etnie potessero continuare a convivere pacificamente avendo pari diritti.
La sorte della Bosnia sembrava segnata anche per il fatto che, fin dal periodo del regime comunista, nel suo territorio era concentrato il grosso dell’esercito federale e la maggior parte delle fabbriche d’armi: i cannoni di Derventa, i fucili di Travnik, i blindati di Novi Travnik, la più grande fabbrica di esplosivi della Jugoslavia a Vogošca, i detonatori di Goražde e così via.

Nel suo saggio sulle guerre nella ex-Jugoslavia Luca Rastello riporta che:«la repubblica centrale della Federazione nel 1989 è censita dalle agenzie internazionali come la più alta concentrazione al mondo di produzione d’armi al metro quadro».
L’espressione che definisce i Balcani ‘la polveriera d’Europa’ non ha, in questi anni, un significato prettamente metaforico.
Intanto, con la Risoluzione 743, l’ONU decise l’invio di caschi blu nella Krajina e nella Slavonia orientale per favorire il processo di normalizzazione in Croazia. Nasce così l’UNPROFOR (United Nations Protection Force), che avrebbe dovuto concludere la sua missione nel giro di un anno con l’impiego di un numero limitato di uomini.

Contro ogni aspettativa il mandato UNPROFOR si protrasse invece nel tempo, trasformandosi nell’operazione più costosa delle Nazioni Unite e  numericamente più consistente: dagli iniziali 14000 caschi blu si arrivò nel ’95 a ben 45000 appartenenti a trentanove nazioni (per non dire di una dozzina di agenzie speciali e di migliaia di funzionari incaricati di occuparsene).
Con quali risultati l’opinione pubblica internazionale poté presto vedere.
In effetti i caschi blu avevano solo la funzione di controllare il territorio ma non potevano intervenire con la forza per difendere i civili in quanto l’uso delle armi era consentito loro solo per autodifesa. Perciò, malgrado la loro presenza, i serbi continuarono, in Croazia come poi in Bosnia, a praticare la pulizia etnica massacrando la popolazione appartenente a un’etnia diversa per conquistare territori e insediarvi propri connazionali.

A onor del vero bisogna dire che il ricorso alla pulizia etnica non fu una loro prerogativa.
Il 29 febbraio e il 1° marzo 1992 si svolse il referendum che avrebbe dovuto favorire il riconoscimento dell’indipendenza della Bosnia da parte della comunità internazionale.

Boicottato dai serbi (Karadžic impedì che si aprissero le urne nei territori da lui controllati), il referendum fu espressione solo della parte croata e musulmana della popolazione che si espresse a favore dell’indipendenza da Belgrado. Con la proclamazione ufficiale dell’indipendenza, a Sarajevo incominciarono le azioni di guerriglia, mentre unità paramilitari serbe si posizionavano sulle alture intorno alla città dove da tempo erano stati collocati pezzi di artiglieria pesante da parte dell’Armata popolare. Malgrado nei giorni 6-7 aprile arrivasse il riconoscimento dell’indipendenza della Bosnia–Erzegovina da parte della Comunità europea e degli Stati Uniti, la situazione nei territori bosniaci diventava sempre più drammatica.

Sarajevo veniva ormai sistematicamente colpita con granate lanciate dalle alture circostanti la città, mentre i cecchini, appostati nei quartieri periferici, colpivano i civili che percorrevano le strade per recarsi al lavoro o a fare provviste di acqua e cibo.

La violenza veniva giustificata con il pretesto di dover difendere i cittadini serbi dal governo di Izetbegovic, come in precedenza dal governo croato di Tujman. In breve tempo la città venne privata dell’energia elettrica e dell’acqua; le risorse alimentari scarseggiavano; la popolazione terrorizzata incominciava a combattere la sua battaglia per la sopravvivenza nell’assedio più lungo che una città si trovò a subire dalla fine della seconda guerra mondiale: 1300 giorni, dodicimila morti.
Tra i tanti episodi accaduti, si vogliono ricordare due stragi: la prima avvenuta all’inizio dell’assedio, la seconda alla fine.
Il 27 maggio 1992, una granata lanciata dalle postazioni serbo-bosniache colpì un gruppo di civili in fila per prendere il pane; morirono ventidue persone. Vedran Smailovic, primo violoncellista dell’Orchestra sinfonica di Sarajevo, assistette alla tragedia dalla finestra della sua casa; nei giorni successivi, sfidando il fuoco dei cecchini, scese in strada con il suo violoncello e suonò l’Adagio di Albinoni per ciascuna delle vittime.
Alle 12,30 del 5 febbraio 1994 i serbi lanciarono una granata sul mercato di Markale, nel cuore della città, a quell’ora affollato di gente. Fu la strage più grave dall’inizio dell’assedio: 68 persone rimasero uccise, quasi 200 furono ferite. Tra le vittime, come sempre, tanti bambini.
Tuttavia non era solo la capitale bosniaca a soffrire per l’incalzare di questi strani, spietati nemici che fino a poco tempo prima condividevano, malgrado le differenze culturali e religiose, territori, città, istituzioni, l’aria che si respira.

Nella Bosnia nordorientale, nella valle della Drina, incominciava la conquista da parte dei serbi e il sistematico allontanamento, fino all’eliminazione fisica, della popolazione musulmana.
Nel frattempo, a livello internazionale, si dovette registrare un maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti nella crisi balcanica. Fino al 1992, gli USA si tennero a debita distanza dai problemi europei per evitare di essere coinvolti nuovamente in una guerra che però, questa volta, era ben lontana dagli interessi americani.

Tuttavia, con l’avvicendamento dell’amministrazione Clinton, gli orrori che oramai venivano denunciati quotidianamente dai media e dagli osservatori internazionali, cominciarono ad avere una forte presa sull’opinione pubblica americana, fino a convincere il neo presidente ad intervenire in modo più deciso per trovare una soluzione al conflitto. Almeno fino a quando non si rese conto che si stava infilando in un ginepraio dai dubbi risultati di convenienza politica.
In Bosnia, intanto, si apriva un nuovo fronte di guerra a causa dell’accordo raggiunto nella cittadina austriaca di Graz da Boban e Karadžic riguardo la spartizione dei territori bosniaci tra l’Erzeg-Bosna croata e la Repubblica serba di Bosnia, a danno dei musulmani. Cessava quindi, almeno momentaneamente, il conflitto tra serbi e croati che si ritrovarono insieme a combattere contro lo stato unitario voluto da Izetbegovic. Riemergeva il progetto della grande Serbia, affiancata questa volta da una grande Croazia, avallato dai due presidenti nazionalisti Milosevic e Tudjman.
Il 9 maggio 1993 la cittadina di Mostar, situata lungo le sponde del fiume Neretva, venne presa d’assalto dalle truppe croate. Mostar era un esempio di convivenza tra le etnie; la sua popolazione era formata per il 35% da musulmani, 34% da croati, il 19% da serbi. Vi si registrava la più alta percentuale di matrimoni misti di tutta la Jugoslavia. La minoranza serba aveva già abbandonato la città quando i croati «ebbri di vino e di sangue si abbandonarono ad eccessi di ogni sorta, ammazzando, saccheggiando e stuprando, per testimoniare il loro odio verso tutto quel che era musulmano. Cancellarono praticamente il vecchio quartiere turco, radendo al suolo ben diciassette moschee storiche, tra cui anche quella di Asker-Mejid, la più antica della città.
Qualche mese più tardi venne distrutto a cannonate il Ponte Vecchio sulla Neretva. Fatto costruire nel 1566 da Solimano il Magnifico, collegava il settore musulmano di Mostar a quello croato situato all’altra parte del fiume

Il disastro fu enorme e non solo dal punto di vista psicologico: il Ponte Vecchio era infatti l’unico accesso alla fonte d’acqua potabile che si trovava nella parte croata e alla quale la gente cercava di arrivare di corsa di notte, sfidando il pericolo dei cecchini. Anche il mondo esterno rimase scioccato da questo inutile atto di barbarie.
Il comando delle truppe serbo-bosniache era intanto passato a Ratko Mladic che si era già guadagnato per le sue imprese in Croazia il poco invidiabile epiteto di ‘macellaio di Knin’, destinato ad acquisire valore universale alla fine della guerra.
Gli interventi dell’ONU, degli USA e dell’Unione europea, in quegli anni di guerra, furono innumerevoli quanto perlopiù inefficaci: le risoluzioni, gli ultimatum, i piani di pace, le minacce, mai mantenute, di intervenire con la forza contro l’esercito serbo se avesse continuato le violenze contro i civili, non si contavano più; la presenza dei caschi blu venne di fatto vanificata dall’impossibilità di reagire con le armi alla ferocia a cui assistevano impotenti. La popolazione incominciò a guardarli con odio, anche perché spesso non erano immuni dalla corruzione dilagante.

Secondo fonti interne alle Nazioni Unite, sono stati inviati, a proposito di crimini commessi dai caschi blu in ex Jugoslavia, ben 140 dossier probatori all’allora vicesegretario generale addetto alle operazioni di pace, Kofi Annan.
Invano i musulmani chiesero all’ONU che venisse eliminato l’embargo delle armi per avere la possibilità di difendersi. Le armi tuttavia non mancavano a nessuna delle parti in lotta, grazie al sempre più fiorente mercato clandestino. Intanto in Bosnia cominciarono ad arrivare estremisti dall’Iran e da altri paesi islamici per aiutare i fratelli bosniaci con i quali, probabilmente, in comune non avevano nulla più che la fede religiosa. Con i dovuti distinguo.
Del lungo rosario delle risoluzioni ONU meritano di essere citate

la Risoluzione 808 che istituì un tribunale internazionale con sede all’Aja per «perseguire persone responsabili di serie violazioni dei diritti dell’uomo nel territorio dell’ex Jugoslavia a partire dal 1991»;

la Risoluzione 819 che dichiarava la cittadina di Srebrenica «area protetta» e perciò «libera da ogni attacco armato o da qualsiasi altra azione nemica», tutelata da un contingente di caschi blu;

la Risoluzione 824 che proclamava «zone di sicurezza» altre enclavi musulmane come Tuzla, Goražde, Žepa; Bihac;

la Risoluzione 836 che autorizzava i caschi blu a usare la forza per assolvere alle proprie funzioni e ampliava i compiti della NATO, a cui si chiedeva di intervenire con raid aerei su richiesta della Unprofor. Inutile dire che anche queste risoluzioni si rivelarono del tutto inefficaci perché spesso
mancava la volontà di tradurle in pratica proprio da parte di quello stesso organismo che le aveva emanate.

Di conseguenza, «dopo che la Risoluzione 836 venne adottata, i serbi continuarono a bombardare le zone di sicurezza più o meno con la stessa intensità di prima: Sarajevo ad esempio veniva colpita in media 1000 volte al giorno, per lo più nelle aree abitate dalla popolazione civile per causare il maggior numero di vittime e solo marginalmente per danneggiare obiettivi militari.
Dei piani di pace si ricorda in particolare quello che porta il nome del funzionario Onu che si trovava a dirimere la complessa faccenda jugoslava, Cyrus Vance, e del rappresentante della Comunità europea lord David Owen. Il cosiddetto piano Vance-Owen prevedeva una suddivisione della Bosnia in dieci cantoni; ogni etnia sarebbe risultata prevalente su tre province. Sarajevo avrebbe costituito un distretto autonomo. Accolto con grande diffidenza da serbi e musulmani, che si sentivano fortemente penalizzati, il piano venne subito accettato da Mate Boban perché la spartizione risultava favorevole ai croati, anche se i gruppi più estremisti lo contestarono in quanto ritenevano che tutta la Bosnia dovesse essere annessa alla Croazia. Di fatto il piano non venne attuato anche se servì da punto di riferimento per i successivi che vennero elaborati con il concorso di altre potenze quali gli Stati Uniti e la Russia di Boris Eltsin.
Il 1994 fu l’anno di svolta in cui la diplomazia americana, sotto la minaccia di far intervenire la NATO, portò croati e serbi a più miti consigli. Nel conflitto croato-musulmano fece sentire la sua voce anche la Santa Sede, chiedendo un riavvicinamento pacifico tra i due popoli. Mate Boban venne destituito dalla presidenza dell’Herzeg-Bosna e Tudjman si rese disponibile a ritirare le truppe croate dalla Bosnia, rinunciando all’annessione dell’Erzegovina. Anche per Sarajevo si avvicinava la fine dell’assedio; Mladic, obbedendo agli ordini di Belgrado, incominciò lo sgombero delle armi pesanti dalle alture intorno la città, preludio dell’allontanamento definitivo dell’esercito serbo.
Sicuramente più che le rovine materiali della città distrutta, pesavano sui sopravissuti le ferite psicologiche e la consapevolezza che l’impresa più difficile sarebbe stata quella di far rivivere lo spirito multietnico e tollerante di Sarajevo.

La città aveva perso gran parte dell’intellighenzia e delle classi professionali, conoscendo una decadenza e un imbarbarimento generale, il cui aspetto forse più tragico erano le bande di adolescenti e di ragazzi che ne infestavano le vie. Una spia eloquente dell’estremo disagio, in cui si trovava la popolazione, erano i traumi psichici, soprattutto le forme di mania depressiva, di cui, a detta del professor Ismet Ceric direttore della clinica
psichiatrica locale, soffriva almeno il 90% della gente. Più sconvolgente ancora fu un rapporto dell’agenzia Reuters, secondo il quale molti bambini di Sarajevo avevano sviluppato tendenze suicide e non prendevano alcuna precauzione per difendersi dai cecchini, convinti com’erano che tanto sarebbero morti presto in ogni caso».
Il 21 novembre 1995, gli accordi presi nella cittadina di Dayton posero fine al conflitto. Alle trattative parteciparono le delegazioni delle tre parti in lotta, guidate da Milosevic, Tujman, Izetbegovic; a fare gli onori di casa Warren Christopher segretario di stato americano. La Bosnia Erzegovina veniva riconosciuta come repubblica sovrana e autonoma ma divisa in due entità ciascuna dotata di un proprio parlamento e governo: la Federazione croato-musulmana e la Repubblica serba Srpska.
La Presidenza centrale della Repubblica è composta da tre membri eletti per quattro anni, in rappresentanza delle tre etnie serba, croata, musulmana.


La pulizia etnica e i campi di concentramento
«Eravate così preoccupati di Sarajevo, che nel resto della Bosnia potevamo fare quel che volevamo». Questa frase, riferita dal vicepresidente della Repubblica serba Nikola Koljevic ad un inviato britannico, manifesta spietatamente l’indifferenza con cui Belgrado accoglieva inviti e minacce della diplomazia internazionale riguardo la situazione nel territorio bosniaco. Se si considera poi quali frutti abbia portato la preoccupazione degli occidentali sul destino di Sarajevo, il quadro è completo.
L’espressione ‘pulizia etnica’ si riferisce ad una somma di operazioni, compresa l’eliminazione fisica delle persone, finalizzate all’allontanamento della popolazione di un territorio occupato da truppe appartenenti ad una diversa etnia.
Di questo crimine si macchiarono tutte le parti in lotta. Quando le vittime sono civili inermi, non è semplice fare delle distinzioni in base a criteri qualitativi e quantitativi. Tuttavia in Bosnia ci fu chi aggredì e chi reagì all’aggressione. E il numero dei morti è una realtà di fatto, non una mera supposizione.
Nel giro di poche settimane dall’inizio del conflitto, l’Armata popolare e i gruppi paramilitari serbi riuscirono ad occupare circa il 60% del territorio bosniaco agendo soprattutto nelle zone a confine con la Serbia, lungo la Drina.
Nella cittadina di Bijeljina, le truppe di Arkan gettarono delle bombe all’interno della moschea, sterminando i fedeli che vi avevano cercato rifugio. Cinquecento musulmani morirono durante i combattimenti che seguirono; i sopravvissuti furono costretti a lasciare le loro case e a cercare scampo altrove.
Spesso, vittime tra le vittime, sono le donne a subire una violenza tanto più abietta, quanto più legata ad una forma di prevaricazione etnica; scrive in un suo rapporto del 1993 Amnesty International: «Sebbene occorrano informazioni ulteriori per completare il quadro e spesso non sia possibile verificare le denunce, Amnesty International ritiene che stupri e violenze sessuali  perpetrate ai danni delle donne, per la maggior parte musulmane, da parte delle forze serbe, siano avvenute in molte parti della Bosnia-Erzegovina, e che in alcuni casi si sia trattato di azioni organizzate e sistematiche, con la detenzione deliberatamente finalizzata a far subire alle donne stupri e violenze.

Amnesty International ritiene che anche i musulmani e i croati abbiano commesso tali crimini, anche se su scala assai minore».
Dal momento in cui si apre il conflitto con i croati, a loro volta vittime della pulizia etnica operata dai serbi, la popolazione bosniaca subisce altri attacchi, spesso mascherati da una blasfema strumentalizzazione della religione: «All’alba de 16 aprile [1993] il villaggio di Ahmici, etnicamente misto, fu attaccato da militi croati dalle facce dipinte di nero che uccisero, sorprendendoli nel sonno, circa 100 dei suoi abitanti musulmani, molti dei quali – anche bambini – furono arsi vivi, impiccati o massacrati in modo così orrendo da non essere identificabili. L’iman locale, con la moglie, fu inchiodato sulla porta della moschea e bruciato». Il villaggio venne raso al suolo.
Un’altra realtà con cui si deve fare i conti è la creazione di nuovi campi di concentramento nel cuore antico della civilissima Europa.
Nella città di Prijedor, nella Bosnia nord-orientale, i serbi sostituirono la municipalità regolarmente eletta con uomini di loro fiducia disposti a portare avanti la pulizia etnica che distruggerà la realtà sociale della regione. La Commissione di indagine sui crimini di guerra dell’ONU, presieduta dall’ex primo ministro polacco Tadeusz Mazowiecki, senza falsi eufemismi parlerà di ‘genocidio’, parola generalmente non gradita e accuratamente evitata dai diplomatici occidentali.
Scrive Luca Rastello: «La campagna di pulizia etnica di Prijedor culmina nell’apertura di almeno quattro campi di concentramento: Omarska e Keraterm dove avvenivano quotidianamente uccisioni e torture, Trnopolje, utilizzato come transito in vista delle deportazioni e luoghi di ammassamento per donne e bambini (uccisioni e stupri avvennero anche qui), e Manjaca definito campo per prigionieri di guerra, benché per la maggior parte i detenuti fossero civili».
I racconti dei fuggiaschi o dei sopravissuti erano così terribili che si stentava a dare loro credibilità sino a quando non cominciarono ad apparire sui giornali europei i primi servizi che documentavano gli abusi e le sevizie inflitte ai prigionieri. La fama più sinistra è forse quella del campo di Omarska dove furono uccise circa cinquemila persone delle tredicimila internate.
Campi di concentramento furono creati anche dai croati e dai musulmani. A pochi chilometri da Mostar, i croati trasformarono una vecchia scuola di aviazione, Heliodrom, in un lager dove rinchiudere e torturare civili musulmani; nella cittadina di Tarcin, a cinquanta chilometri da Sarajevo, i musulmani bosniaci crearono un campo di prigionia dove «secondo testimonianze di serbi e croati, vi sarebbero stati rinchiusi numerosi civili e proprio in occasione della chiusura del campo nel novembre del ’93 sarebbero stati trucidati centodieci civili serbi e un numero imprecisato di croati. È indicato come responsabile dell’eccidio Safet Cibo, inviato da Izetbegovic nella zona in veste di commissario politico».

 

Srebrenica
Il nome Srebrenica ha un’origine antica che ricorda le miniere d’argento del suo territorio. La lenta agonia di questa cittadina sulla Drina dura quanto la guerra combattuta in Bosnia: 1992-1995. All’inizio del conflitto il centro abitato venne occupato dalle truppe serbe e molti dei suoi abitanti musulmani furono costretti ad abbandonarlo per cercare rifugio sulle montagne circostanti.massacro Srebrenica
Riconquistata dagli uomini di Naser Oric30, che si comportarono nei confronti dei civili serbi non meglio di quanto Arkan e i suoi si fossero comportati nei confronti dei musulmani, Srebrenica diventò un’enclave musulmana insieme ad altri centri della valle della Drina come Gorazde e Žepa.
Nel 1993, la risoluzione ONU 819 la qualificò, insieme al suo circondario, ‘zona protetta’ e perciò vi furono inviati centocinquanta caschi blu che avrebbero dovuto garantirne la sicurezza e procedere alla smilitarizzazione delle forze musulmane. Di fatto, la città si trovava sotto assedio e non mancavano continui attriti con le milizie serbe che la circondavano. Racconta Emir Suljagic, interprete dei soldati ONU, scampato all’eccidio perpetrato contro gli abitanti della cittadina: «I cannoni serbi erano troppo lontani dalla città per poterli vedere, ma abbastanza vicini per averne paura, per far sì che ad ogni istante –ridendo o conversando- pensassimo al suono assordante e alla morte che portavano con sé, più rapidamente di quanto potessimo immaginare».  Le condizioni di vita erano al limite dell’umana sopportazione: si soffriva la fame, mancavano le medicine, l’acqua, la corrente elettrica. Gli uomini spesso si avventuravano nei villaggi serbi circostanti alla ricerca di cibo; rischiavano la vita ma spesso erano i primi ad uccidere. La gente vendeva tutto ciò che aveva ai soldati ONU in cambio di un po’ di cibo; racconta un testimone: «Vendevano benzina, sigarette, cibo. A prezzi altissimi, l’unica cosa a buon mercato era l’immondizia: chiudevano la loro spazzatura in sacchi e vendevano i sacchi a dieci marchi l’uno.
La gente là dentro crepava di fame, i sacchi se li compravano eccome».
Il 6 luglio 1995 i serbi attaccarono l’enclave, senza incontrare nessun ostacolo da parte del contingente olandese che aveva il compito di difendere i civili. Inutilmente il comandante Karremans chiese l’intervento degli aerei della NATO che, secondo la Risoluzione 836, avrebbero dovuto garantire ‘l’assistenza aerea ravvicinata’.

La popolazione, ormai in preda al panico, cercò rifugio presso il quartier generale dei caschi blu ma solo qualche migliaio di persone riuscì ad entrare nel campo militare. In quindicimila decisero di abbandonare la città e recarsi a piedi a Tuzla, controllata dalle truppe di Izetbegovic e distante una cinquantina di chilometri. Per farlo dovettero attraversare un territorio boschivo minato e presidiato dai serbi. Dopo sei giorni di marcia, meno della metà di quelli che erano partiti riuscirono ad entrare a Tuzla in territorio amico.
A partire dal 12 fino al 19 luglio, a Srebrenica e nel territorio circostante, incominciò la sistematica uccisione dei civili. Morirono per mano di Mladic e dei suoi soldati circa ottomila uomini, spesso dopo aver subito torture e sevizie.
Per rispondere dell’eccidio di Srebrenica, Karadžic è comparso davanti al tribunale dell’Aja il 26 ottobre 2009; Mladic è ancora latitante.
Il 31 marzo 2010, il parlamento serbo ha adottato una risoluzione in cui condanna le atrocità di Srebrenica e rende omaggio alle vittime, senza parlare però di genocidio.
Srebrenica oggi si trova nel territorio della Repubblica serba Srpska.