Devastato dal 2° conflitto mondiale, il Paese si
riprende e conquista il benessere.
Alla fine della seconda guerra mondiale, l'Italia è
un paese profondamente ferito dai bombardamenti anglo-americani e dalle
distruzioni lasciate dai nazisti, stanco, sfiduciato, senza prospettive
precise, incerto addirittura sulla sua stessa unità.
L'economia è prostrata,la società è sostanzialmente
la stessa di inizio secolo:
agricola, arretrata e provinciale.
La presenza di un fortissimo partito comunista rende
incerta la posizione stessa dell'Italia
sullo
scacchiere internazionale.
Nel 1950 da consumare c'era ben poco: per moltissime
famiglie il problema è mettere insieme il pranzo con la cena!
Nel decennio 1950-60 si registra un cambiamento
epocale: abbiamo a che fare con mutamenti socio-economici del tutto
fuori dell'ordinario.
Certamente il boom economico non nasce dal nulla, ci
sono le premesse storiche per il suo verificarsi.
Non abbiamo a che fare con un passaggio miracoloso
dall'inferno della povertà al
paradiso del benessere generalizzato: proprio la rapidità (e quindi la
traumaticità) di questo passaggio comportò la mancata soluzione di
problemi strutturali che si trascinavano da prima ancora della guerra,
se non addirittura dal Risorgimento.
Ma torniamo al primo dopoguerra per individuare le
origini sia dei fattori di rottura sia dei fattori
di continuità.
Alla fine del conflitto, le stime generali delle
distruzioni non sono nel complesso così drammatiche: è perduto dal 4% al
6% del sistema produttivo, ma con punte molto alte in certe zone
geografiche (sud, coste ) o in certi settori produttivi (in particolare
metallurgico e meccanico.
Risulta completamente distrutta Bagnoli e
completamente smantellato dai tedeschi il moderno impianto di Cornigliano. Cinque sesti della marina mercantile sono stati distrutti.
In particolare al Sud, ai bombardamenti alleati si erano aggiunte le
distruzioni dei tedeschi in ritirata.
Nei territori del centro-Italia, quelli tra la linea
Gustav e la linea Gotica, la guerra di posizione ha aggiunto ulteriori
distruzioni. Qui infatti si riscontrano i danni maggiori in settori come
i trasporti e l'elettricità.
Altro fattore di disomogeneità,
che peserà in futuro sul diverso tasso di sviluppo di Nord e Sud, è
l'importantissimo ruolo del CLNAI cioè
Il Comitato di liberazione nazionale dell'Alta Italia,
operante sia in regime di
occupazione tedesca che di avvenuta liberazione, ai fini della difesa
dell' apparato produttivo e della garanzia della sussistenza della
popolazione.
Per i governi che si sono succeduti nel decennio
1950-60, gli obiettivi sono il pareggio della bilancia dei pagamenti, la
piena occupazione e la riduzione del divario tra Nord e Sud.
Quest'ultimo fu clamorosamente mancato,
mentre i primi due
furono raggiunti (nel 1958 e attorno al 1960) soltanto in virtù dell'andamento
spontaneo dell'economia e non per l'incisività, piuttosto scarsa,
della pianificazione politica.
La fase neoliberale ebbe comunque il non piccolo merito
di sconfiggere l'inflazione con misure dure e decise.
Coadiuvato dalla politica monetaria restrittiva della
Banca d'Italia, il governo De Gasperi prima ancora che allo sviluppo
della produzione puntò alla stabilità monetaria e al risanamento
finanziario, tanto che, paradossalmente, proprio dagli Stati Uniti
vennero pressioni per una politica economica più keynesiana, vale a dire
più orientata alla spesa e all'investimento produttivo (mentre talvolta
l'Italia dirottava gli aiuti del Piano Marshall al ripiano dei buchi
di bilancio).
Ad ogni modo è grazie a questa linea politica che
vengono gettate le basi per il passaggio dell'Italia da un'economia
chiusa a un'economia sempre più integrata agli scambi (commerciali e
finanziari) internazionali. Nel 1946, ad esempio, solo il 3,5% delle
importazioni OECE non erano sottoposte a licenza. Nel '49 sono già
il 24%, nel '52 il 50%, e nel '54 meno dell'1% è ancora sottoposto a
restrizioni.
Non va poi dimenticato l'importante ruolo di De
Gasperi nella nascita della CEE (1957).
Altro fattore non trascurabile fu l'afflusso dei
macchinari e del know-how americani che, grazie al Piano Marshall, aprì
nuovi orizzonti a molte imprese italiane e le spinse a rimodernarsi.
Il combinarsi di più variabili determina un processo
storico: è assai difficile stabilire quale sia il coefficiente di
importanza di ciascuna, agli inizi degli anni Cinquanta un elemento
senza il quale il miracolo non avrebbe probabilmente avuto luogo fu il
basso costo del lavoro che si riscontrava in Italia, dovuto agli alti
livelli di disoccupazione. La combinazione data dal basso costo del
lavoro e dall'apertura ai mercati esteri è presumibilmente la scintilla
che diede il via al boom economico.
In realtà tra il 1951 e il 1958 la crescita della
produzione (comunque ragguardevole: 5,5% annuo) fu stimolata dalla
domanda interna e gli investimenti indirizzati a settori poco dinamici
quali lavori pubblici, edilizia, agricoltura.
E' tra il 1958 e il 1963 che il tasso di crescita del
PIL (Prodotto interno lordo) raggiunge il livello record del 6,3% annuo.
Questo risultato straordinario fu trainato dalla domanda dei mercati
esteri e diede vita a quel fenomeno definito dualismo della struttura
produttiva. Di che cosa si tratta?
Vale la pena approfondire questo problema.
In sostanza, nonostante
l'Italia presentasse un vantaggio competitivo nei costi di produzione
(prodotti tradizionali ad alto coefficiente di lavoro) la domanda estera
dei paesi ricchi e industrializzati premeva per prodotti nuovi ad alto
tasso di capitale e di tecnologia.
L'assoluta necessità di soddisfare questa
domanda implicò lo sviluppo dei settori interessati (chimica, meccanica,
metallurgia) che si rivelarono via via sempre più dinamici.
Nasce così la sfasatura tra una struttura industriale
modellata sulle esigenze della domanda estera e una domanda interna che
giustificherebbe solo la produzione dei beni più necessari (alimentari,
tessili): il primo settore si rivela sempre più dinamico, quello rivolto
al mercato interno sempre più statico.
In questo periodo l'aumento di produttività oraria
nei settori tessile e alimentare è del 4-5%, in quello chimico,
automobilistico e siderurgico varia tra 8,5% e 11%. Tra il 1953 e il
1962 il margine di profitto nel settore tessile-alimentare
aumenta dello 0-10%, nel settore dinamico del 28-55%. Come si
vede, l'esistenza di due velocità diverse dimostra che il boom economico
portava con sé alcune significative contraddizioni. Certo è che la
velocità del settore dinamico risulterà sorprendente: nel 1947 la Candy
produceva una lavatrice al giorno, nel 1967 una ogni quindici secondi.
Nel 1951 furono prodotti 18.500 frigoriferi, nel 1957
la cifra era di 370.000 e nel 1967 di ben 3.200.000. L'Italia era
diventata il primo produttore europeo di elettrodomestici. La produzione
automobilistica costituiva inoltre un grosso fattore propulsivo per
l'intera economia e l'industria dell'indotto si sviluppava anche fuori
delle grandi città.
L'espansione dell'industria manifatturiera cominciava
a manifestarsi anche al di fuori del solito triangolo industriale.
Quello che in questi anni manca è un minimo di
sensibilità per i danni derivanti dall’industrializzazione:
l'aggressione indiscriminata dell'ambiente e del paesaggio.
Tutti i settori produttivi citati si giovano dunque
di un circolo virtuoso in cui l'aumento della produttività produce un
aumento dei profitti; a sua volta l'aumento dei salari (per definizione
poco flessibili) è meno che proporzionale a quello della produttività:
ciò comporta una diminuzione del potere sindacale ( è del 1948 la
frattura del sindacato unitario in CGIL, CISL e UIL).
Combinato al basso assorbimento di manodopera, tutto
questo consente alle aziende di autofinanziarsi più facilmente e dunque
di sviluppare il fattore capitale (cioè la tecnologia) rispetto al
fattore lavoro.
Ulteriore risultato è la stabilità dei prezzi che
rappresenta l'ambiente più favorevole al contenimento dei salari,
all'investimento produttivo e alla crescita dei consumi.
Uno degli aspetti più caratteristici del miracolo
economico fu comunque il suo sviluppo spontaneo e incontrollato e la
politica, da parte sua, non fu in grado di indirizzarlo e di correggerne
i maggiori squilibri.
Uno degli squilibri più evidenti fu la crescita dei
beni di consumo privati (e spesso di lusso) a scapito di un adeguato sviluppo di consumi pubblici
quali case, trasporti, scuole, ospedali. Si spiega anche così il fatto
che ancora oggi le infrastrutture di un paese sviluppato come l'Italia
risultino spesso arretrate rispetto agli standard europei.
Tale distorsione dei consumi individuali è favorita
dalla minor dinamicità del settore tradizionale per cui i beni primari
risultavano proporzionalmente più costosi rispetto a quelli secondari o
di lusso. L'emulazione delle società più ricche, e l'assimilazione
troppo rapida della struttura dei consumi delle classi borghesi e cittadine da
parte di una società ancora provinciale e contadina completavano un
quadro paradossale, dipinto forse meglio dai film di Sordi che da molti
trattati di sociologia: negli appartamenti comparivano le televisioni ma
continuavano a mancare i sevizi igienici; mentre l'auto diventava uno
status-symbol le ferrovie venivano abbandonate al proprio destino e al
dinamismo della piccola e media impresa fa da contraltare l'inefficienza
della pubblica amministrazione.
Due
fenomeni, però, sopra tutti gli altri, segnarono in modo drammatico il
periodo del boom economico: l'urbanizzazione e l'immigrazione.
L'esodo dalle campagne, fenomeno comune a tutta la
penisola, rappresenta uno degli aspetti
più drammatici del passaggio da un'economia agricola
a una industriale.
Dal 1951 al 1971 la distribuzione geografica della
popolazione fu sconvolta: più di dieci milioni di italiani furono
coinvolti in migrazioni interregionali.
Le città si gonfiarono a dismisura: ci furono, è
vero, diversi interventi di edilizia popolare, ma globalmente
insufficienti (gli investimenti pubblici costituirono solo il 15% del
totale). Mancò un controllo più stretto dell'industria delle costruzioni
al fine di prevenire, scempi culturali e paesaggistici, speculazione e
corruzione.
I sobborghi delle grandi città, i quartieri
dormitorio, diventarono presto
terreno di coltura di piccole e grandi ingiustizie sociali, humus
in cui cresceva a sua volta la microcriminalità urbana. Le periferie si
allargavano disordinatamente, molto spesso al di fuori di ogni piano
regolatore: nel 1970 si calcolava che a Roma fosse abusiva una casa su
sei e che ben 400.000 persone vivessero in case che ufficialmente non
esistevano.
Determinante fu anche la mancata costruzione di una
adeguata ed efficiente rete di trasporti. Strettamente legato al
problema dell'urbanizzazione è quello dell'immigrazione, a sua volta
figlio di quello squilibrio tra Nord e Sud che il boom economico, lungi
dal risolvere, aveva anzi decisamente acuito.
Nel decennio 1950-60, troviamo un’economia
meridionale che soffre di un'industria scarsamente sviluppata e
tecnologicamente arretrata, di una generale bassa produttività del
lavoro, di una troppo alta percentuale della popolazione dedita
all'agricoltura, a sua volta eccessivamente squilibrata sulla produzione
cerealicola (il che la pone in balìa delle fluttuazioni dei prezzi).
La capacità di accumulazione di capitale è scarsa e
le infrastrutture totalmente insufficienti. La classe dirigente manca di
mentalità imprenditoriale, e a questo proposito va ricordato che le
regioni meridionali non hanno conosciuto durante la guerra il fenomeno
della Resistenza, e che ciò ha sicuramente contribuito alla mancanza di
un vero e proprio rinnovamento politico e amministrativo: nel Sud più
che altrove la sopravvivenza della vecchia classe fascista o prefascista
è risultata più facile.
E' dell'ottobre del 1950 la legge istitutiva della
Cassa del Mezzogiorno, il cui nome evoca ancora oggi sprechi immani di
denaro pubblico, ma che è stato invece un tentativo molto serio e ben
elaborato, sicuramente meritorio, frutto di una politica economica
avanzata.
Gli interventi nel Mezzogiorno si orientarono in tre
fondamentali direzioni:
à
politica delle
infrastrutture,
à
agevolazioni
all'impresa privata,
à
intervento diretto
dello Stato.
Il fallimento (anche se non totale) di questi
tentativi è storia nota.
Nasce in questi anni
l'espressione
à
cattedrali nel deserto a
designare alcuni immensi insediamenti industriali sia pubblici (ad
esempio l'Italsider di Taranto o l'Alfasud di Pomigliano)
che privati
(le raffinerie di Siracusa, la Montecatini di Brindisi) privi di
connessione col tessuto
economico e sociale circostante, perché incapaci di generare
indotto o di assorbire adeguatamente la manodopera locale, in quanto
sbilanciati sul fattore tecnologia avanzata piuttosto che sul fattore
lavoro.
Quali che siano le cause di questo insuccesso,
proprio gli anni del miracolo economico furono i più drammatici per le
popolazioni del Sud: tra il 1951 e il 1974 l'esodo fu
impressionante: 4,2 milioni di meridionali (su un totale di 18 milioni)
emigrò nel Norditalia.
L'esodo più massiccio ebbe luogo
proprio tra il 1955 e il 1963. (Al computo vanno aggiunti, nello
stesso periodo, più di
550.000 italiani, per quasi tre quarti meridionali, emigrati nel Nord
Europa, in particolare in Germania).
Torino, su cui già convergevano i flussi di
lavoratori provenienti dalla campagna depressa piemontese, assorbì una
così alta percentuale di immigrazione (dal 1951 al 1967 passò da
719.000 a
1.125.000 abitanti) da diventare la terza città meridionale
d'Italia dopo Napoli e Palermo.
Se questi sono i costi del miracolo economico,
sull'altro piatto della bilancia troviamo uno straordinario aumento del
reddito pro capite, la cui rapidità di crescita è il principale motivo
per cui il termine miracolo è tutto sommato giustificato.
Dal 1952 al 1970 il reddito medio degli italiani
crebbe più del 130% ( se poniamo come base 100 per il reddito del 1952,
si passa a 234,1 nel 1970).
In paesi come Francia e Inghilterra l'aumento nel
medesimo periodo fu rispettivamente del 36% e del 32%. Parallelamente
crebbe anche la capacità di spesa e il tenore di vita.
Nel 1958, i possessori di un televisore erano il 12%,
nel1965 erano quattro volte tanto.
Nel 1958, solo 13 persone su 100 possedevano un
frigorifero e 3 su 100 una lavatrice: nel 1965 le percentuali erano del
55 e del 23.
La diffusione della TV è un indicatore molto
interessante: statale, divenuta subito un fenomeno di massa, in Italia
si dimostrò uno strumento di potere non indifferente per la DC, a sua
volta pesantemente influenzata dal Vaticano.
Per la Chiesa la TV si rivelò una lama a doppio
taglio. Nonostante il controllo affinché
i programmi non sollecitassero bassi istinti, non si
accorse che attraverso la
televisione si imponeva un modello di vita edonistico e consumistico in
cui la religione non era affatto contemplata.
Scriveva Pasolini nel 1974 che il Vaticano avrebbe
dovuto piuttosto censurare Carosello, il seguitissimo programma
pubblicitario della Rai. In effetti era attraverso un programma
sostanzialmente innocuo come Carosello che passava
la secolarizzazione del paese, più che attraverso tante opere
d'autore censurate.
Comune a tutti gli altri paesi
occidentali fu poi il fenomeno della
à privatizzazione
del tempo libero. Alla progressiva diffusione della TV nelle singole
case corrispose un parallelo declino dell'uso collettivo e socializzante
del tempo libero.
Sommato
all'esodo dalle campagne, l'adesione al modello di vita consumistico
comportò
un declino della religiosità davvero marcato, tanto da non passare
inosservato nemmeno al tempo. Soprattutto nelle città, in primis nelle
periferie, il distacco dal modello religioso tradizionale si tradusse
fatalmente in un abbandono progressivo della pratica religiosa.
Un'altra importante
trasformazione, prodotto
combinato di tanti fattori (emigrazione nelle città, imposizione del
modello consumistico, maggior reddito disponibile, secolarizzazione) fu
il mutato rapporto
à
uomo-donna.
Per le donne (del Sud in particolare) l'entrata nel
mondo del lavoro - per quanto in posizione ancora svantaggiata rispetto
agli uomini - rappresentò la prima forma di emancipazione dalla
gerarchia familiare,
rigidamente maschilista, nonché di autonomia finanziaria.
Rispetto al resto d'Europa, tuttavia, il destino di
casalinga era quello che continuava a toccare alla maggior parte delle
donne italiane: un effetto collaterale del benessere era infatti che a
mantenere la famiglia bastava spesso solo il reddito del marito.
Se da una parte l'urbanizzazione distruggeva tutto il
positivo della vita sociale rurale (le festività collettive, gli stretti
rapporti interfamiliari e così via), per i giovani diminuivano le
costrizioni e si allargavano alcuni spazi di libertà: la morale
ufficiale era ancora imperante, ma le prime incrinature cominciavano a farsi strada.
Ma, va ricordato, proprio sulle abitudini sessuali
continuava a registrarsi una profondissima spaccatura tra un Nord sempre
più emancipato e un Sud ancora legatissimo alla morale tradizionale.
Quanto all'istituzione famiglia, comincia proprio con il boom economico
la progressiva disgregazione della famiglia allargata a scapito di
quella mononucleare e, come abbiamo già visto, della gerarchia interna
per cui l'autorità dei genitori sui figli e del marito sulla moglie si
va meno opprimente.
Il periodo 1959-1962 fu caratterizzato dai primi
cospicui aumenti salariali nel settore industriale.
L'aumento degli investimenti degli anni precedenti,
sommato a quello della propensione al consumo diede origine - fenomeno
nuovo per l'Italia - a una inflazione per eccesso di domanda, alla quale
la Banca d'Italia rispose
con una stretta creditizia.
Il Sessantotto, celebrato o criticato che sia, viene
giustamente considerato come un momento storico fondamentale della
storia repubblicana, ma è forse dieci anni prima, con l'inizio del
miracolo economico, che va individuata l'origine della vera rivoluzione
che ha stravolto la società di un intero paese.
Il '68 fu un momento di rottura con le istituzioni
tradizionali (Chiesa, famiglia, scuola, ecc.), ma tale rottura sarebbe
stata impensabile senza il terremoto sotterraneo del decennio 1950-60:
inizio del cammino che ha portato alla secolarizzazione di massa dietro
la facciata di un conformismo imperante.
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