|
Sulle origini della civiltà indiana non si sapeva nulla fino
ad alcuni decenni or sono.
Solo nel 1924, infatti, nel corso di scavi
archeologici
effettuati nella valle dell’Indo, sono venuti alla luce i resti di quattro
città che risalgono al 3000 avanti Cristo.
Ciò dimostra che
già in quell’epoca remotissima vi era in India una fiorente civiltà.
Ma verso il 1800 avanti Cristo, dalle zone steppose dell’Asia centrale
si riversarono in India le prime tribù di Ariani.
Numerose altre
ondate giunsero nei secoli successivi, fino al 1000 avanti Cristo.
Questo
popolo si fuse con quello indiano e ne assimilò la civiltà,
la religione, che era il Brahamanesimo, e l’organizzazione sociale, che
era basata sulla suddivisione in 4 caste: la Brahamana, dei sacerdoti;
la Ksatria, dei guerrieri; la Vasia, degli agricoltori; la Sudria, che
comprendeva tutto il resto della popolazione.
Dal 1000 al 500 avanti Cristo gli Ariani furono impegnati a consolidare
le loro conquiste, che si estendevano dalla valle dell’Indo fino all’attuale
Golfo del Bengala.
A cominciare dal VI secolo avanti Cristo ripresero in India le invasioni
straniere. Infatti, durante il periodo compreso fra il VI secolo avanti
Cristo e quello V dopo Cristo, giunsero in India successivamente i Persiani,
i Greci, gli Sciiti e gli Unni.
Per oltre tre secoli gli indiani fecero fronte, con successo, ai tentativi
di invasione da parte degli Arabi. Ma dal 1000 dopo Cristo un altro popolo
musulmano, cioè; i Turchi, riuscì a stabilirsi nelle regioni
dell’India settentrionale. Da qui poi estesero il loro dominio alle vallate
dell’Indo e del Gange, dove costituirono parecchi sultanati, il più
importante dei quali fu quello di Delhi.
Molte furono le insurrezioni perpetrate da alcuni principi indiani,
ma nessuna di esse ebbe esito positivo. Ed i Turchi rimasero in India fino
al XVI secolo, quando furono cacciati da un altro invasore: i Mongoli.
I Mongoli avevano iniziato le loro minacce di invasione già tre
secoli prima ma si dovette giungere al 1526 per vedere Baber, un discendente
del grande Tamerlano, inserirsi quasi completamente in India e fondarvi
il famoso impero del “Gran Moghol”, con capitale Delhi.
La città fu poi abbellita da fantastici monumenti e la dominazione
mongola coincise con il periodo più splendido di tutta la storia
del paese. Ed i Mongoli rimasero in India fino al XVIII secolo, quando,
a causa della suddivisione dell’impero in tanti piccoli staterelli, sempre
in lotta fra loro, iniziarono la decadenza di tutta l’organizzazione. Queste
lotte intestine attrassero l’attenzione di alcune potenze europee, come il Portogallo, l’Olanda, la Danimarca, la Francia e l’Inghilterra, che
già frequentavano le coste del paese con i loro già sviluppati
commerci. Queste potenze intuirono la possibilità di acquisire qualche
dominio sul territorio ed intervennero.
La nazione che per prima seppe
approfittare del momento giusto fu la Francia, nel XVIII secolo, verso
la fine.
Ma in breve tempo tutte le conquiste ivi operate dalla Francia caddero
nelle mani dell’Inghilterra. E questa ebbe dapprima a che fare con le
insurrezioni
degli indiani, che presto domò; poi in meno di un secolo riuscì
ad allargare il suo dominio fino all’isola di Ceylon (oggi Sri-Lanka).
Quando
nel 1862 morì l’ultimo imperatore mongolo, l’Inghilterra fu padrona
assoluta di tutta la penisola. E dopo ancora 14 anni l’India fu proclamata
Impero dell’Inghilterra.
La prima imperatrice fu la regina Vittoria che,
però fu rappresentata sul posto da un vicerè.
La capitale inizialmente fu Calcutta ma poi, dopo il 1911, divenne Delhi.
Moltissimi furono i problemi che si proposero subito agli inglesi, se volevano
sfruttare al massimo le potenzialità del paese.
Dovettero essere
costruiti ponti, strade, ferrovie e porti ma, soprattutto, bisognò
migliorare le misere condizioni in cui il popolo viveva.
Nonostante tutto ciò gli indiani non si rassegnarono alla dominazione
inglese. Essi desideravano l’autonomia. Verso la fine del XIX secolo, dopo
che dal 1880 al 1885 alcuni moti insurrezionali si erano verificati, in
India si costituì il “Congresso Nazionale Indiano”.
Questo riunì
alcuni fra gli uomini più potenti del paese, i quali erano decisi
a raggiungere l’indipendenza ad ogni costo.
L’Inghilterra, allo scopo di sedare gli animi, concesse maggiore libertà
politica al popolo e favorì l’ingresso di alcuni funzionari indiani
nell’esercizio del governo. Ma ciò non fu sufficiente a soddisfare
la sete di libertà del popolo indiano e nel 1906 il Congresso dichiarò
formalmente che tutti gli indiani avrebbero lottato strenuamente fino al
raggiungimento dell’indipendenza totale del paese.
Sperando che l’Inghilterra fosse grata all’India, concedendo l’indipendenza,
gli indiani durante la prima guerra mondiale si erano schierati al fianco
della Corona inglese. Si verificò invece il contrario ed allora
fu posto a capo del Congresso il Mahatma Gandhi, animatore intelligente
ed instancabile di tutti i movimenti di rivolta contro gli inglesi.
Nell’estate e nell’autunno del 1921 scoppiarono delle rivolte per opera
degli indiani Mophlas, nel sud; nel dicembre questi accolsero molto freddamente
la visita del Principe di Galles. Poi i disordini continuarono con caratteri
di riscossa nazionale, sotto la direzione di Gandhi, assertore della lotta
“non-violenta”. Una soddisfazione ebbero gli indiani alla Conferenza Imperiale
di Londra del novembre 1923, quando in contrasto con i delegati dell’Africa
Australe, ottennero il riconoscimento della nazionalità britannica
ed il diritto di voto.
Fra gli atti di ribellione rientrarono le sommosse di Sholapur del 1925,
di Calcutta del 1926, di Khamagpur e di Patna del 1926. Alla fine del 1929
il nazionalismo gandhiano dimostrò la potenza della sua organizzazione
con manifestazioni serie e legali, per cui il viceré in carica promise
la costituzione dell’India in dominio autonomo, il 5 novembre 1929.
Nelle
annate seguenti le agitazioni furono coordinate da Gandhi nel senso
dell’indipendenza
assoluta dell’India dalla Gran Bretagna: così infatti furono il
“Congresso Panindiano” del 1929, la “Marcia dei Martiri” iniziata da Gandhi
il 12 marzo 1930, partendo dal Monastero di Satyagraha, le Conferenze della
“Tavola Rotonda” del 1930 e 1931 con l’intervento di Gandhi alla seconda.
Gandhi fu arrestato per l’estendersi e l’intensificarsi dell’agitazione
a Paona, Karaci, Bombay e Sholapur, sempre nel 1931.
Egli rimase fermo
nei suoi propositi e dopo poche ore fu liberato. Il 24 febbraio dello stesso
anno rinnovò l’ordine di boicottaggio dei tessuti britannici. Un
immediato colloquio fra Gandhi ed il viceré Irvin condusse alla
“deroga del monopolio del sale” in tutte le zone costiere.
Nell’aprile arrivò un nuovo viceré: Willingdon. Quattro mesi dopo Gandhi
partecipò a Londra ad un’altra conferenza della “Tavola Rotonda”,
ma senza risultati.
Nell’agosto del 1935 il Regno Unito elargì la Costituzione, che
doveva essere efficiente nel 1937, basata sul principio federale. Negli
anni che precedettero la seconda guerra mondiale i contrasti si intensificarono.
Gandhi propose con sempre maggiore convinzione la libertà assoluta
dell’India e la pacificazione interna fra indù; ed islamiti. Un altro
movimento, più estremista, venne alla ribalta, promosso da un’altra
personalità di spicco della politica indiana, Jawaharlal Nehru e
dal suo discepolo Subhas Chandra Bose, in contrasto con Gandhi in relazione
ai mezzi di lotta.
E con la seconda guerra mondiale si aprì una parentesi, come
era accaduto nella prima. Intanto già dal 1937 era stata separata
dalla India britannica la vasta zona della Birmania; ne era stata fatta
una colonia con la speranza di poterla sottrarre al dominio inglese.
Alla fine della guerra si ritrovarono in India rafforzati i nazionalisti.
L’India nel 1945 ebbe un governo provvisorio con la promessa di una Assemblea
Costituente al fine di portare il paese al rango di uno Stato Federale
libero ed indipendente, ma con una stretta collaborazione con il Commonwealth.
Ed il 19 luglio 1947 il re Giorgio VI d’Inghilterra firmò la legge
che riconosceva l’indipendenza dell’India.
Il 15 agosto l’India fu divisa in due complessi federali ma dai limiti
non ben definiti: l’Indostan, indù, ed il Pakistan, musulmano. Il
30 gennaio 1948 a Nuova Delhi un giovane indù, avversario della
politica della pacificazione, uccise Gandhi. Questo tragico episodio segnò
la fine dell’idea dell’unità indiana.
Il 2 giugno 1948 re Giorgio
VI rinunciò formalmente al titolo di Imperatore delle Indie. Ciò consentì ai due stati indipendenti “repubblicani” di restare associati
al Commonwealth britannico, cioè ad una comunità avente per
capo un re.
Le prime elezioni generali della storia dell’India si ebbero nel 1951/52.
Ad esse partecipò il 60% dei 173 milioni di elettori poichè la gran parte del popolo era analfabeta. La vittoria andò al Congress
Party e non solo al Parlamento centrale ma ad ogni Assemblea di ogni stato.
E gli uomini preposti alla conduzione del paese, guidati da Jawaharlal
Nehru, iniziarono la loro opera sapendo che bisognava cominciare proprio
dalle fondamenta. Le prime riforme furono applicate nel rispetto dei millenari
usi e costumi del popolo e della sua profonda coscienza religiosa. La prima
di esse riguardò l’uso della lingua. Fu stabilito che lingua ufficiale
fino al 1965 sarebbe stata l’inglese ma dopo esclusivamente quella “hindi”.
Questa fu scelta perchè maggiormente diffusa fra tutte quelle
usate nei vari stati dell’Unione. Ma le contestazioni furono talmente gravi
che per non rischiare la divisione delle popolazioni si stabilì
che l’inglese poteva continuare ad essere usato come lingua ufficiale anche
dopo quella data.
Strettamente collegato al problema della lingua ci fu
quello della riorganizzazione dei vari stati, in tutto 29, tutti elencati
nella Costituzione.
A tale scopo fu istituita una speciale “States
Reorganization
Commission”.
Per prima cosa si eliminarono alcuni stati e se ne crearono altri,
ma di tutti furono definiti i confini. Queste operazioni durarono per tutto
il tempo della prima legislatura.
In politica estera l’Unione Indiana intavolò dialoghi con la
Francia ed il Portogallo per riavere i propri possedimenti. Con la Francia
il problema fu risolto pacificamente ma non con il Portogallo.
L’India,
sempre fedele alla politica della “non-violenza”, non volle correre rischi
di innescare scontri armati, perciò rimandò le questioni
con il Portogallo ad altra epoca.
l problema che invece destò molte preoccupazioni si ebbe con
il Pakistan a proposito della regione del Kashmir di cui l’India possedeva
già i tre quarti.
Le Nazioni Unite da vari anni stavano suggerendo di indire un plebiscito
in modo che la popolazione stessa potesse fare la sua scelta. Senza di
ciò i rapporti rimasero tesi ma andarono migliorando verso il 1960
quando fra i due paesi fu firmato un accordo che regolava lo sfruttamento
idrico dell’Indo.
Per quello che riguardava i rapporti con gli altri paesi, l’India, che
aveva necessità di aiuti economici da ambedue i blocchi esistenti,
preferì adottare il “non-allineamento”.
Intanto nel 1957 si erano tenute le seconde elezioni e questa volta
la popolazione chiamata alle urne era aumentata. Si ebbero 193 milioni
di elettori e la vittoria andò al Congress Party, ma non in tutti
gli stati. Infatti da questa vittoria non furono raggiunti il Kerala, l’Orissa,
il Bihar, il Panjab, l’Uttar Pradesh e Bombay, dove conquistò la
maggioranza il partito comunista che divenne, quindi, il secondo partito
dell’Unione.
Il lavoro dello sviluppo economico e sociale compreso nei piani quinquennali,
assai importante, dovette essere momentaneamente rallentato quando scoppiò
la rivolta nel Tibet. Allora il governo dovette affrontare vari scontri
alla frontiera himalayana con le truppe della Cina popolare le quali, in
breve tempo, giunsero di vittoria in vittoria, fino alla valle del Brahamaputra.
A questo punto la Cina, vittoriosa, dichiarò il “cessate il fuoco”
unilateralmente e si ritirò nei propri territori.
Invece qualche successo militare era stato ottenuto contro i portoghesi
per la riconquista di Goa. In ogni caso, dopo questi avvenimenti bellici,
venne ad essere per sempre smentita la politica indiana della “non violenza”.
Nel maggio 1964 morì Nehru e l’incarico passò a L.B. Shastri,
persona non carismatica, che subì l’influsso dell’ala conservatrice
del partito.
In quell’anno, a causa di gravi disordini verificatisi nel Bengala orientale,
in India si rifugiarono 200.000 indù.
Shastri si incontrò
col presidente pakistano ma i colloqui degenerarono e nel 1965 si ebbero
scontri armati per la non definita frontiera col Sindh.
Le ostilità
rientrarono, per merito di un arbitrato.
Ma intanto era ritornata alla
ribalta la questione del Kashmir. Il Pakistan, il primo settembre 1965
sferrò un attacco contro l’Unione, che rispose nella zona di Lahore.
Ci furono accaniti combattimenti che poi rientrarono poichè le Nazioni
Unite intervenute, imposero una tregua.
L’armistizio fu concluso con la
mediazione dell’Unione Sovietica nella Conferenza di Tashken del 4-10 gennaio
1966. Ma il problema rimase. Il giorno dopo la firma
dell’armistizio Shastri morì per un attacco cardiaco. Primo ministro divenne Indira Gandhi,
figlia di Nehru.
Le si presentò una situazione piuttosto difficile da gestire.
La scarsità delle piogge negli anni 1965/66 avevano portato una
gravissima carestia; gli studenti nel 1967 manifestarono per il sovraffollamento
delle università e per lo stato di indigenza in cui vivevano; fu
necessario svalutare la rupia.
Nel febbraio 1967 furono tenute le elezioni generali e fu evidente il
ridimensionamento del partito di governo.
A marzo iniziarono delle rivolte e delle azioni terroristiche a Naxalbari
ed in alcune zone del Bengala, che martoriarono il paese per molti anni.
Nel luglio 1969, perdurando le difficoltà finanziarie, Indira
Gandhi nazionalizzò le maggiori 14 banche attirandosi l’ostilità
dell’ala conservatrice del Congresso, capeggiata dal ministro delle finanze
M. Desai.
Il partito si divise in due fazioni che si osteggiarono continuamente
in Parlamento, finché nel 1971, con le nuove elezioni, la fazione
del primo ministro ebbe una clamorosa vittoria.
Nel marzo-aprile del 1971 l’esercito pakistano stroncò i nuovi fermenti
separatisti sviluppatisi nel Bengala. L’India fu costretta a dare asilo
ad una gran massa di profughi. Si parlò di circa 10 milioni di persone
e ben presto l’India si trovò coinvolta dalla parte dei guerriglieri.
Ma col pericolo di una intesa cino-pakistana, l’India si affrettò
a concludere un trattato di amicizia e cooperazione con l’Unione Sovietica
che subito inviò importanti forniture militari.
Così rafforzata,
l’India entrò nel territorio, combatté una breve vittoriosa
guerra e costrinse le forze pakistane alla resa. Era il 16 dicembre 1971
e nacque, fra mille difficoltà, il nuovo stato del Bangla Desh.
Fra il 1972 ed il 1975, con diversi accordi, si arrivò al rimpatrio
dei prigionieri di guerra. E con la fine della guerra finì anche
l’equidistanza dell’India dai due blocchi.
Ancora una grave siccità nel 1973 e la crisi mondiale del petrolio,
portarono in India una situazione economica tra le più preoccupanti.
Ai primi del 1977 Indira Gandhi, dopo aver proclamato e poi tolto lo
stato d’emergenza, si trovò a fronteggiare una serrata propaganda
elettorale da parte delle opposizioni.
Ed infatti nelle elezioni del marzo il Partito del Congresso subì
una netta sconfitta e la Gandhi non fu neppure rieletta.
Il 24 marzo entrò in carica un nuovo governo capeggiato
dall’ottantenne
Morarji Desai, antico discepolo del Mahatma Gandhi e
capo del Partito Janata.
In questo periodo furono presidenti dell’Unione Indiana:
- dal 1962 al 1967: il filosofo S. Radhakrishnan;
- dal 1967 al 1969, morto in carica: il musulmano Z. Husain;
- dal 1969 al 1974: V. V. Giri;
- dal 1974 al 1976, morto in carica: un altro musulmano Fakhr ud-din
Ali Ahmad;
- dal 1976: B. D. Jatti.
Dopo la sconfitta elettorale dl 1977 la Gandhi fu accusata di abuso
di potere e messa in prigione. Ma solo per alcuni giorni.
Poi, appena liberata,
ed espulsa dal partito, ne compose un altro che chiamò “Indian National
Congress” e che nel 1980,
vincendo le elezioni, la riportò al potere.
In politica estera l’Unione Indiana cercò di migliorare i rapporti
con gli Stati Uniti ma con scarsi risultati. Andarono meglio, invece, quelli
con il Bangla Desh perché fu trovata la soluzione al vecchio problema
dello sfruttamento delle acque del Gange, poi quelli col Nepal, con l’Unione
Sovietica e con la Cina; con questi stati furono portati a buon fine alcuni
accordi di cooperazione.
Indira Gandhi poté registrare; ancora successi in campo
internazionale allorché ebbe per l’India la presidenza in due conferenze
a Delhi, una del Commonwealth ed una dei paesi “non-allineati”.
Poi, però,
segnò il passo l’amicizia con l’Unione Sovietica quando questa invase
l’Afghanistan.
In politica interna Indira Gandhi dovette fronteggiare, oltre ai dissesti
economico-sociali, anche alcuni conflitti religiosi nelle zone dell’Assam,
Jammu e Kashmir.
Ma chi le procurò maggiori preoccupazioni fu il
Panjab, dove i Sihk, cioè i “puri”, nel giugno del 1984 chiesero
addirittura la creazione di un loro stato autonomo.
La Gandhi dovette inviare
truppe contro il tempio di Amrtsar ed altri 29 tutti presidiati da Sihk
armati.
Si contarono centinaia di morti fra cui il capo dei fondamentalisti
J. Singh Bhindranvala.
Tutti gli elementi Sihk di governo, militari
e di tutti i settori, si ritirarono dalle loro cariche.
Era il 31 ottobre
1984 ed Indira Gandhi rimaneva vittima di un attentato, sempre di matrice
Sihk.
Le successe al governo, tra disordini e contestazioni, il figlio
Rajiv che ottenne una buona accoglienza di popolo, anche se non molto esperto
politicamente.
Ma ai confini con le zone secessioniste ci furono sempre vari conflitti che si rinnovarono di regione in regione fino quasi all’inizio degli anni
novanta.
Con il Pakistan in particolare tornava sempre alla ribalta la questione
del Kashmir.
Nel 1988, però, Rajiv Gandhi si era incontrato col primo ministro
pakistano Benazir Bhutto e con l’occasione si era firmato un accordo
con il quale i due paesi si impegnavano a non iniziare attacchi nucleari.
Buoni trattati commerciali si firmarono anche con la Cina, l’Unione
Sovietica e gli Stati Uniti. Questi ultimi esportarono in India soprattutto
tecnologie informatiche.
Rajiv, nonostante i suoi successi, fu contestato per aver avviato una
certa privatizzazione e liberalizzazione del mercato, cosa sollecitata
anche dal Fondo Monetario Internazionale.
Questa situazione provocò l’aumento dei prezzi dei beni di consumo creando quindi, difficoltà per i ceti bassi della popolazione. Di conseguenza,
manifestazioni di scontento, in aggiunta a problemi religiosi con i
fondamentalisti
delle varie correnti, aiutarono a cadere il governo già indebolito
da uno scandalo, detto di Bofors, dal nome della ditta svedese che aveva
versato enormi tangenti per assicurarsi l’esportazione di materiale bellico.
Le elezioni del novembre 1989 decretarono una seconda storica sconfitta
del partito di Gandhi.
Si ebbe un governo di coalizione capeggiato da V. Pratap Singh.
Egli tentò di riformare l’amministrazione pubblica e si attirò
subito le contestazioni popolari.
Nell’ottobre 1990 scoppiò una
violenta disputa fra indù e musulmani per una moschea del XVI secolo
in disuso che gli indù volevano abbattere perché posta su
un antico tempio di Rama, di cui progettavano la ricostruzione.
Oltre a tutto ciò, si complicò di più la già
precaria situazione economica per il rientro in patria di oltre 140.000
profughi a seguito della guerra del Golfo tra Iraq e Kuwait.
Questa guerra portò una profonda crisi nel governo a causa della
concessione di uno scalo nell’aeroporto di Bombay ad aerei statunitensi
diretti in Iraq, in violazione della neutralità del paese.
Il diritto di scalo fu revocato, la crisi passò ed il governo
arrivò alle elezioni del 20 maggio 1991.
Rajiv Gandhi stava riconquistando voti quando il giorno dopo si ebbe
la notizia della sua morte dovuta ad una bomba al plastico fatta esplodere
da un terrorista suicida. Si scoprì che gli attentatori erano le
famose “Tigri del Tamil” che non avevano perdonato a Rajiv un intervento
militare nello Sri-Lanka del 1987.
Le elezioni subirono un ritardo di qualche giorno poi il 12 giugno furono
completate e riportarono, con una crescita moderata, al potere il partito
di Indira, ed il governo fu presieduto da P. V. N. Rao, succeduto
a Rajiv nella guida del partito dopo che la sua vedova, l’italiana S. Maino,
aveva declinato l’offerta di successione.
Il nuovo governo affrontò la situazione economica adottando misure
drastiche e suscitando, naturalmente, il malcontento ovunque.
Disordini
sociali di vario genere funestarono i primi anni novanta. In compenso si
poterono ottenere accordi commerciali con gli Stati Uniti che si impegnarono
a sostenere, con sostanziali aiuti finanziari, la liberalizzazione del
mercato dell’Unione Indiana.
In campo internazionale l’Unione vide accrescere il suo prestigio quando,
come membro “non-permanente” del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,
varò l’embargo nei confronti della Libia, il primo aprile 1992.
All’interno, invece, un po’ ovunque ci furono conflitti religiosi che
provocarono molte vittime. In seno al governo si verificarono vari scandali
per corruzione, che costarono le elezioni del 1996.
Il nuovo governo di coalizione, fra tredici partiti di sinistra, fu affidato a
H. D. Devgoda, capo del “United Front”.
Egli, politico di statura regionale e non proveniente da una casta superiore,
riuscì a formare un esecutivo con l’appoggio esterno dell’Indian
National Congress. Ma questo, nel marzo 1997, tolse al governo il suo appoggio
in quanto, dopo le dimissioni di Rao da capo del partito, era stato sostituito
da S. Kesri, avversario del primo ministro.
Devgoda si dimise ed entrò in vigore un altro governo di minoranza,
presieduto da I. Kumar Gujral. Quest’ultimo diede alla politica estera
del paese una svolta quanto mai inusuale poiché cercò il
miglioramento dei rapporti con tutti i paesi confinanti, anche con gesti
unilaterali di collaborazione.
Nel febbraio-marzo 1998 ci furono le elezioni anticipate, vinte dal
Bharatiya Janata Party, di matrice indù.
Il 16 marzo entrò in vigore il nuovo governo, guidato da A. B.
Vajpayee. Egli, parlamentare da molti anni, era un convinto assertore
dell’importanza
della cultura indù. Il suo motto: “L’India deve essere costruita
dagli Indiani”, era sintomatico di quanto egli andava affermando da tempo
a proposito della cultura indù, per niente d’accordo con le tendenze
occidentalizzanti.
Tutto questo nazionalismo rinfocolò alquanto i conflitti col
Pakistan, nella zona del Kashmir; nella primavera del 1999 si verificarono
aspri combattimenti che richiesero l’intervento anche dell’aviazione.
Nel maggio dello stesso anno vennero ripresi anche gli esperimenti nucleari
con una serie di esplosioni sotterranee che, se piacquero ai nazionalisti
indù, non ebbero l’approvazione di tutto il settore internazionale
e meno che mai del Pakistan.
L’opinione pubblica, contraria a questo stato di cose, decretò
la caduta del governo e nel settembre-ottobre furono indette nuove elezioni
che riassegnarono la vittoria al Bharatiya Janata Party ed ai suoi alleati.
|
|