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  CINA
 

La parola “Cina” in cinese non esiste.
I cinesi si riferiscono comunemente al proprio Paese usando il termine Zhongguó, composto di Zhong, "centrale" o "medio", e Guó, "regno", "Stato”: il nome ufficiale Zhonghuá Rénmín Gònghéguó sta per Repubblica Popolare dello Stato di Mezzo.
Il termine Cina, usato solo in occidente, ha origini incerte; appare per la prima volta nelle relazioni di viaggio di un mercante portoghese (Marco Polo aveva parlato del Catai), qualcuno sostiene derivi dal persiano, altri da una delle prime dinastie regnanti, i Jin, altri ancora (ed è l’ipotesi più probabile) dal nome del primo imperatore che riunì il paese, Qin Shi Huang (260-210 a.c.).

Sia come sia, la Cina è una

delle più antiche civiltà del mondo, forse la più antica in assoluto: da sempre.

L’alimento di base in Cina è il riso: la resa della semina del riso può arrivare a 300 per ogni

chicco seminato: per il

frumento oggi la resa arriva al massimo da uno a trenta, ma ai tempi dei romani o nel

Medioevo era da uno a quattro, uno a sei, di cui un chicco andava conservato per la

semina successiva.

Il divario è significativo ed ha due conseguenze almeno:

l’insufficiente resa del frumento

induce l’uomo occidentale, prima alla domesticazione di numerose specie animali, soprattutto animali da carne e da latte, ovini e bovini (poco diffusi in Cina, fino a tempi recenti), poi lo spinge alla caccia ed alla guerra.

Lo sviluppo delle civiltà occidentali è fatto di conquiste e di rapine.
In Cina il surplus alimentare consentito dalla coltivazione del  riso è la base dell’incremento demografico del Paese, del precoce sviluppo della sua

civiltà, ma anche dell’autosufficienza del Paese: la Cina non ha bisogno di conquiste per vivere, basta a se stessa.

Impero e dinastie
Non è qui possibile ripercorrere in dettaglio la storia millenaria di questa nazione, troppo lungo e complesso è il susseguirsi delle dinastie, delle rivolte, delle fratture e delle riunificazioni dell’impero.
Ci soffermeremo, su alcuni momenti salienti di questa grande vicenda, significativi per aver determinato i lineamenti, lo sviluppo e la realtà attuale di questo Paese.
La Cina conosce il suo primo vero periodo di unità sotto il grande imperatore Qin Shi Huang (260-210a.c.), al quale dobbiamo anche la Grande Muraglia ed il famosissimo esercito di terracotta.
Qin Shi Huang pone fine all’epoca dei “Regni combattenti”, riunifica, in parte con la diplomazia, in parte con la forza i diversi stati: raggiunta l’unità del Paese, conia per sé il titolo di huangdi (letteralmente "augusto sovrano”), che da noi viene solitamente tradotto come “Imperatore”: perciò Qin Shi Huang è anche ricordato come il primo imperatore cinese.
Negli ultimi anni della sua vita Qin venne ossessionato dalla ricerca dell’immortalità, che riteneva potersi assicurare con preparati e pozioni di ogni tipo: paradossalmente morì per avvelenamento da mercurio, contenuto nelle pillole che i suoi medici gli propinavano come viatico per l’immortalità. Il suo mausoleo si trova nei pressi del luogo dove è stata rinvenuta l’armata di terracotta, il cui fine era appunto di guardare la tomba del sovrano. L’uomo che aveva cercato l’immortalità in vita, la ottenne dopo la sua morte, per le sue opere.
Gli archeologi non hanno ancora trovato il coraggio di aprire la camera mortuaria: i resti di Qin Shi Huang riposano indisturbati da più di duemila anni.
Qin fu anche un grande riformatore: abolì i feudi, organizzando l’impero in 36 province, ognuna retta da un governatore di nomina imperiale: ogni provincia era a sua volta divisa in distretti amministrati da funzionari civili: costruì una eccellente rete stradale, imponendo anche l’unificazione dello scartamento dei carri, per migliorarne la fruibilità; impose l’unificazione di pesi e misure, della moneta, delle leggi, ordinando anche la distruzione dei libri, per evitare ogni possibilità di ritorno al passato. La rapidità delle riforme (che comunque verranno riprese dai regimi successivi) e la brutalità con cui venivano imposte, determinarono violente reazioni in tutto il paese ed alla sua morte la Cina ripiombò nel caos.

Uno dei lineamenti caratteristici della storia della Cina è l’alternarsi di fasi di disordini, divisioni, fratture interne, a periodi di unità e concordia, che coincidono con i momenti di maggior splendore, in una perenne ciclicità; è stato detto che l’occidente si è sempre sviluppato per esplosione, per proiezioni verso l’esterno, le grandi conquiste, gli imperi, le esplorazioni o l’attività missionaria, la Cina per implosione: ripiegandosi su sé dopo ogni periodo di crisi, di guerre, di frammentazione in stati diversi, la Cina ha sempre ritrovato se stessa, la sua cultura, la sua forza, il suo destino.
I disordini seguenti la morte del primo Imperatore si placano con l’avvento al potere della dinastia Han (200 a.c. – 220 d.c.), che pur conservando le strutture amministrative del predecessore riesce a riportare il Paese all’unità e promuove una fase di grande crescita economica e politica, con la conquista di Mongolia, Manciuria e Corea: questa dinastia ha dato il nome all’etnia dominante in Cina, gli Han; la Cina classifica, ancor oggi, la propria popolazione in etnie , gli Han (i veri cinesi) 1100 milioni, Mancesi 9 milioni, Mongoli 4 milioni, Miao 9 milioni e via dicendo.
La caduta degli Han conduce ad un nuovo, lungo periodo di frammentazione e di guerre intestine, da cui si esce con l’ascesa al potere delle dinastie Tang (618-907 d.c.) e Song (960-1279 d.c.) che segnano la prima età d’oro della Cina: a questi anni si possono far risalire l’apertura della via della seta (e quindi lo sviluppo del commercio internazionale), ma anche le grandi invenzioni, che il mondo occidentale conoscerà solo molto più tardi, come la bussola, la stampa, la polvere da sparo.
Alla dinastia Tang si fa risalire anche la prassi, importantissima, dei “concorsi” per la scelta dei funzionari pubblici. Sappiamo bene che l’occidente, purtroppo, ha sempre selezionato le sue classi dirigenti, per diritto di nascita, almeno fino all’età moderna: per i Romani valeva la “gens”, più di ogni altra cosa, i Germani avevano il culto della “Sippe”(stirpe).
Questi concetti si radicano e si evolvono nel Medioevo, periodo in cui si afferma e prevale la nobiltà per diritto di nascita: nobiltà che, di fatto, governa il nostro continente almeno fino alla Rivoluzione francese.
Sorprende notare la totale estraneità a questo approccio del mondo cinese. A parte l’imperatore, personificazione o interprete della divinità, nessuno aveva diritti politici per nascita; fino dal VI/VII secolo d.c. la selezione dei funzionari a tutti i livelli avveniva per concorsi, che avevano come oggetto il pensiero di Confucio; questo pensiero è stato per secoli l’impalcatura teorica, etica, politica e filosofica della società cinese. Proprio Confucio (VI secolo a.c,) mette l’accento sull’organizzazione sociale e sul rapporto tra individuo e collettività; proprio Confucio ammonisce le classi dirigenti che il loro potere non può derivare da posizioni o ricchezze acquisite per nascita, ma dal valore morale del loro operato.
L’ultima fase era presieduta dall’imperatore in persona, che sceglieva così, in base a merito e cultura, ministri, governatori, funzionari di ogni grado, dal centro alla periferia: una differenza culturale non da poco, rispetto ai nostri paesi.
Vale quindi la pena di riassumere i caratteri dominanti del mondo cinese, come li abbiamo qui sopra intravisti, per comprendere la specificità di questo popolo:
Civiltà fluviale, quindi modello politico imperiale.
Civiltà del riso, quindi surplus alimentare, incremento demografico, sviluppo.
Civiltà che cresce per implosione, perché sostanzialmente autosufficiente.
Civiltà meritocratica.
Il declino della dinastia Song ed il contemporaneo apice della potenza militare mongola con Gengis Khan (che aveva riunito sotto le sue bandiere le tribù della steppa) aprono le porte alla prima dominazione straniera, che si impone con la forza delle armi; Gengis Khan lancia l’”Orda Azzurra” alla conquista della Cina. Superata la Grande Muraglia, i mongoli occupano il Nord del Paese, stabiliscono la loro capitale a Pechino e fondano la dinastia “Yuan”: l’imperatore conosciuto da Marco Polo, Kublai Khan, è un mongolo, nipote di Gengis Khan.
Gli Yuan completano già con Kublai l’occupazione della Cina e tentano, per due volte, l’invasione del Giappone; in entrambe le occasioni, una tempesta di vento disperde la flotta cinese, da questo episodio deriva il termine giapponese “kamikaze”, vento divino, inteso come evento salvifico contro una invasione; sarà impiegato per denominare i piloti suicidi che avrebbero dovuto fermare la flotta americana nella II Guerra Mondiale.
Con gli Yuan la Cina conosce il periodo di massima apertura al mondo occidentale: l’impero mongolo si estendeva fino alla Russia (“Orda d’Oro”), alla Persia ed alla Siria: i rapporti tra i vati “Khanati” erano intensi e frequenti e così gli scambi diplomatici, economici e culturali. In Cina i mongoli, che detenevano il potere, erano numericamente molto inferiori alla etnia autoctona, della quale non potevano fidarsi e quindi sceglievano spesso ministri e consiglieri tra gli stranieri che giungevano a corte; questo è il motivo della buona accoglienza che ebbero i Polo, che furono impiegati anche in missioni diplomatiche e militari.
Il limite della dominazione Yuan fu il potere concesso alla casta militare che di fatto governava la Cina.
Alla fine, nel 1368, il malgoverno dei mongoli determina una vasta rivolta popolare, che riporta al potere una dinastia autoctona, i Ming.
Sotto i Ming la civiltà cinese conosce l’ultimo periodo di grande splendore, divenendo, secondo gli storici, lo stato più evoluto della terra. Si sviluppano economia e commercio, viene approntata una grande flotta con navi di stazza pari a 1500 tonnellate, si producono più di 100.000 tonnellate di ferro all’anno, mentre il vasto impiego della stampa a caratteri mobili consente la crescita culturale del paese; si sviluppano anche le arti, come testimoniato dalle magnifiche ceramiche di quest’epoca. Con i Ming la Cina raggiunge la più vasta estensione territoriale mai conseguita, grazie anche al potente esercito creato dal primo imperatore della dinastia, Hongwu, che introduce una serie di riforme che riportano il paese ai livelli di efficienza e benessere antecedenti alla dinastia Yuan. Abolisce, ad esempio, il predominio della casta militare, imposto dagli Yuan e riporta definitivamente in auge il sistema dei concorsi, per la selezione della burocrazia amministrativa.
Al suo successore, Yongle, dobbiamo alcune delle più straordinarie opere di questo periodo, in primo luogo la “Città Proibita”; già gli Yuan avevano eretto una serie di padiglioni appena fuori le mura di Pechino (Bei Jin, capitale del nord). Yongle li fece distruggere, erigendo al loro posto, dal 1406 al 1420, i magnifici palazzi che diverranno la residenza di 24 imperatori delle dinastie Ming e Qing: si tratta di un insieme di 960 palazzi, divisi in 8707 camere, che coprono una superficie di 720.000 mq, il più grande complesso abitativo al mondo. La Città Proibita è circondata da mura alte 7,9 metri e spesse 8,62 m; oltre le mura corre un fossato profondo 6 m e largo 52: tradizionalmente la città è divisa in “Corte esterna” e corte “interna”; quest’ultima era la residenza dell’imperatore, mentre la Corte esterna era dedicata al cerimoniale e a funzioni di rappresentanza.
Il “Palazzo della Suprema Armonia” e la sua splendida sala del trono, che ci accolgono all’ingresso, riempiono ancora oggi di stupore i visitatori.
A Yongle si deve un’altra impresa di eccezionale portata, le sette grandi spedizioni navali di Zeng He. Zeng He, un ambizioso e geniale eunuco di etnia e religione musulmana, tra il 1405 ed il 1433, condusse la flotta cinese oltre il Mar della Cina, attraverso l’Oceano Indiano fino al Corno d’Africa: una delle sue spedizioni più importanti contava con 62 giunche e 28000 soldati, la più grande spedizione navale mai vista fino allora; le giunche di Zeng He disponevano di più piani (o ponti) sovrapposti, capaci di ospitare marinai, soldati, ma anche merci pregiate, seta, porcellane, spezie, ed i mercanti che erano i veri sostenitori delle spedizioni.
Queste spedizioni non avevano fini di conquista, come le spedizioni dei paesi occidentali, ma ambivano ad es
flotta cinesepandere i commerci e le relazioni politiche, quasi ad affermare una supremazia del Paese su di una zona di influenza. Costituiscono uno dei momenti più affascinanti e meno conosciuti della storia cinese, ma ebbero vita breve perché già nella seconda metà del ‘400 gli imperatori iniziarono prima a limitare, poi a proibire le navigazioni oceaniche, con il pretesto di dover fronteggiare la rinnovata minaccia mongola e gli attacchi della pirateria giapponese: sembra viceversa che questa brusca inversione di rotta sia stata dovuta al riemergere delle correnti neo-confuciane,

 tornate in auge proprio con la prassi dei concorsi, che i Ming avevano reintrodotto, dopo la parentesi imposta dagli Yuan. Confucio infatti considera il commercio un’attività parassita, l’unica fonte di ricchezza era la terra, al limite l’artigianato: era ovvio quindi che la nuova classe dirigente, formatasi sui suoi testi, cercasse di bloccare, con successo, queste nuove iniziative.

Anche i Ming conobbero la stessa sorte dei loro predecessori; il malgoverno degli ultimi imperatori di questa dinastia generò disordini e rivolte, che portarono rapidamente al collasso il potere imperiale.

Con la fine dei Ming inizia il declino della civiltà cinese.

La fine della dinastia Ming segna l’inizio del declino della civiltà cinese.
Si è discusso a lungo circa le cause di questo declino, che appare ancora oggi inspiegabile visto il livello di sviluppo raggiunto nel primo secolo di dominio di questa dinastia. Certo, volendo fare un confronto, il declino della civiltà del Rinascimento in Italia fu ancora più rapido, ma qui le cause sono molto più evidenti, guerre, invasioni, Controriforma, spostamento delle rotte commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico ed altro ancora.
Nulla di tutto ciò in Cina, non vi furono cause esterne, il declino della Cina è un fatto endogeno.


Giova ricordare che i secoli XVI e XVII segnarono il decisivo sviluppo della potenza degli stati europei, sviluppo trainato dall’imporsi di una nuova borghesia mercantile e capitalista; proprio il sorgere del capitalismo è la molla del progresso dell’occidente. Anche le guerre, frequenti e sanguinose non furono di ostacolo, anzi promossero la creazione e l’adozione di nuovi armamenti, sempre più potenti e micidiali, che costituirono anche la premessa della superiorità politica e militare dell’Europa.

Le grandi navi, irte di cannoni, capaci di abbattere ogni fortezza, erano il simbolo di questo strapotere.

La Cina proprio in questo periodo sembra chiudersi in se stessa, in un isolamento più psicologico che materiale, perché i traffici continuano, le esportazioni conoscono un rapido incremento.

E' la convinzione di autosufficienza, l’autoreferenzialità che separano la Cina dal mondo occidentale, proprio mentre questo allunga il suo passo.

La debolezza e l’incapacità degli ultimi esponenti della dinastia Ming sono state tra le cause del declino.

In un sistema autocratico, fortemente accentrato, quale era il modello politico introdotto dai Ming, i problemi al vertice si riflettono negativamente su tutto il paese.

Questi problemi si erano manifestati in diverse circostanze anche nel passato, ma il Paese era sempre stato capace di risorgere più forte di prima. Questa volta invece il declino continua inarrestabile, anche quando una nuova dinastia riesce ad arginare i disordini; evidentemente le cause erano diverse, in primo luogo il riaffermarsi dell’ortodossia confuciana a livello politico: la dialettica, che da sempre è la molla della civiltà occidentale, non è una componente del pensiero dominante in Cina, il fine per il seguace di Confucio è la ricerca dell’armonia nella società civile, che così si cristallizza nell’autoreferenzialità, rifiuta il confronto con il mondo esterno.

La crescita di una borghesia mercantile, primo gradino dell’economia capitalista, non è ammessa dall’etica confuciana, che vede solo nel contadino il produttore di ricchezza, il mercante è un parassita. Così la civiltà più evoluta, avanzata e sofisticata del mondo si avvia al collasso.

Il malgoverno e la corruzione imperante negli ultimi anni della dinastia Ming ed i disordini che ne conseguono portano ancora una volta la Cina sotto una dinastia straniera, i Qing.

La dinastia Qing non fu fondata dall'etnia degli Han, che forma la stragrande maggioranza della popolazione cinese, ma dal popolo semi-nomade dei Manciù, che si era reso indipendente, acquisendo coscienza di sé per la prima volta, nell'attuale Cina nord-orientale, all’inizio del XVII secolo, dopo essere stato a lungo vassallo dei Ming. Il capostipite della dinastia Qing era stato un abile capotribù di nome Nurhaci, che si affrancò dalla soggezione ai Ming, riunendo sotto il suo vessillo le varie tribù mancesi. Il figlio Huang Taiji, rinforzato l’esercito incorporando unità cinesi, riuscì a sottomettere Corea e Mongolia, impadronendosi anche, dopo la morte dell’ultimo Gran Khan, del sigillo degli Yuan, gli antichi imperatori della Cina. Traendo vantaggio dall'instabilità politica e dalle ribellioni popolari che sconvolgevano la Cina ( l’ultimo imperatore Ming si era impiccato ad un albero della città proibita) , le forze militari dei Manciù, guidate da Kangxi, primo imperatore della dinastia, si riversarono nel 1644 nella capitale dei Ming, Pechino, e da lì soggiogarono progressivamente tutto il territorio dell’impero.

Gli inizi furono positivi, anche se i Manciù vollero imporre ai cinesi anche le loro usanze, come il codino (odiatissimo dagli Han) e la fronte rasata. Dopo un secolo e mezzo di sostanziale stabilità, però. anche i Qing ebbero a conoscere problemi di crescente gravità., dovuti, sia a disordini interni (rivolta dei Taiping, i cosiddetti “Adoratori di Dio”), ma anche e soprattutto allo scontro con le nazioni occidentali, in particolare la Gran Bretagna: questi eventi portano il nome, vergognoso per gli inglesi, ma anche per tutti noi occidentali, di “Guerre dell’oppio”.
L’oppio era stato introdotto in Cina dagli olandesi nel XVI secolo e successivamente bandito dagli imperatori cinesi, giustamente preoccupati per la salute dei loro sudditi.
Il 1700 vede una rapida espansione dei commerci con la Cina, scambi che si svolgono però a senso unico, dato che in tutto l’occidente, Inghilterra in particolare, cresce la richiesta di prodotti cinesi, diremmo oggi, di lusso, come tè, seta, ceramiche (i servizi da tè si chiamano ancora, in inglese, “China”), importazioni che non vengono compensate da acquisti

di beni inglesi (la Cina era ed è autosufficiente), ma devono essere pagate in argento.

Per compensare questo squilibrio della bilancia commerciale, la Compagnia Britannica delle Indie Orientali non trova di meglio che aggirare i divieti in essere, esportando in Cina l’oppio prodotto in India. Si realizza una sorta di triangolazione; gli inglesi si fanno pagare le loro esportazioni in India con l’oppio ivi prodotto e con questo pagano le importazioni dalla Cina.

L’imperatore, deciso a stroncare il triste commercio, invia a Canton, principale porto d’accesso, un funzionario onesto e coraggioso, il mandarino Lin Zexu, che, dopo aver scritto inutilmente alla regina Vittoria (che non si degna di rispondergli), fa sequestrare tutto l’oppio su cui riesce a mettere le mani e lo fa distruggere (1839).

Gli inglesi prendono questo affronto come “casus belli” e scatenano la prima guerra dell’oppio, che rivela tutta l’inadeguatezza delle forze armate cinesi a fronte dei cannoni e dei fucili occidentali. La guerra si conclude nel 1842 con il trattato di Nanchino; i cinesi devono riaprire agli inglesi il commercio dell’oppio in tutto l’impero, nonché i porti di Shangai e Canton: viene ceduta agli inglesi l’isola di Hong Kong. Nel 1856 scoppia la seconda guerra dell’oppio, inglesi e francesi giungono fino a Pechino ed impongono condizioni ancora più gravose ed avvilenti, tra le quali la possibilità per le navi occidentali di risalire i grandi fiumi, per estendere i loro traffici.
Il potere dei Qin, stretti tra l’arroganza degli stranieri e le rivolte popolari, conseguenza di una cattiva amministrazione, declina rapidamente; è evidente a tutti l’impotenza della Cina nei confronti dei barbari stranieri ed il malcontento aumenta di giorno in giorno, investendo chi è al governo. Si tenta di reagire: poiché gli stranieri giungono su potenti navi da guerra, l’imperatrice Cixi, di cui parleremo, impone una tassa speciale al paese per finanziare la costruzione di una flotta capace di confrontarsi con le potenze straniere: poi, ottenuti i fondi, li impiega per scopi personali, si fa costruire una residenza estiva alle porte di Pechino (Palazzo d’estate).

Qui, in un laghetto, si può ancora ammirare un vascello in marmo (nave del sollievo o della purezza), fatto costruire anch’esso dall’imperatrice con i fondi raccolti per la flotta, atroce sberleffo ai sacrifici del popolo cinese. Anche così cadono gli imperi.
Cixi, penultima regnante della dinastia Qin, è stata anche l’unica donna che abbia occupato il trono cinese per un lungo periodo; detta imperatrice madre o imperatrice concubina, regnò per 67 anni, dal 1861, all’indomani della seconda guerra dell’oppio, fino al 1908; era solo una concubina dell’imperatore, ma anche la madre dell’unico figlio maschio, del quale, alla morte dell’imperatore, assunse la tutela, per la sua minore età. Morto anche il figlio, prima di salire al trono, l’ex concubina divenne tutrice del nipote, ma quando questi raggiunse la maggiore età, Cixi non accettò di lasciare il trono e fece imprigionare il nipote, restando sola al governo.
Con Cixi l’impero cinese vive il suo ultimo travagliatissimo periodo, combattuto tra tentativi di modernizzazione, intrapresi dalla stessa Cixi , rivolte contadine e sommosse xenofobe, la più nota delle quali va sotto il nome di rivolta dei Boxer (1900). Boxer era il nome dato dagli occidentali alle società cinesi che praticavano le arti marziali (“Società dei pugni celesti”), collegate tra di loro da oscuri contatti e tutte ferocemente xenofobe; il loro obiettivo era la cacciata degli stranieri, con ogni mezzo. L’assassinio dell’ambasciatore tedesco e le misure repressive minacciate fanno esplodere la rivolta. Cixi, posta di fronte al rischio di essere detronizzata, si allea con i Boxer che assediano il quartiere delle “Legazioni” a Pechino, difeso da uno sparuto manipolo di soldati inglesi e statunitensi (c’era anche qualche marinaio italiano); poi l’esercito Qin e la folla dei boxer devono fronteggiare la spedizione internazionale di otto nazioni (tra cui l’Italia) inviata in soccorso dei residenti stranieri (la vicenda ha ispirato il film “55 giorni a Pechino”). I contingenti stranieri occupano Pechino, Cixi è costretta a fuggire vestita da contadina e deve accettare una pace umiliante, che estende la extraterritorialità delle “Legazioni” a vaste zone del paese, l’Italia ottiene, ad esempio, la città di Tientsin.
Cixi muore nel 1908 dopo aver designato al trono il figlio del nipote, che lei stessa aveva fatto imprigionare, un bimbo di due anni, di nome PuYi.

Oramai la crisi del sistema imperiale era all’ultimo stadio: si era sviluppato, inizialmente tra i cinesi residenti all’estero, un nuovo movimento politico che proclamava tre principi fondamentali, “Indipendenza nazionale” ( cioè cacciata degli stranieri), “Potere del Popolo” (cioè democrazia), “Benessere del popolo” (cioè riforma agraria); il movimento si costituisce come partito nel 1911, col nome di “Kuonmintang”, Partito Nazionalista, e con un leader il Dr Sun Ya Tse (ammiratore e seguace delle idee mazziniane) , che era stato fin dal principio l’ispiratore del movimento.

Nello stesso anno la rivoluzione Xinhai, iniziata a Wuhan dallo stesso Sun Ya Tse, rovescia il governo imperiale ed è lo stesso PuYi che firma l’instaurazione della Repubblica con presidente provvisorio Sun Ya Tse e capitale a Nanchino (1° gennaio 1912).
Il nuovo regime è assolutamente debole, inizia una fase estremamente confusa della storia del Paese: a Pechino si instaura un nuovo governo imperiale capeggiato da un generale del vecchio esercito Yuan Sikai, mentre Sun è costretto a fuggire in Giappone. Alla morte di Yuan Shikai, la Cina si frantuma; è il periodo detto dei “Signori della Guerra”, cioè i comandanti provinciali dell’esercito imperiale, che si dichiarano indipendenti dal governo centrale, ciascuno governa in autonomia la sua provincia, spesso in feroce conflitto con i suoi omologhi. Sun Ya Tse rientrato nel 1917, fonda di nuovo il Kuonmintang e cerca di organizzare la campagna contro i Signori della Guerra; alla sua morte nel 1926, prende il comando uno dei suoi più stretti collaboratori, Chiang Kai Schek, direttore della scuola militare di Whampoa.

Chiang, grazie anche agli aiuti che gli giungono dall’Unione Sovietica, riorganizza l’esercito ed inizia la “Spedizione del Nord” contro i Warlords: gli si affiancano i seguaci del “Partito Comunista Cinese” nato nel 1921 da una costola del KMT.

Ottenuti i primi successi e spostata la capitale a Nanchino, Chiang decide che è il momento di liberarsi della minaccia a sinistra ed inizia una selvaggia repressione del movimento comunista in tutti i territori da lui occupati. Nel 1928 viene nominato “Generalissimo” e presidente del Kuonmingtan e giunge ad occupare Pechino, debellando così i “Signori della Guerra”. La guerra contro i comunisti prosegue e con la quinta offensiva del 1934/35, Chiang sembra ottenere un successo decisivo, i comunisti, circondati, sono costretti ad una -drammatica ritirata verso il Nord, verso lo Yanan, detta “La lunga marcia”: in queste circostanze emerge la figura di Mao Tse Tung, che in breve assume la guida del partito.

La guerra sino-giapponese
La crisi dell’Impero cinese aveva da tempo destato gli appetiti di un suo bellicoso vicino, il Giappone; con la guerra russo cinese (1905) i giapponesi riescono a mettere piede sul continente, occupano Shandong prima e, subito dopo, tutta la Corea. Non contenti di questi risultati, durante la prima guerra mondiale, pur essendo in teoria alleati dell’Intesa (come la Cina), inviano al governo cinese le “21 richieste”, che, se accettate, avrebbero trasformato la Cina in un protettorato giapponese: la dura reazione delle potenze occidentali costringe il governo nipponico a ritirarle, ma la crisi economica del dopoguerra ripropone alla classe dirigente giapponese la questione della Cina, il cui mercato appare come lo sbocco indispensabile per la produzione industriale del paese.
Già nel ’27 i militari al governo in Giappone tentano di espandere con la forza la zona di occupazione dello Shandong, ma la decisa opposizione di Unione Sovietica e Stati Uniti li costringono a far marcia indietro; nel 1931 si cambia obiettivo, la Manciuria, che era già un protettorato giapponese, viene occupata militarmente a seguito dell’incidente di Mukden, inscenato ad arte da militari giapponesi, e trasformata nel trampolino di lancio per il controllo della Cina.
Al fine di dare all’operazione un crisma di legalità i giapponesi instaurano nella regione lo stato del Manciukuò ponendo a capo dello stesso Pu Yi che era stato l’ultimo imperatore Qin, un manciù, quindi, almeno in teoria, rappresentativo della popolazione locale.


La condanna da parte della Società delle Nazioni non ferma il

Giappone, che ne esce nel 1933, mentre prosegue la pressione sui confini della Cina, dilaniata dalla contesa tra il nascente partito comunista di Mao Tse Tung ed il Kuonmintang di Chiang. Si susseguono incidenti e provocazioni da parte giapponese, con lo scopo di intimidire la controparte, imponendo la demilitarizzazione di importanti città, fino all’evento decisivo, l’incidente detto “del Ponte di Marco Polo”, non lontano da Pechino, dove si scontrano la guarnigione del ponte con reparti giapponesi in addestramento (7 luglio 1937). Il ponte, costruito nel 1189, deve il suo nome alla stupefatta descrizione che ne fa il grande viaggiatore. L’incidente del Ponte fornisce il pretesto per l’inizio delle ostilità, il Giappone sbarca ingenti rinforzi e muove alla conquista della Cina.

Nella guerra sino giapponese si possono distinguere tre fasi

 

Prima fase: 7 luglio 1937 (battaglia del Ponte di Marco Polo) - 25 ottobre 1938 (caduta di Hankou). In questo periodo l’esercito del KMT non è in grado di confrontarsi con l’esercito giapponese, soprattutto a causa dell’arretratezza dell’infrastruttura industriale del Paese; è quindi costretto a cedere Pechino, Tientsin e, infine, dopo una sanguinosa battaglia anche Shangai. In pratica l'esercito cinese deve limitarsi a rallentare l'avanzata giapponese verso le città industriali del nord-est, cedendo spazio in cambio di tempo, in modo da permettere di smontare le (poche) industrie esistenti per ritirarle verso Chongqing ove ricostruire una base produttiva.

Seconda fase: 25 ottobre 1939 - luglio 1944. Stallo delle operazioni.

L’avanzata giapponese viene contenuta, ma questi sono anche gli anni in cui le atrocità giapponesi raggiungono il culmine, massacri di civili, campi di concentramento, lavoro forzato, esperimenti medici su cavie umane ed altro. Chiang Kai Tschek e Mao Tse Tung decidono di interrompere la guerra civile per far fronte comune contro l’invasore; grazie anche a questa cooperazione, le armate cinesi riescono a colpire l'avversario attraverso azioni improvvise miranti a tagliare le sue linee di rifornimento, bloccando così sul nascere anche eventuali manovre offensive.

L’attacco a Pearl Harbour del dicembre 1941 modifica il quadro strategico complessivo della guerra sino giapponese, facendola divenire parte del conflitto generale. Chiang Kai Schek che fino a quel momento aveva evitato di dichiarare guerra al Giappone per non perdere gli aiuti delle nazioni neutrali, Stati Uniti in primo luogo, ma anche Germania ed Italia (fino alla firma dell’Asse), formalizzò lo stato di guerra ottenendo un flusso crescente di aiuti americani e venendo riconosciuto come capo di tutte le forze alleate di quel settore.


Terza fase: luglio 1944 - 15 agosto 1945. A questo periodo corrisponde il contrattacco generale mirante alla completa liberazione del territorio cinese.

Gli Stati Uniti aumentano la loro presenza in Cina, aprendo anche numerose basi aeree, che il Giappone cerca di attaccare, ma è poi costretto a ritirare numerosi contingenti per affrontare l’avanzata americana nel Pacifico; la tragedia volge al termine, il 6 agosto 1945 gli americani sganciano la prima atomica su Hiroshima, il 9 agosto Stalin denuncia il patto di non aggressione con il Giappone ed inizia l’invasione della Manciuria: un’armata giapponese forte di un milione di uomini viene liquidata in pochi giorni. Il Giappone firma la capitolazione in Cina il 9 settembre.
Nel 1945 la Cina uscì dalla Seconda guerra mondiale facendo parte, almeno nominalmente, del gruppo delle grandi potenze che l'avevano vinta benché la nazione fosse prostrata da una grave crisi economica e travagliata di fatto dalla guerra civile. L'economia, messa in crisi dalla guerra, entrò in una grave spirale inflazionistica anche a causa delle attività speculative di molti membri del governo nazionalista, e subì ulteriori colpi a causa di fenomeni naturali aggravati dalla mancata manutenzione del sistema idrico della valle del Fiume Giallo, il cui straripamento provocò milioni di profughi e condizioni di vita precarie in molte regioni.
La guerra lasciò il governo nazionalista indebolito e scarsamente popolare, mentre rafforzò il Partito Comunista sia dal punto di vista militare che come popolarità. Nelle "zone liberate" Mao Zedong fu abile nell'applicare i principi del marxismo-leninismo alla particolare situazione cinese. Egli ed i quadri dirigenti del partito si proposero alla guida delle masse contadine vivendo in mezzo a loro, mangiando lo stesso cibo e cercando di pensare alla stessa maniera. A queste tattiche si unirono anche campagne di indottrinamento politico, di alfabetizzazione e di coercizione nei confronti delle classi "agiate". L'Esercito di Liberazione Popolare si costruì un'immagine di fiero combattente della guerriglia in difesa del popolo cinese, entrando in sintonia soprattutto con i contadini, cui si lasciava intendere che gli espropri della proprietà terriera sarebbero tornati a loro vantaggio .
Con queste premesse era scontato che la guerra civile, scoppiata all’indomani della resa del Giappone volgesse rapidamente a sfavore del Kuonmintang, malgrado gli ingenti aiuti provenienti dagli Stati Uniti, letteralmente divorati dalla crescente corruzione dei ceti dirigenti; il 21 gennaio 1949 Chiang rinuncia alla posizione di presidente della Cina, il 10 Dicembre un aereo militare americano lo porta a Taiwan da cui non farà più ritorno.

Il 1° ottobre 1949 viene proclamata la Repubblica Popolare Cinese, con presidente Mao Zedong.
Dopo anni di divisioni e guerre civili, la Cina ritrova infine unità e concordia sotto un nuovo Imperatore, capostipite di una dinastia di imperatori socialisti.
Si chiude il circolo aperto con la destituzione di Pu Yi: dopo un vago tentativo di instaurare una repubblica parlamentare, la Cina torna ad essere quello che era sempre stata, un Impero.

Mao Tze-tung (1893 – 1976) fu uno degli artefici della rivoluzione cinese:

Nacque da una famiglia di contadini non particolarmente disagiata. Egli studia all’università di Pechino. Nel 1921 Mao, insieme ad altri attivisti, fonda il Partito Comunista Cinese. Già due anni dopo egli inizia a elaborare le strategie per controllo politico della Cina. L’idea del controllo dell’ampio sostrato rurale cinese era già presente in questi anni. Nel 1934 Mao conduce la lunga marcia a seguito della sconfitta del PCC da parte del Koumintang. Negli anni successivi, dapprima riorganizza il PCC insieme a Chou En Lai, poi stringe nuovamente alleanza con Chiang Kai-shek contro le truppe imperiali giapponesi. Quando riesce a scacciare Chiang a Formosa, Mao può prendere il controllo della Cina e imporre la riorganizzazione dello stato secondo il modello socialista: era l’inizio della dittatura del partito comunista cinese con a capo Mao Tze-tung.

 

Il primo e il secondo piano quinquennale. La rivoluzione culturale, la morte di Mao. Gli anni ’80-’90 e alcuni accenni allo stato di cose attuale.

Il primo intento di Mao fu quello di affermare il PCC come unico partito al potere, cosa che fece sin da subito nel suo intervento del 1° ottobre del 1949. Il secondo passo fu quello di riorganizzare la Cina secondo il modello socialista. Come abbiamo visto, Mao aveva accettato di far arrivare consiglieri militari e politici dall’URSS, prima e durante la guerra civile. Alla vittoria, dovette nuovamente fare una scelta di campo e si allineò alle direttive di Stalin. Furono gli anni in cui due tra i tre più grandi feroci dittatori della storia si ritrovarono in una comunanza di vedute.


Con il primo piano quinquennale (1953-1957) Mao avviò la conversione della società cinese in società socialista. Il paese, fino ad allora prevalentemente agrario, fu rimodellato da un molteplice piano di intervento generale su più fronti: la riforma agraria condusse alla ridistribuzione della terra in mano ai possessori dei grandi latifondi ai piccoli contadini. L’espropriazione della terra non avvenne in modo indolore: causa di questa riconfigurazione della gestione della terra si stima che i morti furono dai 30 ai 40 milioni, considerando il fatto che la ridistribuzione della terra fu seguita fa un iniziale momento di riassestamento e avvenne nell’arco di tre anni. La produzione agraria ne risentì, determinando un crollo nella produzione delle derrate alimentari. Ciò nonostante il piano fu portato a termine e la terra cinese fu controllata da fattorie a gestione comunitaria. Il processo di ridefinizione del sistema produttivo agrario fu portato avanti in particolare nel biennio del 1955-1957.
Parallelamente, fu avviata una riforma dell’apparato statale e dello stato di diritto riconosciuto in Cina. Mao fece riconoscere la parità dei diritti alle donne e l’equità sul piano del diritto a tutti i cittadini cinesi. Mentre sul piano istituzionale fu combattuta la corruzione e la dispersione delle risorse sul piano gestionale.
Oltre alla riforma agraria, analoga a quella operata da Stalin in URSS con prezzi analoghi, fu operato un massiccio investimento economico e tecnologico nell’industria, specialmente in quella pesante. Se Marx elaborò le sue teorie applicandole a stati già industrializzati sul modello inglese, è anche vero che, nella storia, il comunismo si diffuse soprattutto nei due dei paesi a carattere prevalentemente agricolo per quanto riguarda la produzione: la Russia zarista e la Cina postimperiale. Per tale ragione sia in Russia che in Cina, dopo l’espropriazione e ridistribuzione della terra e la conversione della gestione della stessa da un piano privato ad uno comunitario, fu avviato un massiccio intervento di potenziamento dell’industria pesante, quella considerata il sintomo e il traino di ogni altra potenza industriale. Questa decisione fu presa da Mao anche in seguito ai continui suggerimenti dei consiglieri dell’URSS presenti nei quadri dirigenziali cinesi. In fine, Mao portò avanti anche una riforma dell’istruzione.


La guerra in Corea (1951-1953), tra Stati Uniti e Onu e la Corea del nord, segnò un momento decisivo dell’evoluzione della guerra fredda. L’URSS decise di non intervenire direttamente in Corea ma solo di appoggiare l’esercito nord coreano attraverso l’invio di materiale bellico e derrate alimentari. Mao colse l’occasione per aiutare più massicciamente la nord Corea e inviò diverse forze militari cinesi. A seguito di ciò, si innescarono i primi attriti tra le vedute del “grande timoniere” Mao e dell'”uomo di acciaio” Stalin. Gli Stati Uniti iniziarono la politica del contenimento globale contro il comunismo ma furono abbastanza lungimiranti da non utilizzare l’arma atomica, come richiesto dal comandante in capo dell’esercito, il generale McArthur. Gli scontri in Corea furono impegnativi per le forze cinesi, non ben equipaggiate, e si stima che la Cina perse circa 3 milioni di uomini in Corea. L’intervento in Corea fu utilizzato come espediente per prendere maggiore distacco dal principale alleato, un alleato scomodo con cui la Cina dovette confrontarsi a lungo.
Durante il 1959 alcuni scontri di confine si tramutano in una guerra tra la confinante India e la Cina stessa: il territorio tibetano, già occupato dalle forze cinesi, inasprì la tensione tra i due paesi fino a concludere in un vero e proprio conflitto armato per definire i confini.
Dopo il primo piano quinquennale, parzialmente portato a buon fine dal PCC, Mao avvia il secondo piano quinquennale, che doveva portare ad un ulteriore aumento nella produzione agricola e industriale. Questa pianificazione, anche nota come “Il grande balzo”, portò ad un disastro nella produzione: nel 1959 la Cina fu colpita da una carestia di proporzioni consistenti, determinando malnutrizione, fame e malattia in tutta la popolazione. A seguito di questo fallimento, Mao decide di abbandonare la carica di presidente della Repubblica Popolare Cinese nel 1958, prima che i risultati, già di per sé evidenti, prendessero tutto il loro risalto.

Nel 1960 la Cina si distaccò definitivamente dal compagno russo, rimanendo parzialmente isolata su di un piano internazionale. Fu da questo momento che la Cina dovette scegliere se passare integralmente ad una moderata apertura nei confronti dell’Occidente o rimanere relativamente legata all’URSS, sia politicamente che economicamente. La scelta di campo della Cina fu decisiva. Ma i risultati dell’apertura all’Occidente si videro solamente più tardi, come vedremo. Successivamente, già nel 1965, ci furono altre ragioni di attrito tra i quadri dirigenti cinesi e l’URSS: la Cina contava di sostenere maggiormente l’esercito nord vietnamita per arginare la politica del contenimento al comunismo degli Stati Uniti, i quali avevano dapprima fornito risorse economiche e militari ai francesi durante la guerra in Indocina (cioè, in Vietnam) e poi avevano sostituito l’esercito dell’Eliseo. Gli aiuti cinesi furono fondamentali per il governo di Hanoi, laddove la famosa strada di Ho Chi Minh partiva proprio dal confine cinese per scendere sino al delta del Mekong, coprendo così l’intera dimensione del paese e giungendo anche al confine cambogiano.
Intanto il PCC conosceva una lotta di potere tra chi sosteneva una politica filomaoista, cioè che seguiva le direttive del grande timoniere ritirato, e chi voleva una maggiore apertura verso occidente. Inoltre, il disastro del secondo piano quinquennale scatenò l’insoddisfazione anche all’interno dello stesso PCC sul ruolo di Mao. Egli, di fatto, si stava dimostrando incapace di far ripartire il grande paese ed, anzi, era riuscito ad imporre il primo piano quinquennale con sistemi durissimi, con la repressione armata e con la conseguenza di un crollo della produzione agricola. La carestia del ’59 non consentì ulteriori interpretazioni sulle precedenti scelte politiche del regime. Lo stato di malessere diffuso comportò anche la presenza di rivolte popolari. Mao, che non aveva de facto mai abbandonato la scena politica, si rese conto che l’opposizione al suo operato stava incalzando e per limitarne gli effetti lanciò una nuova riforma: la rivoluzione culturale.
La rivoluzione culturale (1966) fu giustificata in nome del fatto che la popolazione aveva necessità di rinvigorire il proprio spirito rivoluzionario ormai infiacchito. Sotto lo spirito revivalista della rivoluzione culturale fu intrapresa una spietata repressione dei quadri di partito e della popolazione con idee non allineate. La purga operata contro gli oppositori politici interni ed esterni al PCC fu portata avanti mediante sistemi brutali. Furono colpiti gli intellettuali e i grandi centri universitari. I risultati sul piano sociale ed economico furono devastanti: la Cina cancellò quasi interamente la maggior parte delle teste pensanti del paese con un colpo di spugna e dovette aspettare una generazione intera prima di poter ripartire con attività di ricerca di livello adeguato ad una grande potenza. Inoltre, a seguito della repressione e delle devastazioni e del malcontento diffuso la produzione agricola e industriale ebbe un ulteriore momento di decelerazione. Per condurre l’operazione, Mao si premurò di chiudere il paese nei confronti dei paesi stranieri. Nel 1967 un’intera porzione del PCC era stata eliminata.

Nel 1969 Lin Piao si afferma come leader del PCC al posto di Mao, sebbene continui a mantenere una struttura di partito seguendo le direttive del grande timoniere.

Ma nel 1971 Lin Piao viene eliminato e le lotte intestine al PCC riprendono per la successione di Mao al potere.

Ancora nel 1971 lo stato di conflitto aumentò a seguito della scelta di Chou En Lai, storico braccio destro del grande timoniere e potente ministro degli esteri (considerato uno dei grandi geni della politica del XX secolo), di riaprire la Cina agli stranieri, in specie, agli occidentali, in pieno contrasto con quella che era stata la linea di riavvicinamento di Lin Piao all’URSS. Il naturale rifiuto della cultura cinese ad elementi esogeni e dopo il periodo di continua ingerenza degli occidentali all’interno della politica cinese si può comprendere perché la decisione potesse essere così capace di suscitare rimostranze in seno al PCC. D’altra parte, l’URSS era pur sempre un alleato scomodo e la scelta di campo di Chou En Lai si dimostrò di grande lungimiranza.

A seguito della decisione del governo cinese di riaprire il confronto politico ed economico all’Occidente, fu immediatamente riconosciuta come membro dell’ONU nel 1971. Il 1971 fu un anno decisivo: gli Stati Uniti, pur sempre convinti di operare all’interno della loro politica di contenimento, sempre più invischiati all’interno del conflitto vietnamita, ormai perso, si adoperarono immediatamente per aprire i contatti diplomatici con il futuro colosso cinese. Gli USA, infatti, furono da sempre interessati alla geopolitica dell’estremo oriente, in particolare verso il paese della terra di mezzo. Il riconoscimento della Cina nell’ONU deve essere visto come un primo passo, ma importante, di avvicinamento degli Stati Uniti alla Repubblica Popolare Cinese, considerata già allora un importante polo del futuro, sia per quanto riguarda il suo sconfinato mercato interno, sia per quanto riguarda il potenziale sfruttamento della manodopera a basso costo di un paese emergente. Nel 1971 il presidente americano Richard Nixon si reca in Cina. Fu un evento storico, in cui Nixon colse l’occasione per segnare un importante punto di contatto con il nuovo amico cinese. Nel 1972 il premier cinese si recò negli Stati Uniti dove ratificarono alcuni importanti trattati commerciali. Da allora, gli Stati Uniti saranno uno dei principali partner commerciali e sociali della Cina.


Nel 1976 Mao Tze Tung muore. Alla morte ci fu una ripresa delle lotte intestine per la successione al potere. In particolare, il gruppo dei quattro, guidato dalla vedova di Mao, fu uno dei due poli in lotta. Lotta che riprese con ancora più vigore a seguito della decisione di Hua Kuo-feng di varare un piano di riforme economiche per ristrutturare il paese. Dopo un certo periodo, il gruppo dei quattro fu sconfitto e ci fu una stabilizzazione della gestione del potere in seno al PCC.
Il decennio degli anni ’80 vide una normalizzazione delle relazioni estere della Cina con gli altri paesi del globo. In particolare, la Cina, pur mantenendo la dittatura del partito del PCC, si apre sempre più agli interessi e ai capitali occidentali, in particolare a quelli statunitensi. Gli Stati Uniti investirono ingenti somme di denaro e di capitali in Cina, fornendole macchinari e supporti logistici e tecnici. La Cina si serve degli investimenti di capitale statunitensi per rimodernare l’apparato industriale improntato sull’industria pesante, ormai del tutto fatiscente, per migliorare il complesso delle infrastrutture e per avviare la ricerca scientifica e tecnologica nel paese. La Cina aveva lasciato isolata l’URSS nella guerra fredda e questo è stato uno dei motivi determinanti per cui l’URSS, e non la Cina, non riuscì più a mantenere il controllo interno ed esterno delle forze politiche e sociali.
Sul piano interno, però, la Cina manteneva un severo controllo sulle forze contestatrici del regime. Questo fatto, si mostra pienamente durante gli scontri di piazza Tien amen. Innanzi tutto, bisogna comprendere che la Cina, in realtà, è come l’Europa: è un insieme di province, grandi quanto stati, in cui le forze centrifughe non sono trascurabili. Tutta la storia cinese è una continuità di contrasti tra le province e il governo centrale. Inoltre, come si è cercato di evidenziare, sin dal momento in cui i Qing erano in difficoltà, in Cina si costituì un movimento di stampo democratico: il Koumintang era un movimento nazionalista di natura democratica che, durante il proprio governo, aveva effettuato regolari elezioni. La richiesta di un’apertura democratica del popolo cinese al proprio governo è una costante della storia della Cina contemporanea e ancora oggi l’esigenza del passaggio ad un governo democratico è un’esigenza sentita all’interno della popolazione cinese. Durante gli anni ’80 si danno diverse manifestazioni e rivendicazioni, soprattutto dalla classe degli studenti, giovani che vedevano nella struttura politica una realtà non egualitaria e insufficientemente elastica, giovani che avevano più degli altri da rischiare. Lo scontro di piazza Tien Amen inizia come un momento di riunione pacifica, per commemorare la scomparsa di Hu Yoabang. Il 5 aprile del 1989 gli studenti scendono in piazza per manifestare a favore di Hu. La manifestazione pacifica si protrae per due mesi e il governo cinese incomincia a nutrire imbarazzo rispetto ad movimento che vedeva la scesa nelle strade di 500.000 persone, tra studenti e altri partecipanti. Il governo decide di reprimere la manifestazione e, dopo ripetuti avvertimenti, il 4 giugno del 1989 l’esercito cinese viene bloccato in piazza. Dopo aver richiesto la possibilità di intervenire, l’esercito spara sui dimostranti con bombe a gas, mitragliatrici e inviando i carri armati. La manifestazione fu, così, l’emblema di una generazione costretta a rimanere nei ranghi e nell’ordine di una dittatura che non accettava maggiore apertura nei confronti di un sistema politico più democratico. Gli arresti furono più di 2000 e 27 le condanne a morte.


Gli anni ’90 vedono il compiersi della gran parte delle iniziative sociali e politiche intraprese durante i delicati anni ’70 e ’80.

Il governo cinese si allinea alla decisione delle nazioni unite contro Saddam Hussein nella prima guerra del golfo, segnando un momento di massimo avvicinamento alle politiche delle potenze occidentali. La Cina è salita tra le grandi potenze industriali al secondo posto per quanto riguarda la produzione dell’export e il suo PIL è uno dei più alti del mondo. Attualmente fa parte dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), i paesi emergenti che hanno i maggiori tassi di crescita economica del mondo. La Cina mantiene importanti rapporti con tutte le principali potenze occidentali e possiede gran parte del debito pubblico americano, il che la lega a doppio filo con gli interessi americani, già così impegnati in Cina sul piano economico, come abbiamo visto. La Cina, inoltre, ha firmato un importante trattato con l’Italia durante l’ultimo governo Berlusconi.

Attualmente la Cina rimane ancora un paese in cui governa un solo partito, in cui la maggioranza cinese dell’etnia Han, domina sulle oltre duecentocinquanta etnie presenti sul territorio cinese.

L’occupazione armata del Tibet e l’invasione del Tibet da parte di popolazione di etnia Han costituisce un serio problema sia nella politica interna che esterna della Cina. E’ una realtà della politica contemporanea quella di usare i diritti umani come scusa per attaccare il proprio nemico, mentre si predilige tacere sugli abusi perpetrati da sé o dai propri alleati.

Oggi la Cina costituisce uno dei mercati economici e di capitali più importanti del mondo e gran parte degli analisti concorda nel considerare la Cina come un paese in ascesa. La loro moneta, lo yuan, si sta rafforzando anche sul piano internazionale. Non ci sono dubbi sul fatto che la Cina abbia ancora importanti problemi a livello economico, in cui lo sviluppo cinese non può continuare con gli stessi mezzi con i quali è giunta ad essere uno dei principali paesi industrializzati del pianeta. Inoltre, è un paese con grosse difficoltà a livello energetico e la capacità della Cina di sfruttare il proprio territorio nel modo selvaggio con cui ha sistematicamente provveduto negli ultimi quarant’anni rimangono delle grandi ipoteche sul futuro della Cina. Come lo è pure la situazione interna, in cui la popolazione a più riprese richiede l’intervento di riforme che diano alla Cina un volto più democratico e meno oppressivo. Ancora oggi in Cina si può venire arrestati per delle ragioni politiche, repressive e di prevenzione. Rimane, però, una realtà. La Cina è un grande paese e non si può ignorare la sua storia e la sua cultura, come il suo giusto peso all’interno della realtà globale. Se dobbiamo sperare nel futuro dell’umanità, se possiamo avere un po’ di fiducia nei confronti della nostra storia, allora una quota importante di fiducia e speranza li dobbiamo dare anche ai cinesi.