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Da zero a cento

Anno “0” dell’era cristiana. Nessuno di coloro che vivono in questo anno sa che è l’anno “0”, l’anno dal quale la maggior parte dell’umanità avrebbe iniziato a contare il tempo. Nel grande impero romano che domina il mondo occidentale si conta l’anno 753 dalla fondazione di Roma, per i cinesi è l’anno 2.637, per gli ebrei l’anno 3.760 dalla creazione biblica.

Il 25 dicembre di questo anno “0”, secondo il calcolo di un monaco, Dionigi il Piccolo, sarebbe nato Gesù di Nazareth.

Il calcolo non corretto: gli storici hanno dimostrato che l’anno di nascita di Gesù deve essere anticipato di circa 6 anni.

Questo però è l’anno, convenzionalmente accettato come anno zero, come spartiacque tra epoca pre-cristiana e post-cristiana.

Ma com’era la vita in quest’anno “0” e  nei primi 100 anni dall’avvento di Gesù?  Che cosa è cambiato con la nascita del cristianesimo?

Cominciamo dal grande Impero Romano che domina la scena politica e geografica del Mediterraneo.

 

Roma verso l’anno “0” - Nelle province romane il governo è demandato a proconsoli e propretori che avevano poteri vastissimi: civili, militari, giudiziari.

Poiché però (come tutti i magistrati)duravano in carica solo un anno, essi

non potevano assicurare alle province la necessaria continuità amministrativa.

Per risolvere il problema Roma appaltò una serie di funzioni ad agenti, che chiamò pubblicani (cioè “appaltatori”), i quali avevano il compito di riscuotere i tributi e di svolgere altre mansioni per conto dello Stato..Schiavo in un latifondo

 I pubblicani erano imprenditori privati che Roma pagava a percentuale su ogni affare concluso. L’ammontare delle percentuali era legalmente stabilito, ma la scarsa sorveglianza dei proconsoli o, a volte, la loro complicità, permise il dilagare della corruzione. Ben presto pubblicani e proconsoli divennero per i provinciali il motivo di massimo risentimento verso i dominio romano.

Nell’ultimo periodo della repubblica, anche l’elite di potere a Roma ha un ordinamento particolare: i senatori possono fare politica ma non possono fare affari, i cavalieri fanno affari ma non possono fare politica.

Per evitare che la corruzione e gli affari inquinassero l’imparzialità di chi governava la Repubblica, un tribuno della plebe aveva fatto approvare una legge cautelativa in base alla quale chi aspirava a ricoprire cariche politiche doveva dimostrare di possedere solo terreni agricoli e di non essere coinvolto in altri affari (commerci, appalti, prestiti di denaro a usura, ecc.).

Quando le conquiste di Roma furono così vaste da costituire un Impero cambiò anche il carattere dei Romani che da popolo di agricoltori si trasformò in una società raffinata e amante delle arti, ma anche avida di lusso, impegnata negli affari e negli intrighi politici e intenzionata a sfruttare i vinti senza pietà.

Le conquiste fecero esplodere il fenomeno della schiavitù. I pochi schiavi che i ricchi romani avevano posseduto prima delle Guerre puniche divennero milioni.

Gli schiavi, per la maggior parte erano prigionieri di guerra e venivano comprati, sul campo stesso delle battaglie, dai mercanti che seguivano le legioni.

Poi i mercanti li selezionavano e li vendevano all’asta nei mercati dell’Impero. Altre volte i consoli vendettero intere popolazioni, come accadde ai Galli Liguri quando le legioni entrarono nel loro territorio.  Alcune campagne fruttarono in un colpo solo 150.000 schiavi tra uomini, donne e bambini.

Mentre senatori e cavalieri aumentano a dismisura le loro ricchezze, si consuma la rovina dei contadini che hanno combattuto nelle legioni. Quando tornano alle loro fattorie, questi legionari – che a volte sono stati lontani da casa dieci, dodici, sedici anni – trovano i campi abbandonati e sterili per mancanza di braccia. E quando si spaccano la schiena per dissodarli di nuovo e seminarli, si accorgono che il grano della Sicilia, l’olio della Grecia, il vino della Siria superano sui mercati i loro prodotti sia per il prezzo più basso e che per la qualità migliore.

Colpiti dalla crisi economica, i piccoli proprietari si indebitano e offrono il proprio lavoro come braccianti per pagare i debiti e conservare il campo.

Il lavoro a giornata però non serve più ai grandi proprietari, perché ormai fanno coltivare le loro terre da migliaia di schiavi. Uno schiavo offre diversi vantaggi rispetto a un bracciante: costa solo vitto e alloggio e non deve abbandonare i campi ogni volta che lo Stato chiama i contadini a servire nelle legioni. I debiti costringono poi decine di migliaia di piccoli proprietari a svendere i loro campi ai grandi proprietari terrieri, che accumulano centinaia di piccoli lotti fino a costituire enormi distese di terreno, i latifondi.

Cambia il paesaggio: là dove prima c’era un reticolato perfettamente ordinato di piccoli poderi, ora si estendono a perdita d’occhio i terreni delle grandi famiglie senatorie e, mentre precedentemente c’era il podere con la piccola fattoria di una famiglia contadina, ora immense distese coltivate sono dominate da un’unica grande azienda agricola, brulicante di schiavi, chiamata villa in latino.

I latifondi erano enormi e le famiglie senatorie non avevano interesse a farli coltivare interamente e quindi ne lasciavano buona parte incolte tanto che si inselvatichirono e si ricoprirono di paludi, come accadde in Maremma e nella Pianura pontina.

Di conseguenza, i contadini che avevano svenduto i loro poderi, emigravano a Roma e in genere nelle città in cerca di un lavoro. Lavoro che poteva venire solo da opere pubbliche, rare e di breve durata.

Per questo motivo un’intera categoria di ex-piccoli proprietari agricoli si trasformò in proletariato disoccupato che affollava i cadenti fabbricati dei quartieri popolari cittadini.Roma - quartieri popolari

Le campagne che si spopolavano riempivano le città, dando luogo a un fenomeno chiamato urbanesimo (da urbs, “città”). Roma, presa d’assalto da queste masse povere e senza speranza, si avviò a raggiungere il milione di abitanti. Già oltre un secolo prima dell’anno “0”, a questi problemi tentò di porre rimedio un gruppo di nobili, tra i quali emergevano i fratelli Tiberio e Gaio Gracco, discendenti da una famiglia antica e gloriosa, che aveva dato numerosi consoli alla Repubblica.

Entrambi furono eletti “Tribuni della Plebe”: Tiberio nel 133 a.C. e Gaio nel 123 a.C. Entrambi proposero una legge agraria che avrebbe restituito i campi alla plebe urbana, togliendone una piccola parte ai “possessori” di latifondi.

Queste leggi non avrebbero fatto torto a nessuno, anzi avrebbero ripristinato la legalità, perché i “possessori” non erano proprietari, ma semplici affittuari. Molti dei terreni conquistati in Italia e distribuiti agli agricoltori, infatti, erano stati proclamati in origine agro pubblico, cioè “territorio dello Stato”, e chiunque avesse acquisito il diritto di sfruttarli era tenuto a restituirli se lo Stato lo richiedeva.

Da tempo però la nobiltà romana considerava illegalmente i terreni pubblici come terreni di sua proprietà. Essa non volle neppure mettere in discussione i privilegi

che aveva accumulato e, quando il pericolo di perderli divenne concreto, fece assassinare prima Tiberio, poi, dieci anni dopo, suo fratello Gaio, compiendo un atto illegale contro la legge e la religione, poiché i tribuni erano “sacri e inviolabili”.

Tra le leggi a suo tempo proposte da Gaio Gracco ve n’era una particolarmente importante perché estendeva la cittadinanza romana agli italici.

I contadini di tutta Italia si riversano a Roma, che comincia a espandersi oltre le vecchie Mura. I contadini inurbati diventano plebei disoccupati che ciondolano

oziosamente per le strade della città. Gli alleati italici erano collocati al penultimo posto della scala sociale, prima degli schiavi. Dopo aver combattuto per più di tre secoli nelle legioni di Roma, ora chiedevano in cambio il privilegio della cittadinanza.

Gaio aveva percepito la loro esasperazione e con la sua legge intendeva evitare una ribellione generale che avrebbe avuto conseguenze sanguinose per l’Italia intera. La sua morte segnò invece la fine delle riforme. Gli ex contadini non ottennero i campi e gli Italici, delusi nelle loro speranze, cominciarono a covare vendetta verso questa ingiustizia.

La durissima lotta tra i Gracchi e i loro avversari, la sconfitta dei due tribuni e il loro assassinio segnarono una svolta nella storia di Roma.

Da allora in poi la società romana si divise in due fazioni nemiche:

i Popolari, gli “amici del popolo”, che si ispiravano alle idee dei Gracchi, comprendenti la maggioranza dei plebei e una minoranza di nobili, erano impegnati a:

•Ridimensionare lo strapotere del Senato

•Attenuare lo squilibrio tra ricchi e poveri con nuove leggi agrarie

•Favorire della ridistribuzione della terra ai contadini

gli Ottimati (dall’aggettivo superlativo optimus), quindi nobili nonché mandanti dell’assassinio dei Gracchi, erano:

•Favorevoli al rafforzamento del potere del Senato

•Decisi a mantenere la plebe nella povertà

•Contrari alla redistribuzione delle terre ai contadini.

Dopo la morte dei Gracchi, i Popolari cercarono di raccogliersi intorno a un altro capo di prestigio che unisse all’abilità politica la gloria militare: a Roma questa era una qualità essenziale per suscitare l’entusiasmo del popolo e trarre dalla propria parte gli incerti.

Nel 107 a.C. l’uomo che rispondeva a queste esigenze era Gaio Mario, un nobile di origine plebea che, eletto più volte console, guidò alla vittoria le legioni di Roma prima contro un re africano ribelle, Giugurta, poi contro le agguerrite tribù dei Cimbri e Teutoni che stavano invadendo l’Italia.

Oltre che per le imprese militari, Mario si segnalò per una radicale riforma dell’esercito con cui risolse due problemi: il primo problema era quello di sempre, cioè la miseria dei proletari. Il secondo derivava dal primo; infatti un’antica legge riserva solo a chi possedeva terra sufficiente a pagarsi le armi e l’equipaggiamento l’onore e l’obbligo di militare nell’esercito. Di conseguenza la fine della piccola proprietà contadina rendeva sempre più difficile trovare uomini per formare le legioni.

Legione romana

La riforma di Mario si articolò così:

• l’esercito sarebbe stato formato esclusivamente da volontari;

• per arruolarsi non occorreva più possedere terra sufficiente;

• i legionari non solo non dovevano pagarsi l’equipaggiamento, ma avrebbero ricevuto una paga giornaliera e premi in caso di vittoria;

• chi fosse diventato veterano, cioè avesse compiuto 16 anni di servizio militare, avrebbe ricevuto come liquidazione un appezzamento di terra diventando un piccolo

proprietario.

Le nuove legioni nate dalla riforma furono presto sottoposte a una dura prova: la ribellione degli Italici che, sin dal tempo dei Gracchi chiedevano invano la cittadinanza romana e che esasperati dall’attesa, si ribellarono e iniziarono una sanguinosa Guerra sociale (da socii, “alleati”) che durò dal 90 all’88 a.C.

In questa guerra fratricida, Romani e Alleati italici, fino ad allora compagni d’arme in decine di battaglie, furono costretti a combattere tra loro e ad uccidersi. Roma vinse, ma, terminata la guerra, le campagne erano devastate e gli uomini decimati. Inoltre, per rompere il fronte avversario, il Senato fu costretto a concedere progressivamente a quasi tutti gli Alleati la cittadinanza romana.

L’uomo che sconfisse gli Alleati italici si chiamava Lucio Cornelio Silla. Era un patrizio e divenne il capo degli Ottimati.

Nell’88 a.C. Silla era con il suo esercito in Campania, pronto a salpare per l’Oriente dove nel Ponto (attuale Turchia) c’era la rivolta del re Mitradate. Inaspettatamente l’Assemblea della plebe gli tolse il comando e lo affidò a Mario. Era un atto illegale, perché la plebe non poteva togliere a un console un comando militare affidatogli dal Senato, ad esso Silla rispose con un altro atto illegale: marciò su Roma ed entrò con le sue legioni in assetto di guerra nel sacro recinto delle mura, cosa che la legge vietava severamente.

Allora, per la prima volta, due eserciti romani si scontrarono fra loro: i legionari di Silla massacrarono i legionari di Mario e partirono per la guerra contro Mitridate. Partito nell’88 a.C. per l’Oriente, Silla nell’85 a.C. costrinse Mitridate ad arrendersi  Nei tre anni della sua assenza, però, Roma cadde di nuovo in preda ai Popolari e molti Ottimati furono trucidati con i loro clienti; le loro teste mozzate venivano esposte ogni giorno nel Foro.

Silla tornò a Roma nell’83 a.C. e, d’accordo con il Senato, divenne il padrone assoluto di Roma, assumendo nell’82 a.C. una carica non contemplata dalla costituzione repubblicana: quella di dittatore a tempo indeterminato con tutti i poteri, militari, civili e giudiziari. Questo atto incostituzionale fu una delle tante illegalità tollerate in quel burrascoso periodo.

Mario intanto era morto e la vendetta degli Ottimati si abbatté sui Popolari con una violenza senza precedenti. Silla infatti emanò le tavole di proscrizione, che erano elenchi appesi nel Foro e continuamente aggiornati, contenenti i nomi dei suoi nemici. Chiunque poteva ucciderli a vista e senza processo: non solo non sarebbe stato punito per questo ennesimo atto illegale, ma anzi avrebbe ricevuto una ricompensa. Morirono così 80 senatori, 1500 cavalieri e migliaia di cittadini in tutta Italia, ai quali furono anche confiscati i beni. In base alla riforma di Mario, parte delle terre ottenute con le confische furono distribuite in premio ai veterani che avevano combattuto nelle legioni di Silla; molte altre, invece, furono incamerate dagli Ottimati che lo sostenevano e dai loro clienti.

Nell’80 a.C., soddisfatto di aver consolidato definitivamente il potere degli Ottimati, Silla abbandonò improvvisamente la vita politica e si ritirò in una sua villa in Campania,dove morì due anni dopo. Le Guerre civili iniziate nell’88 finirono solo nel 31 a.C., poco meno di sessant’anni dopo.

Gaio Giulio Cesare (Roma 100 ca. – 44 a.C.) nacque da una famiglia antica e patrizia, che, tuttavia, nello schieramento politico, era di simpatie popolari. Anche Cesare mostrò presto simpatia per il partito democratico, cui fu presto legato anche da vincoli familiari (ancora giovanissimo sposò Cornelia, figlia di Cinna, luogotenente di Mario), e durante la dittatura di Silla lasciò Roma per il servizio militare in Asia Minore (81-78). Nel 68 cominciò il "cursus honorum" in Spagna, come questore. Continuò poi come edile, accattivandosi il favore del popolo con grandi feste e spettacoli. Due anni dopo fu eletto pontefice massimo, la carica più alta nel sistema religioso del periodo, molto legata alla vita politica. Nel 62, ottenne la carica di pretore; l'anno dopo, il governo della Spagna. In questo periodo ripudiò la seconda moglie, Pompea, perché coinvolta in uno scandalo con Clodio. Intelligentemente, trattò quest'ultimo con mitezza, mirando all'appoggio politico che poteva trarne dall'amicizia. Nel 60, chiese al Senato la carica di console, ma non gli fu accordata, per via del suo irriducibile nemico Catone.

Cesare arrivò lo stesso al potere nel 59 quando fu eletto console grazie all’alleanza con Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso che in seguito sarà definita come "I° triumvirato": strinse cioè un accordo privato con personaggi potentissimi, scontenti dell'atteggiamento del Senato nei loro confronti.

Divenuto console Cesare darà prova delle sue doti militari e politiche, distinguendosi e superando qualsiasi rivale: proconsole delle Gallie nel 58, ne intraprese la conquista, terminata nel 51.

La formidabile ascesa che portò Cesare ad essere l’uomo più potente di Roma cominciò a procurargli numerosi nemici: il conflitto col senato e l’aristocrazia romana e lo scontro con Pompeo sfociarono (49) in guerra civile: vinti i pompeiani in Spagna e a Marsiglia, Cesare raggiunse lo stesso Pompeo in Grecia, sconfiggendolo a Farsàlo (48) e soffocandone definitivamente i focolai di resistenza.

Diventato padrone assoluto di Roma, Cesare ricoprì – talora contemporaneamente – dittatura e consolato, attendendo ad una radicale riforma della costituzione dello Stato.

Il 15 marzo ("idi") del 44, veniva tuttavia assassinato da un gruppo di aristocratici di irriducibile fede repubblicana, preoccupati per le tendenze aristocratiche e regali che Giulio Cesare andava sempre più assumendo.

Uccidendo Cesare, i congiurati avevano, per così dire, agito in buona fede. Proclamandosi dittatore a vita, Cesare aveva inferto il colpo definitivo alla Costituzione repubblicana, che essi ritenevano l’unica forma di governo in grado di garantire la libertà dei cittadini, e aveva tolto ogni potere al Senato, che essi giudicavano formato da professionisti della politica e quindi insostituibile se si voleva amministrare con competenza lo Stato e trattare con gli Stati esteri.

Ma chi erano i congiurati? Erano aristocratici e senatori, cioè i rappresentanti di una categoria che aveva approfittato delle leggi repubblicane per ottenere ogni sorta di privilegi e le aveva spregiudicatamente infrante ogni volta che questi privilegi erano stati minacciati da altre leggi.

I congiurati chiamavano Cesare “tiranno” e formalmente avevano ragione, visto che egli aveva assunto tutti i poteri e governava prendendo le decisioni da solo. Ma quale “libertà” era minacciata da questa tirannide?  Secondo il parere della plebe, la cosiddetta “tirannide” di Cesare era il governo saggio e illuminato di un uomo che intendeva mettere ordine nel caos creato dalle Guerre civili, porre fine alle stragi e abbattere i privilegi degli aristocratici. Quanto alla “libertà”, per i plebei essa non era altro che l’ingiustizia esercitata dagli aristocratici quando rubavano i campi ai piccoli proprietari o esigevano affitti vertiginosi per gli appartamenti di stabili in rovina.

Ancora una volta la società romana era spaccata su un tema di vitale importanza.

Quando si diffuse la notizia della morte di Cesare, Roma e l’Italia si prepararono alla  rivolta. I plebei e i veterani si armarono. Il giorno dei funerali il testamento di Cesare fu letto pubblicamente e, appena si giunse al punto in cui, attingendo dal proprio patrimonio personale, il vincitore delle Gallie lasciava 300 monete d’argento a testa a ogni plebeo romano a testimonianza del suo affetto per il popolo, il furore scoppiò incontenibile. Bruto, Cassio, Cicerone e gli altri congiurati, per evitare il linciaggio, fuggirono precipitosamente dalla città. Contemporaneamente, contro di loro si schierarono uno dei generali di Cesare, Marco Antonio, e il nipote e f iglio adottivo del dittatore, Ottaviano, che si allearono con un altro amico di Cesare, Lepido, e nel 43 a.C. diedero vita a un Secondo triumvirato che sconfisse Bruto e Cassio nella battaglia di Filippi in Macedonia.

La loro alleanza, però, ebbe durata brevissima e già nel 31 a.C. nelle acque di Azio, davanti alle coste greche, Ottaviano in guerra con Antonio lo sconfisse. La battaglia di Azio segnò la fine delle Guerre civili e consegnò Roma nelle mani di Ottaviano.

Ottaviano chiese poteri eccezionali: agì con deferenza verso le leggi e con astuzia: ogni carica ricevuta rispettava le leggi repubblicane, ma la loro somma trasformava il suo potere in quello di un monarca.Augusto

Tali poteri erano:

il tribunato della plebe, che rese la sua persona “sacra e inviolabile” e gli permise di controllare le Assemblee della plebe, dove si potevano votare leggi senza bisogno dell’approvazione del Senato (i plebisciti);

il proconsolato per tutto l’Impero, che gli assegnò il governo delle province più importanti, nonché il comando supremo di tutte le legioni romane, e gli permise inoltre di avere a sua disposizione il Tesoro dello Stato per finanziarle;

la carica di pontefice massimo, con la quale ebbe il controllo di tutte le cerimonie religiose.

Con questi tre poteri Ottaviano scavalcò quello dei consoli e quello del Senato e divenne un sovrano di fatto. Ottaviano assunse il prenome di imperatore, che fino ad allora era stato semplicemente il titolo riservato ai comandanti vittoriosi; quello di Cesare e come cognome Augusto, “colui che accresce”, cioè che rende i cittadini ricchi e felici.

Stremati da tanti anni di Guerre civili, nelle quali erano stati versati fiumi di sangue ed  erano state vuotate le casse dello Stato, i Romani non chiedevano altro che ordine, pace, sicurezza, una buona amministrazione e risparmi garantiti. Augusto cercò di dare un segnale immediato ai cittadini con una serie di provvedimenti urgenti che tendevano a risanare le finanze statali e a dare sicurezza ai diseredati: congedò 300.000 legionari per rendere meno costoso e più snello l’esercito, annullò i debiti dei privati verso lo Stato e diede l’avvio a grandi opere pubbliche – acquedotti, templi, strade, edifici – impiegando come manodopera i disoccupati di Roma e delle colonie italiche.

Successivamente Augusto varò una vera e propria riforma che diede una nuova sistemazione alle categorie sociali dell’Impero. Al Senato tolse la maggior parte dei poteri politici; però compensò astutamente i singoli senatori con incarichi inutili ma onorifici e redditizi. Inoltre mantenne il loro diritto ormai secolare al governo delle province. Poiché i cavalieri gli apparivano molto più fidati, fece di loro la classe dirigente dell’Impero. A tre di essi affidò il comando dei pretoriani, la nuova guardia imperiale che divenne importantissima perché fu l’unico corpo militare autorizzato a percorrere armato le vie di Roma, la prefettura dell’annona, cioè il controllo dell’approvvigionamento di Roma, la prefettura della flotta.

La classe media, formata da mercanti, bottegai e artigiani, sostenne Augusto perché la pace favoriva le attività e gli affari. Anche la plebe fu avvinta da un legame strettissimo con l’imperatore, che presiedeva come tribuno le Assemblee, organizzava i giochi del circo e, quando il prezzo del pane si alzava eccessivamente, ordinava distribuzioni gratuite di grano.

Infine Augusto compì un gesto rivoluzionario dando importanza al ruolo dei liberti, gli schiavi liberati che avevano curato i suoi affari di famiglia, ai quali affidò l’amministrazione del fisco, il patrimonio personale dell’imperatore, mentre l’erario, le casse pubbliche dello Stato, restava amministrato dai senatori. In breve tempo il fisco divenne più ricco e importante dell’erario. Imitato da molte casate nobili, nel giro di pochi anni, i liberti diventarono una categoria sempre più vasta di privilegiati.

Uno degli obiettivi principali delle riforme di Augusto era non solo la restaurazione della “pace romana”, che avrebbe permesso agli abitanti dell’Impero, di viaggiare al sicuro lungo le sue strade, di commerciare e di sentirsi cittadini del mondo, ma anche la restaurazione degli antichi costumi: religiosità, austerità, coraggio, frugalità.

Il compito di diffondere queste virtù fu affidato a un gruppo di scrittori e di poeti selezionati dal più grande amico di Augusto, che fu anche suo ministro: Mecenate. Nel gruppo emersero Orazio, Virgilioe Tito Livio.

L’imperatore, tuttavia, non riuscì a restaurare gli antichi valori morali. La società ormai si era troppo degradata, i ricchi conducevano una vita tra agi e vizi, la plebe voleva solo giochi e grano gratuiti, il rispetto per gli antichi dèi romani si era allentato e molti subivano il fascino di altre religioni che venivano dall’Oriente tra cui a breve spiccherà il cristianesimo. Accanto ai poeti di corte protetti dal mecenatismo, cioè dal denaro e dai regali di Mecenate, ce n’erano altri, come ad esempio Ovidio, che celebravano i divertimenti sfrenati, gli amori extraconiugali, i banchetti che duravano sino al mattino. Augusto esiliò Ovidio, ma non riuscì a frenare la corruzione.

Augusto morì nel 14 d.C. a 77 anni; da 57 era un protagonista della vita politica.

La fortuna che egli ebbe nella vita pubblica si accompagnò a una grande sfortuna nella vita privata: vide morire il figliastro e i due nipoti che amava e che aveva designato a succedergli  e alla fine dovette rassegnarsi a lasciare l’Impero al figlio di primo letto della sua consorte, Tiberio, per il quale però non nutriva alcuna simpatia. Egli designò quindi  il proprio successore fondando una dinastia, cioè trasmettendo il trono da una generazione all’altra. La svolta era compiuta. La Repubblica era morta e nasceva l’“Impero” dando a questa parola non più il valore di “province conquistate”, come aveva ai tempi della repubblica romana, ma di “governo dell’imperatore”.

Il regno di Augusto comprende l’anno “zero” o comunque l’anno della nascita di Gesù.

  Tempio di Gerusalemme

 

Erode Agrippa I (6 aC-44 dC), nipote di Erode Antippa e discendente di Erode il Grande, nominato nel 39 Re e governatore della  Betania dall'imperatore Caligola (37-41 dC), riuscì ad ottenere dall'imperatore Claudio (41-54 dC) altri governatorati (Idumea, Samaria e Giudea) fino ad estendere il suo potere su un territorio uguale a quello di Erode il Grande.

Il territorio di Erode il Grande, dopo la sua morte (4 a.C.), era stato diviso tra i figli Archelao (Giudea, Samaria e Idumea), Filippo (Traconitide, Gaulanitide, Batanea, Auranitide e Iturea) ed Erode Antipa (Galilea e Perea). Non essendo di origine ebraica, Erode Agrippa usò la persecuzione dei seguaci di Gesù per divenire re (41-44), su disposizione dell'imperatore Claudio.

Da re, governò in maniera equa e tale da essere condiviso sia dai giudei che dai romani. Dopo la sua morte la Giudea tornò nuovamente sotto l'amministrazione romana, prima che alcune parti venissero assegnate al figlio Agrippa II.

Erode Agrippa al fine di ingraziarsi i giudei e farsi accettare come re (41 d.C.), fu indotto ad avviare la prima persecuzione contro i cristiani nel corso della quale venne catturato e messo a morte (44 d.C.) l’apostolo Giacomo (fratello di Giovanni). Molti cristiani, per sfuggire alla persecuzione, si dispersero in Giudea e Samaria (Atti 8), molti altri ripararono a Damasco, in Fenicia, Cipro ed ad Antiochia che, a quel tempo, con circa mezzo milione di abitanti, era, dopo Roma ed Alessandria, la più grande città dell'Impero Romano.

Pietro, accompagnato da Giovanni, si mise in viaggio per somministrare, nelle varie regioni, il battesimo ai cristiani il cui numero cresceva, iniziando dalla Samaria, nella parte meridionale della Palestina.

In Palestina, Ponzio Pilato (26-36 d.C.) non aveva favorito la distensione tra giudei e romani, pertanto fu rimosso e sostituito con Marcello.

Seguì un periodo di sommosse ed un alternarsi di procuratori romani, da Cuspio Faro (il primo dopo Agrippa I nel 44) a Gessio Floro (64-66), il cui malgoverno, e soprattutto il tentativo di usare a fini personali il tesoro del tempio, causò lo scoppio dell’ira popolare. Egli la represse nel sangue provocando la reazione dei giudei che si impossessarono della fortezza romana di Masada, dando avvio ad una rivolta che si estese a tutta la Palestina ed indusse l’intervento del legato della Siria, Cestio Gallio. Questi marciò alla testa di una legione verso la Palestina, di fatto, dando avvio alla I Guerra giudaica (66-73). Un indugio di Gallio consentì ai giudei, posizionati dentro e fuori le mura di Gerusalemme, di contrattaccare e mettere in fuga i romani. Nel 67 Nerone sostituì Gallio con Vespasiano affidando a lui ed al figlio Tito l’incarico di ristabilire l’ordine il Palestina. Riunite le legioni in Siria, da qui ripartì l'attacco a tutte le città conquistate dai Giudei che registrò episodi di atroci repressioni. Tutto ciò avveniva mentre a Gerusalemme i capi zeloti mettevano a morte molti influenti personaggi ritenuti collaborazionisti con i Romani ed a Roma dove, dopo l’assassinio di Nerone privo di successori, si alternavano al potere, nominati dalle rispettive legioni, prima Galba, poi Vitellio e quindi Vespasiano (69-79). Questi, dopo la nomina, rientrò a Roma, lasciando il comando delle operazioni in Palestina al figlio Tito (successe al padre come imperatore, 79-81). Tito cinse d’assedio Gerusalemme dove la popolazione favorevole ad una convivenza con i Romani era condizionata dalle fazioni di farisei zeloti che, pur in contrapposizione fra di loro, erano solidali nella rigorosa  osservanza della legge e per il rigido nazionalismo.

I Romani dopo aver penetrato due delle tre cinta di mura che fortificavano Gerusalemme, subirono un contrattacco prima di riprendere un rigido assedio che si protrasse per mesi fino a riuscire a penetrare nel tempio, dove si era attestata l’estrema difesa degli zeloti. Il tempio, malgrado il volere di Tito, personaggio colto e raffinato, fu incendiato dai Romani, presumibilmente dopo che i difensori zeloti avevano già iniziato ad appiccare il fuoco per impedirne la conquista. Il tempio fu completamente raso al suolo (70 dC), episodio che drammaticamente segnò la storia del popolo di Israele.

Dopo la distruzione del tempio ci vollero ancora tre anni prima di sedare i rivoltosi di cui gran parte (5.000) furono crocefissi e riconquistare la fortezza di Masada, dove si erano asserragliati.

Masada

 

 

Nel presunto anno "0" i romani, come tutte le popolazioni europee di cui abbiamo notizia, avevano un cielo popolato da molti dei, di aspetto, sentimenti e desideri simili a quelli umani. L'unica importante differenza rispetto agli umani è l’immortalità e alcuni “super-poteri” molto circoscritti  (come i fulmini di Giove, i poteri sul mare di Nettuno e quelli sull’innamoramento di Cupido). Per dopo la morte c’erano idee abbasTempio di età romanicatanza confuse.

La religione romana non aveva un fine escatologico, non prospettava una vita o una salvezza dopo la morte, ma era tutta incentrata sulla valorizzazione della via terrena e degli atteggiamenti umani. 

Il regno dei morti greco/latino era, al contrario di quello ebraico e cristiano, un vero e proprio luogo fisico, al quale si poteva persino accedere qui sulla terra attraversando particolari luoghi impervi, difficilmente raggiungibili o comunque segreti e inaccessibili ai mortali

Nella tradizione greca, per esempio, uno degli ingressi all'Ade si trovava nel paese dei Cimmeri, che si trovava al confine crepuscolare dell'Oceano, e proprio in questa regione remota Odisseo dovette recarsi per discendere all'Ade ed incontrare l'ombra dell'indovino Tiresia

Nella tradizione romana, invece, uno degli ingressi infernali si trovava vicino al lago dell'Averno, che poi divenne il nome del regno infernale stesso, dal quale Enea discese insieme alla Sibilla cumana.

Per quanto riguarda la geografia e la topografia degli Inferi, Omero (nell'"Odissea") non gli dà un carattere di vero e proprio "regno" esteso, ma lo descrive solamente come una sfera fisica oscura e misteriosa, perlopiù preclusa ai viventi, dove soggiornano in eterno le ombre (e non le anime) di tutti gli uomini, senza apparente distinzione tra ombre buone ed ombre malvagie, e senza nemmeno un'assegnazione di pena o di premio in base ai meriti terreni.

Ma le as

Solo in seguito si formò il concetto dei "Campi Elisi", ovvero il luminoso luogo ove soggiornano in eterno le anime pie e virtuose, senza gioia né tristezza, e il concetto del "Tartaro", cioè il tenebroso e terribile luogo dove in eterno vengono punite le anime dei malvagi; celebri pene del Tartaro sono quelle di Sisifo e di Tantalo.    

Virgilio, successivamente narra nell'Eneide la discesa di Enea agli Inferi e la topografia infernale raggiunge la sua massima espressione, nonché estensione: anche il poeta latino divide gli Inferi tra Tartaro e Campi Elisi, ma aggiunge il "Vestibolo", l'atrio infero popolato da mostri e demoni vari e, recuperando la tradizione greco-latina, nomina i fiumi infernali, cioè Stige, Acheronte, Flegetonte, Lete e Cocito. Inoltre, è sua invenzione poetica la "città di Dite", ovvero la città del re degli Inferi (Dite, appunto) che verrà ripresa nella "Divina Commedia" da Dante Alighieri come la città del re dell'Inferno, cioè Lucifero.

Comunque, le pene del Tartaro o il premio dei Campi Elisi non erano decisi dagli déi, bensì dai 3 giudici infernali Minosse, Radamanto (fratello di Minosse) ed Eaco, che, in base alla condotta morale tenuta in vita dell'ombra, le assegnavano la propria dimora eterna. Per raggiungere il luogo dove i giudici emettevano il verdetto bisognava entrare dall'ingresso guardato da cerbero poi raggiungere il fiume Acheronte e pagare Caronte per essere traghettati dall'altra parte.

Il cristianesimo nasce nello stesso periodo.

Il Cristianesimo deriva dalla religione ebraica. Gli ebrei credono in un solo Dio e aspettano un premio o una condanna a seguito del comportamento nella vita terrena.

Come abbiamo visto, nell’anno “0” Augusto regge saldamente ilo potere. Con lui si inizia la tradizione che vede inseriti nell’olimpo degli dei quegli imperatori graditi a popolo e al senato.

Questa mentalità romanica di trasformazione in nuovi Dei di grandi personaggi sia di accettazione di Dei derivati dal culto di altri popoli ci rende l’idea di un sentimento blando verso la religione, che assumeva spesso i caratteri della superstizione e che si concentrava s sulla ricerca dei 

favori da parte di entità ultraterrene  finalizzati a scopi puramente umani di salute, beni, potere, ecc…

Anche gli ebrei più ardenti in campo religioso, gli Zeloti, c'è

comunque attesa per le gioie terrene

Il Dio degli ebrei è lontano e inaccessibile, non si può neppure nominare, Yahweh è unico e solo.

     

11-8 aC - 743-746 di Roma: Publio Sulpicio Quirino tiene la carica di legato in Siria - Iniziano le operazioni del censimento di tutto l'impero.

7-6 aC -  L'angelo Gabriele annuncia a Zaccaria la nascita di Giovanni Battista e alla Vergine Maria

l'incarnazione dei Verbo -Visita di Maria a Elisabetta Nasce Giovanni Battista - A Betlemme nasce Gesù;

6-5 aC - Gesù è presentato al tempio - I magi lo adorano - Fugge in Egitto - Erode ordina la strage dei bambini

4 aC - 750 di Roma, marzo: Muore Erode il Grande - Gesù ritorna dall'Egitto a Nazareth

6 dC - 759 di Roma, Archelao viene deposto - La Giudea diventa provincia romana.

7 dC - Gesù va a Gerusalemme e resta tre giorni nel tempio

12 d. C - 765 di Roma, gennaio, Augusto associa al suo governo Tiberio, nel 14 Augusto muore e subentra imperatore Tiberio.

17 d. C  Caifa eletto Sommo Sacerdote.

26 d. C - 779 di Roma Ponzio Pilato nominato procuratore in Palestina.

27 d. C -  Ottobre Giovanni Battista inizia la sua predicazione

28 d. C -  Gennaio - Gesù riceve il battesimo (Come la nascita di Gesù è stata ricalcolata, così la manifestazione pubblica

                              di Gesù si fa risalire al gennaio del 28 d.C)

               Gennaio-Febbraio Gesù nel deserto digiuna ed è tentato dal demonio

               Marzo - Gesù chiama i primi discepoli - Partecipa alle nozze di Canaa

                              31marzo Prima Pasqua - Gesù scaccia i mercanti dal tempio (Gv 2, 13-25).

               Aprile - Gesù riceve la visita di Nicodemo

               Estate -  Erode incarcera Giovanni Battista

                             Gesù lascia la Giudea - Incontra la samaritana

                             Sceglie Cafarnao come sua città - Inizia la sua predicazione

                             Compie numerosi miracoli - Chiama definitivamente i primi discepoli.

                             Viene in urto con i farisei.

                             Pronuncia il suo discorso programmatico

                Novembre - Gesù pronuncia le parabole del regno

                Dicembre - Gesù chiamato dai discepoli a sedare la tempesta sul lago

                                 Libera gli indemoniati di Gerasa

29 d. C -  Gennaio - Gesù guarisce l'emorroissa - Risuscita la figlia di Giairo - Viene scacciato da Nazareth

               Febbraio - Gesù istruisce i discepoli e li manda a predicare

                Marzo - I discepoli ritornano dalla predicazione - Erode fa decapitare Giovanni Battista -

                            Gesù moltiplica i pani per cinquemila uomini

                            Cammina sulle acque - Pronuncia a Cafarnao il discorso sul pane di vita

                Aprile - 19: Seconda Pasqua

                            Gesù risana il paralitico della piscina di Betesda - Fa la sua apologia contro i farisei -

                            Lascia la Giudea per andare verso la Galilea

                Giugno - Gesù attraversa la Fenicia e la Decapoli - Esaudisce la donna cananea - Moltiplica una seconda volta i pani

                Luglio - A Cesarea di Filippo, Pietro proclama Gesù figlio di Dio e Gesù gli promette il primato -

                            Dirigendosi poi verso la Galilea Gesù annuncia la sua passione .

                Agosto - Gesù si trasfigura davanti a Pietro Giacomo e Giovanni - Ritornato a Cafarnao dà alcune istruzioni

                Ottobre - Gesù passa per la Perea - Manda a predicare settantadue discepoli - Racconta la parabola del buon samaritano -

                              Fa visita a Marta e Maria - Insegna il "Padre nostro" e parla della preghiera

                              15: Festa dei tabernacoli - Gesù nel tempio proclama la sua missione divina - I giudei cercano di impadronirsi di lui -                             Decisioni del Sinedrio nei suoi riguardi - Assolve una donna adultera

                Dicembre - Festa delle encenie - Gesù ridona la vista a un cieco dalla nascita - Proclama apertamente la sua divinità -

                                Lascia la Giudea per la Perea

 Anno 30 d. C - Gennaio-Febbraio  - Gesù attorniato dai bambini. Pranza in casa d'un fariseo - Compie numerose guarigioni.

                                Narra la parabola dei convitati, della pecorella smarrita, della dramma ritrovata, del figlio prodigo,

                                del fattore disonesto, di Lazzaro e il ricco epulone, degli operai dell'undecima ora -

                                Guarisce dieci lebbrosi - Annuncia la sua parusia - Parla della preghiera umile e fiduciosa

                         Marzo - Gesù risuscita l'amico Lazzaro - Si ritira ad Efraim - Si fa invitare in casa del pubblicano Zaccheo

                         Aprile - 1-8: Ultima settimana.

                                    sabato 1 - A Betania, durante un banchetto, Maria profuma con aromi il capo e i piedi di Gesù

                                    domenica 2 - Gesù entra trionfalmente a Gerusalemme, piange sulla sorte della città Di notte ritorna a Betania

                                     lunedì 3 - Gesù ritorna a Gerusalemme - Maledice il fico - Scaccia i mercanti dal tempio - Pernotta a Betania

                                     martedì 4 - Gesù ritorna a Gerusalemme - Confonde farisei, scribi e sadducei -

                                                      Parabole dei due figli mandati a lavorare nella vigna, dei vignaioli omicidi, del convito nuziale -

                                                      Pronuncia il discorso escatologico e preannuncia il giudizio universale

                                    mercoledì 5 - Il Sinedrio cospira per impadronirsi di Gesù - Giuda offre la sua collaborazione -

                                                        Gesù denuncia il mistero dell'incredulità dei giudei

                                    giovedì 6 (14 nisan) Gesù manda Pietro e Giovanni in città perché preparino la cena pasquale

                                                         18-19 circa: Gesù celebra la cena pasquale

                                   Resurezione                       19-20 circa: Gesù istituisce l'Eucaristia e s'intrattiene a lungo con gli apostoli,                          dando le ultime raccomandazioni e pregando il Padre per sé e per i suoi

21 circa: Gesù con gli apostoli lascia il cenacolo e va al Getsemani

22 circa: Gesù inizia la sua agonia nell'orto e suda sangue

23 circa: Gesù è tradito da Giuda, arrestato e tradotto al palazzo dei sommi sacerdoti

venerdì 7 -  0-3 circa: Gesù davanti ad Anna e Caifa - È giudicato e condannato a morte - Pietro lo rinnega

6 circa: Gesù compare nuovamente davanti al Sinedrio - Giuda muore disperato .

7-8 circa: Gesù è condotto al tribunale di Pilato per la prima volta

8-9 circa: Pilato manda Gesù da Erode che lo deride

9-11 circa: Gesù per la seconda volta al tribunale di Pilato - È flagellato e coronato di spine

11 circa: Gesù è condannato e si avvia al Calvario

12 circa: Gesù viene crocifisso come un qualunque ribelle.

15 circa: Gesù, emesso un grido, reclina il capo e spira

17 circa: Gesù morto viene tolto dalla croce e posto nel sepolcro

sabato 8 - Tutti osservano il riposo sabbatico.

domenica 9 - Gesù risorge glorioso - Appare a Maria Maddalena, alle pie donne, a Pietro, ai discepoli di Emmaus, agli apostoli nel cenacolo

domenica 16 - Gesù ricompare nel cenacolo per l'incredulo Tommaso

Maggio  giovedì 18 - Gesù ascende al Padre

Le aspettative si concentrano verso il messia che Dio manderà sulla terra. Grazie a lui il popolo ebraico si imporrà su tutti i popoli.

Il cristianesimo rivoluziona l’idea ebraica di Messia e pone al primo posto tra gli scopi dell’uomo la vita ultraterrena. 

Questo rivoluziona tutta la concezione della vita: le cose terrene perdono importanza e gli onori degli uomini sono considerati di scarso valore. Ci si priva volentieri dei beni materiali che sono venduti e il cui ricavato viene condiviso con i fratelli.

La perdita della vita umana, la condanna a morte, viene vissuta come un pegno per l'aldilà. E questo perchè i Cristiani hanno ricevuto da Dio stesso, incarnato in Gesù, la certezza di una vita ultraterrena, eterna, con premio e castigo di entità infinitamente maggiore rispetto alle dimensioni terrene.

Nei popoli pagani invece l'attenzione e l'impegno è dedicato a due scopi:

per i poveri alla soluzione dei bisogni primari, mangiare, bere, ripararsi, coprirsi, nel modo più confortevole possibile

per i più ricchi l'impegno è rivolto alle cariche, prevalentemente politiche, e agli onori tributati dal popolo per i quali talvolta vengono fatti atti di prodigalità e magnificenza.

Anche gli ebrei non sono esenti dalle passioni terrene verso beni e onori e Gesù nelle sue predicazioni non esita a condannarli.  

Quando Gesù è ancora adolescente, nel 14 d.C., a Roma muore l'imperatore  Augusto e gli succede Tiberio.

Con lui ebbe inizio la dinastia Giulio-Claudia, che regnò dal 14 al 68 d.C.

Tiberio in politica estera inviò suo nipote Germanico in una serie di campagne militari in cui il giovane generale sconfisse i Germani (14-16 d. C.) che minacciavano i confini dell'impero. Improvvisamente, Germanico morì avvelenato e a Roma si incominciò a sospettare che fosse stato Tiberio a dare l'ordine.
In politica interna Tiberio inaugurò la prima banca di Roma dove fu nascosto il tesoro romano.
Dopo la presunta accusa contro di lui di aver ucciso Germanico, Tiberio si trasferì nella sua villa a Capri

A Roma  il potere era sempre più nella mani di Seiano, capo dei pretoriani, gli unici soldati autorizzati a presidiare Roma per difendere imperatore e senato. Seiano si servì del potere accumulato per creare un suo partito e tentare un colpo di stato. Quando Tiberio venne a sapere della congiura fece uccidere Seiano. Gli storici antichi hanno tramandato un giudizio molto critico di questo imperatore anche se il suo principato fu tutt'altro che negativo.      

La dinastia Giulio-Claudia espresse quattro imperatori: oltre a Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. I loro regni furono nel complesso tormentati ed ebbero spesso un epilogo drammatico: gli ultimi tre morirono di morte violenta; di essi Caligola (37-41) era pazzo e anche Nerone mostrò segni di squilibrio.

Inoltre il Palazzo imperiale dove risiedeva la corte, cioè il gruppo dei familiari, degli amici, dei collaboratori del principe, divenne un luogo infido nelle cui stanze parenti, senatori, pretoriani, liberti ordivano congiure e dove il principe viveva sospettando i suoi collaboratori più stretti e i suoi amici più intimi.
Insomma, era solido il regime imperiale, ma non era tranquillo l’imperatore, che sentiva la propria persona eternamente minacciata e in pericolo.

Alla morte del giovane Caligola, l'Impero passa a suo zio Claudio, l'imperatore dimenticato (41-54). Costui si distingue per un proprio stile di governo estremamente dimesso, essendo il suo un principato privo o quasi di eventi politici appariscenti. A ciò principalmente è dovuta la bassa stima che i suoi contemporanei tendono a riservargli, oltre che la scarsa risonanza del suo regno presso i posteri. Eppure, nonostante una tale 'invisibilità', la sua gestione dello stato sarà molto oculata, e perfino astuta.

Il personaggio più controverso della dinastia Giulio-Claudia fu Nerone (54-68), che divenne imperatore a diciassette anni e che, dopo qualche anno di governo equilibrato si abbandonò ad atti crudeli e 

Ma come si svolge questa vita quotidiana su cui i popoli sono così concentrati?

A Roma, soprattutto nel periodo imperiale, la vastità e lo splendore del centro monumentale, contrastavano nettamente le zone destinata alla residenza di una popolazione troppo numerosa, e quindi costretta ad ammassarsi sempre di più. InsulaeLa crescita della popolazione  portò a tipi di abitazione che si sviluppavano in altezza, le insulae, chiamate anche caseggiati, che sostanzialmente erano le case dei poveri. Il caseggiato a pianta quadrangolare, conteneva un giardino o un cortile. Gli appartamenti, si affacciavano sull’esterno con finestre senza vetri e balconi, mentre nella facciata si aprivano varie botteghe. Il piano terra era occupato da inquilini benestanti, e talvolta dal proprietario dell’insula. Le condizioni di vita degli inquilini non erano buone; infatti lo spazio era limitato e i mobili erano pochi: un tavolo, qualche panca, e qualche sgabello. Negli appartamenti, non esistevano camini, e quindi per riscaldarsi o cucinare, si faceva il fuoco con il braciere. 
In inverno l’olio delle lucerne era molto costoso, perciò si doveva scegliere se stare al freddo o al buio.

La DOMUS invece, l’abitazione dei ricchi, era quasi sempre a un solo piano.

La sua prima parte era il VESTIBULO, aperto sulla strada; la seconda parte, più interna, era chiamata FAUCES ( imboccatura della casa ). Lungo il vestibolo nelle case più ricche si potevano trovare statue e portici. Oltre all’entrata principale della domus, ne esisteva una di servizio, chiamata POSTICUM, che si affacciava su di un vicolo, da dove passavano gli schiavi, ma anche di nascosto il padrone di casa, quando non voleva essere disturbato. Un elemento caratteristico delle prime domus era l’atrio, un ampio cortile, che in età antica era l’ambiente più importante della casa. In esso infatti era collocato il focolare domestico e qui il padre di famiglia amministrava il suo potere. Con l’ampliamento della casa, la vita familiare si sposterà verso gli ambienti più interni. Al centro dell’atrio, si trovava l’IMPLUVIO. Esso era collegato ad una cisterna che era utilizzata per tutti i lavori domestici e con il passare del tempo diventerà un elemento decorativo. Nelle prime domus, i pasti si consumavano nel TABLINO o in un locale chiamato CENACOLO; Per entrare in questi ambienti non c’era un porta, ma una tenda. Dal 3° secolo nella domus viene introdotto il peristilio, un giardino circondato da un portico a due piani sostenuto da colonne. Con il passare del tempo esso diventerà un elemento decorativo. Nell’Italia settentrionale, però spesso, la domus a causa del clima, non è così aperta verso l’esterno: mancavano infatti il portico e il periSomusstilio. Vicino al peristilio erano situate alcune stanze; tra queste la più conosciuta è il triclinio, che serviva unicamente come sala da pranzo. La cucina non si trovava in un luogo preciso della domus; essa si trovava nei sottoscala, o in un angolo dell’atrio. IL pavimento della cucina era sempre di terra battuta. Un tempo il bagno era soltanto un piccolo ambiente chiamato LAVATRINA. Successivamente verso la metà del 3° secolo, si costruì un’apposita stanza chiamata BALNEUM, che significa bagno. Nelle case più antiche la porta era rettangolare ed era preceduta da uno scalino; sopra ad esso, era situato un architrave di pietra. Con il passare del tempo la porta divenne più elegante, e si arricchì di capitelli. Le finestre rivolte verso l’esterno erano poche e piccole, per evitare che entrassero in casa i rumori e gli odori della strada, erano irregolari e non avevano una cornice esterna.
A Roma, come ad Atene, gran parte della vita soprattutto degli uomini, trascorreva all’aperto o negli edifici pubblici che offrivano spesso gratuitamente tutti quei servizi e quelle comodità assenti nelle case. Le fontane e latrine pubbliche erano molto numerose, e in tutti i quartieri vi erano terme, particolari edifici dove si trovavano oltre alle piscine, e ai locali per la sauna e il massaggio, anche palestre, biblioteche, e locali per lo studio e la conversazione. Molto probabilmente però, fu soltanto durante il regno dell’imperatore NERONE che gli architetti idearono le prime grandi terme

 articolate secondo regole assiali e di simmetria, che divennero poi canoniche per questi tipi di edifici. La nuova pianta delle terme neroniane in campo marzio era caratterizza da due assi incrociati ad angolo retto, con la sequenza degli ambienti più importanti lungo uno dei due assi e la duplicazione degli ambienti minori e complementari in posizione simmetrica lungo l’altro asse. Il principio di simmetria fu confermato dalle terme di TITO, completate nell’80 d.C. sui resti della famosa DOMUS AUREA, la cu i pianta ci è nota da un disegno del PALLADIO. Il passo successivo fu l’inserimento dell’edificio balneare così strutturato all’interno di una vasta area, aperta e delimitata da un ampio recinto con portici, che ospitava numerose ambienti e spazi variamente attrezzati con variazioni diverse da quelle propriamente balneari: biblioteche, auditori, sale di lettura, di esposizione e di ritrovo. Così si presentano le terme di Traiano sul colle Oppio, che furono inaugurate nel 109 d.C., estese originariamente su una superficie di circa 110.000 m2. Le terme di Caracalla e quelle di Diocleziano (III secolo) rappresentano il culmine dell'evoluzione di questo tipo edilizio; 
I romani dedicavano il tempo all’igiene, alla pulizia, e alla cura del proprio corpo, soprattutto il pomeriggio, mentre al mattino al risveglio non si lavavano, o lo facevano molto sommariamente.

La giornata iniziava ancor prima dell’alba, intorno all’aurora, sia per i ricchi che per i poveri e appena levati dal letto gli uomini erano in pratica pronti per uscire: dormivano nello stesso vestito usato di giorno, la semplice tunica, e per essere pronti bastava loro calzare i sandali, coprirsi con un mantello, o drappeggiarsi con la toga ( in genere serviva per stipulare incontri importanti, o se si doveva comparire in una pubblica cerimonia ). La colazione era un semplice bicchiere d’acqua, mentre alle abluzioni era dedicato il pomeriggio. Anche la cura dei capelli e del viso avveniva fuori casa, nelle botteghe dei barbieri sparse ovunque. Dai tratti e dai dipinti gli storici sono stati in grado di sapere che fino al secondo secolo a.C. molti romani portarono la barba, come i greci prima di Alessandro, ma poi per circa quattro secoli l’uso divenne quello di tenere i volti rasati. Una volta usciti, ognuno si recava a tendere omaggio al proprio patrono. Quest’ultimo riceveva i propri clienti in ordine di importanza, e ai più poveri faceva dare cibo da portare via in una sporta o direttamente dei soldi. L’abitudine al regalo in denaro era così diffusa, che in pratica veniva a stabilirsi una specie di tariffa, uguale per tutti. I poveri per integrare il proprio bilancio, si recavano ogni giorno dal loro patrono, ma anche i più ricchi dovevano ogni tanto rendere omaggio a chi era ancora più potente di loro, secondo una gerarchia che aveva in cima l’imperatore. Dopo la cerimonia dell’omaggio, la giornata poteva essere molto di versa per chi viveva da ozioso e per chi doveva lavorare.

Gli sfaccendati, avevano come meta preferita i FORI: là incontravano gli amici, commentavano i fatti del giorno, potevano assistere ai numerosi processi che si svolgevano nelle basiliche e che richiamavano sempre una folla variopinta in cui si mescolavano accusatori ed imputati, avvocati, testimoni molto curiosi e persino spettatori per applaudire o fischiare i discorsi più importanti. Per i poveri che non si accontentavano delle elargizioni gratuite di grano c’era la cura degli affari, o il lavoro nell’infinità delle botteghe che producevano o vendevano ogni genera di merce. Artigiani e venditori appartenevano a diverse collegia, cioè associazioni di mestiere che riunivano coloro che svolgevano la stessa attività. Gli scavi archeologici di Ostia, vicino Roma hanno riportato alla luce le sedi e le insegne di circa 150 diverse associazioni, tra cui, ad esempio, tre per i calzolai, distinte a seconda del tipo di calzatura prodotto, a riprova di un livello molto elevato di specializzazione e di divisione del lavoro. In tutte le attività però era fondamentale il contributo degli schiavi, che nella Roma antica differirono in modo significativo rispetto al modello greco. Innanzitutto perché i proprietari ebbero più potere sugli schiavi, ma soprattutto perché il complesso sistema economico e sociale di Roma per funzionare richiese, soprattutto in età imperiale, molta più manodopera di quanta non ne fosse stata impiegata in Grecia. Le continue conquiste territoriali e la conseguente espansione dei confini resero infatti necessario un imponente numero di schiavi per far fronte alle necessità del lavoro agricolo e delle costruzioni; il loro reclutamento avveniva soprattutto durante le guerre, quando decine di migliaia di prigionieri catturati in battaglia venivano portati a Roma come schiavi e venduti. La legislazione romana fu tuttavia la prima a contemplare la possibilità di restituire allo schiavo la dignità di uomo libero; la restituzione della libertà attraverso l'istituto della manumissione, molto diffuso soprattutto tra le famiglie patrizie, permise ai liberti (tale era il nome degli ex schiavi) di assurgere talvolta a ruoli di notevole importanza, come accadde a Tirone, segretario di Marco Tullio Cicerone, o al commediografo Terenzio. Nel patriziato romano era inoltre pratica diffusa affidare l'educazione e l'istruzione dei figli a schiavi greci eruditi, il cui prezzo poteva superare di 700 volte quello di uno schiavo comune.

Dopo la quotidiana visita alle terme, si svolgeva il pasto principale della giornata, la cena: di solito, questa prevedeva tre portate, tutte con l’accompagnamento di vino, ma a seconda della condizione sociale e dell’occasione, come è ovvio, cibi e bevande potevano variare molto. A parte i grandi banchetti, che potevano protrarsi per molte ore, in genere la cena terminava prima che fosse notte fonda, perché per gli ospiti era pericoloso avventurarsi nelle strade non illuminate e perché, in ogni caso a parte i più inguaribili oziosi, la giornata faticosa o meno, ricominciava per tutti con l’aurora.
Divertimento e spettacoli - La giornata lavorativa del romano anche per chi aveva un’occupazione stabile, non andava oltre le sei sette ore e finiva a mezzogiorno: ogni giorno quindi, la gran parte dei cittadini disponeva di molto tempo libero. Inoltre le feste erano molto numerose perché nel tempo, ai dies festi, cioè ai giorni festivi consacrati alle diverse divinità, si erano aggiunte molte feriae publicae, celebrazioni di ricorrenze pubbliche, sempre più frequenti da AUGUSTO in poi perché ogni imperatore voleva celebrare la propria gloria con feste particolari, ora per ricordare una vittoria, ora per festeggiare il suo compleanno o l’anniversario dell’ascesa al trono. Queste di solito si aggiungevano alle precedenti e potevano durare diversi giorni, tanto che alcuni studiosi hanno calcolato che a Roma durante l’impero per ogni giorno lavorativo ce ne fossero quasi due di festa: era una condizione di eccezionale vantaggio, resa possibile solo dallo sfruttamento dalle ricchezze provenienti dalle province. In occasione delle feste si svolgevano cerimonie religiose e venivano organizzati intrattenimenti di vario tipo: come per i greci, anche per i romani questi due aspetti erano strettamente connessi: ogni spettacolo veniva aperto da processioni e sacrifici e il pubblico voleva assistervi indossando l’abito da cerimonia, la toga. Le corse e i duelli dei gladiatori, i due divertimenti più seguiti, avevano un’origine sacra: sappiamo al ritorno i un esercito vittorioso venivano sempre organizzate gare di cavalli, in cui si immolava l’animale vincitore per ringraziare gli dei; da un rito propiziatorio derivavano anche i combattimenti dei GLADIATORI: questi nei primi tempi si svolgevano solamente durante i funerali di personaggi importanti e avevano lo scopo di placare gli dei degli inferi sacrificando in loro onore la vita dei combattenti, come dimostra anche il termine munus, cioè “ offerta” con cui venivano chiamati questi spettacoli.

insensati, come l’uccisione della sua stessa madre, Agrippina. Alla fine le legioni si sollevarono contro di lui ed egli si tolse la vita.
Nerone ebbe molte colpe, ma la pessima valutazione che ci rimane della sua personalità è dovuta principalmente al colossale incendio che nel 64 d.C. colpì Roma distruggendo interi quartieri della città. In quell’occasione Nerone si comportò in realtà responsabilmente,

allestendo i soccorsi e una tendopoli per ospitare le migliaia di senza tetto. Eppure circolò la voce, molto probabilmente infondata, che egli fosse l’autore dell’incendio perché voleva radere al suolo catapecchie e casupole e costruirsi una reggia magnifica, la cosiddetta Domus Aurea, “casa d’oro”.
Per difendersi da queste accuse, Nerone le ritorse sui membri di una piccola sètta religiosa che, dal nome del dio in cui credevano, Gesù Cristo, furono poi chiamati cristiani. Li fece arrestare e li condannò a supplizi atroci nel circo, di fronte alla folla romana, sempre avida di scene cruente. Quando crebbero e divennero potenti, i cristiani non dimenticarono questa ingiusta e assurda persecuzione e contribuirono a dipingere Nerone come una belva sanguinaria.

        Matteo

        

 Il Vangelo è termine greco che corrispondente a lieta novella. Il vangelo nasce dalla necessità di soddisfare il bisogno religioso delle comunità di credenti, riferisce sugli eventi della vita di Gesù, (racconti, testimonianze, preghiere) trasmessi a viva voce dagli stessi Apostoli e quindi ordinati, tra il 50 e 180 dC in forma letteraria. Il Vangelo presenta la figura di Gesù non tanto come è apparsa agli abitanti della Palestina, durante la sua vicenda terrena, ma come essa fu recepita dalla fede dei discepoli dopo la resurrezione.

Il Vangelo è costituito da quattro unità, attribuite agli apostoli Matteo e Giovanni ed ai discepoli Marco e Luca. Di esse, quelle riferite a Matteo, Marco e Luca presentano tali analogie da essere considerati sinottici in quanto, nello stesso ordine, riferiscono la medesima narrazione degli eventi della vita di Gesù. Quello di Giovanni si discosta dai precedenti.

Le comunità dei credenti (Chiesa) stabilirono (II sec), tra la tanta letteratura apocrifa prodotta, quali testi dovessero ritenersi

 autentici e portatori della verità su Cristo.

Dopo l'umiliante morte di Gesù lo sgomento si era diffuso tra le comunità dei suoi seguaci, incapaci di percepire come il “Messia” (dall’ebraico mashi ah: unto; dal greco,Chistos) cioè il re o salvatore, quel Gesù Cristo crocifisso.

 Ma il Cristo morì  fu sepolto e fu risuscitato  il terzo giorno, secondo le Scritture e apparve a Cefa e poi ai Dodici gli Apostoli rimasti in 11, cioè:Simone, detto Pietro e Andrea suo fratello, Giacomo, figlio di Zebedeo e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo di Alfeo e Taddeo; Simone il Cananeo (soprannominato Zelota)

Giuda Iscariota, quello che tradì è gia morto.

Prima dell'ascensione al cielo, vengono indicate varie apparizioni di Gesù risorto, talvolta a molti discepoli contemporaneamente (si parla di 500).

Dopo la resurrezione di Gesù,  Mattia  fu aggregato agli undici Apostoli. I dodici divennero una realtà socio-ecclesiale in cui emergeva Pietro a cui Gesù aveva detto: ..Io ti dico, Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Ti darò le chiavi del Regno dei cieli (Matteo 16, 18-19). 

Il primo vangelo è quello di Matteo (Levi, secondo Marco 2, 14 e Luca 5, 27) un esattore di imposte di Cafarnao, che al richiamo di Gesù, "seguimi", abbandonò tutto e si pose al suo seguito. Il suo vangelo originale, scritto in aramaico (intorno al 60 dC) durante un soggiorno in Palestina o ad Antiochia (Siria), ancor prima del Vangelo di Marco, è andato perduto.

La versione giunta a noi, in greco, dovrebbe essere stata redatta intono al 70-80 dC.  E’ il primo ad essere divulgato e risulta il più completo dei quattro. Matteo imposta la sua dottrina nella dimostrazione che, con Gesù, si compiono i vaticini dell'Antico Testamento riguardanti il Messia, fondatore di un nuovo Regno dei celi, per farne parte è necessaria una giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei.

Marco, autore del secondo vangelo, non fu apostolo di Gesù ma discepolo di Barnaba e Paolo e, durante la prigionia di quest’ultimo, discepolo e segretario di Pietro. Il suo Vangelo, scritto presumibilmente a Roma intorno al 65-70 dC, è interprete della predicazione di Pietro ed essenzialmente impostato sull’annuncio della lieta novella. Il Vangelo di Marco è ritenuto più antico ed è stato utilizzato da Matteo e da Luca che lo completarono con parti proprie. Nell’ultimo secolo, è stato rivalutato per la sua originalità. Sembra che Marco sia morto martire in Egitto al tempo dell’imperatore Traiano (98-117)Luca, terzo evangelista, medico di Antiochia, si convertì verso il 40 dC e fu discepolo e compagno di Paolo che seguì a Gerusalemme, Cesarea e Roma. Sembra sia morto in Bitinia, dove si recò dopo la morte di Paolo. Egli, di autentica formazione ellenista, nel suo Vangelo redatto in Antiochia o in Grecia verso il 70 dC, narra un’infanzia di Gesù diversa da quella narrata da Matteo. Egli completa l’informazione con la stesura (presumibilmente negli anni 80) degli Atti degli Apostoli, fondamentali per la conoscenza del cristianesimo in quanto forniscono notizie sulle prime comunità cristiane (Chiesa), sulla predicazione di Paolo e sul Concilio di Gerusalemme.

Le due stesure formarono un’opera unica fino al 175 dC, allorché, nel riunire i quattro vangeli, si tenne separata quella che appunto oggi è conosciuta come Atti degli Apostoli.

Giovanni, quarto evangelista, è il discepolo che Gesù amava,  pescatore e molto amico di Pietro. Molti studiosi ritengono che l’estensore dell’ultimo Vangelo (fine del I sec.), diverso dagli altri per finalità e contenuti (fa svolgere il ministero di Gesù in Giudea anziché in Galilea) ha fatto ritenere che a redigere il testo non sia stato l’apostolo ma un suo discepolo. Si sa poco del suo apostolato. Forse si fermò a lungo in Palestina (probabilmente fino alla morte di Maria SS), poi andò ad Antiochia, quindi ad Efeso dove probabilmente fu scritto il Vangelo e  dove morì in età avanzata. A Giovanni viene attribuita la stesura dell'Apocalisse, unico libro profetico del NT, redatto dopo la persecuzione dei cristiani da parte di Domiziano (81-96) ed in cui si esprime l’apprezzamento per coloro che testimoniavano con il martirio la fede in Cristo. Giovanni in questo ultimo libro del NT riprende la tradizione apocalittica (narrazione attraverso la visione) giudaica del libro di Daniele del AT che sviluppa una visione drammatica della storia concepita come scontro perenne tra i giusti ed i peccatori. Testo di difficile interpretazione che vuole tracciare la storia della Chiesa attraverso profezie e visioni degli avvenimenti finali, tra cui il secondo avvento di Cristo, e simboleggia con due bestie il potere politico e quello religioso. A Giovanni sono anche attribuite tre brevi Lettere indirizzate a pagani convertiti e di cui la prima risulta assai simile al Vangelo.

La storia della Chiesa incomincia con la morte di Gesù e si fonda sulle apparizioni immediatamente seguenti. Tuttavia le vicende che, negli anni immediatamente successivi coinvolsero apostoli e discepoli, sono ricostruite per deduzione in quanto i Vangeli non presentano uno sviluppo cronologico,

I Discepoli di Gesù, dopo la sua morte, secondo le indicazioni ricevute (Ma dopo che sarò risorto vi precederò in Galilea; Marco 14, 28) si recarono in Galilea dove, a seguito della terza apparizione, si consolidò nella loro mente la convinzione che la morte di Gesù non rappresentasse soltanto la tragica conclusione della sua vicenda umana ma che essa, seguita dalla resurrezione, raffigurasse il passaggio ad una forma diversa di esistenza, identificando Gesù con quel Figlio dell'uomo profetizzato da Daniele (7, 14). Identificazione che Gesù stesso accreditò rispondendo al sommo sacerdote Caifa, durante l'interrogatorio davanti al Sinedrio. Con l’identificazione di Gesù quale Signore e Cristo, avvenuta nel giorno della Pentecoste, si realizzò quel passaggio che diede origine alla nascita ufficiale della Comunità di Dio (ekklesia tou theou), la Chiesa, cioè di quell’assemblea di credenti che, considerandosi fratelli accomunati dall’insegnamento di Gesù (amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi; Giovanni 13, 34; Marco 12, 31), impostarono la loro azione quotidiana all’accoglienza

di chiunque, senza distinzione etnica o sociale, alla pratica della solidarietà verso deboli ed i bisognosi.

Da quel momento, Pietro, nominato capo dei dodici apostoli, assunse un ruolo guida nel collegio apostolico la cui funzione era di salvaguardare l’unità della comunità e garantire, nella predicazione, l’autenticità degli insegnamenti e dell’opera del Maestro. Egli, con i discepoli e i nuovi proseliti, divenne promotore del movimento di diffusione della buona novella. Diffusione che, trovando scarsa accoglienza tra gli ebrei, si indirizzò verso i gentili.

Il ritmo di adesione alla nuova religione divenne particolarmente coinvolgente ed alle prime comunità cristiane sorte a seguito della diretta predicazione del Gesù-terreno, incontrato in Galilea ed a Gerusalemme, si aggiunsero le nuove comunità che necessariamente ebbero un approccio diverso accostandosi direttamente alla fede del Gesù-risorto.

Le comunità si moltiplicarono, allorché il movimento di Pietro fu affiancato da un ebreo ellenista, figlio di un sellaio, Paolo di Tarso che, convertitosi nel periodo immediatamente successivo a quello di fondazione della nuova religione, divenne il più importante evangelizzatore e diffusore della catechesi, consistente nella predicazione del regno di Dio e della redenzione del genere umano ad opera di Cristo, al punto da essere individuato quale secondo fondatore del cristianesimo.

Pietro cadde vittima nel corso della persecuzione anticristiana (64 dC) favorita dall’imperatore Nerone.

Tertulliano (160-220), cita un istituto imperiale che, emanato da Nerone in occasione dell’incendio di Roma, rese illecita la religione cristiana (non licet esse christianos; Ad Nationes I, 7, 14). Si ipotizza, inoltre, che una tale norma anticristiana possa risalire ai tempi dell'imperatore Tiberio(14-37 dC) allorché il senato,  avendo rifiutato la proposta di riconoscimento della religione cristiana, di fatto proibisse il cristianesimo.

Lo stesso Tertulliano (Apologetico 7, 1; 10, 1) ricorda i vergognosi crimini (infanticidi, incesti, ecc.) di cui erano sospettati i cristiani e le modalità con cui vennero condotti i processi contro di loro dove, contrariamente alle procedure, ad essi non veniva consentita facoltà di discolparsi né venivano ricostruite le circostanze del crimine. Le pene subite dai perseguitati di Nerone furono quelle prescritte per gli incendiari, consistenti nel farli ardere cosparsi con liquidi infiammabili, esporli, coperti da pelli animali, all’aggressione di belve feroci o affiggerli alle croci.

Marco

Luca

Giovanni

Con Nerone si estinse la dinastia Giulio-Claudia e, dopo un anno di lotte per la successione, salì al potere Flavio Vespasiano (69-79), che diede inizio alla dinastia Flavia. cui gli succedettero nel tempo i suoi due figli Tito (79-81 sotto il suo comando, nel 70 dC  venne distrutto il secondo tempio di Gerusalemme) e Domiziano e che restituì alla carica imperiale prestigio e potere, poi compromessi dal pessimo regno di Domiziano (81-96).
Gli anni in cui regnarono i Flavi furono caratterizzati da un lato dal consolidamento dei poteri assoluti dell’imperatore, dall’altro da una serie di ribellioni nelle province.

Pompei

Nello stesso periodo una gravissima catastrofe colpì la Campania: nel 79 d.C. una terribile e improvvisa eruzione del Vesuvio distrusse Ercolano e Pompei.

In pochi minuti morì l’intera popolazione e le due città scomparvero sotto cumuli di cenere e lapilli. Un vento di nord-ovest, una vera e propria “brezza mortale”, portò per 100 km la nube di cenere verso l’Italia meridionale, passando dal Golfo di Napoli.
Dopo la dinastia Flavia cambiò radicalmente il modo di scegliere l’imperatore. Fu abbandonato il principio dell’ereditarietà, che aveva portato al potere troppi personaggi indegni, e fu usato il sistema romano dell’adozione, con cui l’imperatore in carica sceglieva il proprio successore tra i suoi collaboratori più saggi e validi. Fu il caso degli imperatori del II secolo, che vengono ricordati proprio come gli imperatori adottivi; due di essi, Traiano e Adriano, erano di origine spagnola, quindi dei provinciali, segno che l’accesso alle più alte cariche dell’Impero diventava meno rigido e non era più riservato alla nobiltà romana o italica.  Il II secolo d.C. si aprì con le grandi conquiste dell’imperatore Traiano (98-117) che, riprendendo la politica aggressiva abbandonata dagli imperatori precedenti, tra il 101 e il 106 d.C. invase la Dacia (l’odierna Romania) e la striscia settentrionale dell’Arabia, rendendole entrambe province romane.

Con queste ultime acquisizioni l’Impero romano raggiunse la sua massima estensione.

Traiano fu imperatore di indiscusso prestigio, dotato di equilibrio, realismo e rispetto della tradizione: cordiale ed aperto informò la sua azione all’etica del bene pubblico, mostrando fermezza e decisione nel perseguire i suoi programmi. Con lui Roma concluse la sua politica di attacco per conquistare il mondo e si pose in difesa, preoccupata di conservare i risultati raggiunti e di respingere i tentativi dei popoli vicini di sfondare il limes, cioè la lunga linea fortificata che proteggeva la pace e la tranquillità dell’Impero.
Sotto Adriano (117-138), che fu per altri versi un imperatore pacifico, tollerante e amante dell’arte, una rivolta giudaica fu soffocata nel sangue tra il 132 e il 135 d.C. Da quel momento iniziò la diàspora degli Ebrei, cioè la loro emigrazione dalla Palestina
Il I e il II secolo d.C. furono un’epoca di benessere e di prosperità alla fine del II secolo, invece, questa tendenza si invertì bruscamente, precipitando l’Impero nella crisi.

E' il periodo degli Antonini che inizia con  Antonino Pio (138-161). Adottato da Adriano quasi in punto di morte, Aurelio Antonino, passato alla storia come il Pio, per l'immagine da lui fornita di se stesso come di un Imperatore interamente dedito al bene dei propri sudditi, ascende al principato nel 138, a quarantadue anni. Fondamentalmente Antonino non apporta modifiche all'orientamento di Adriano: persegue infatti una politica di pace sia all'interno che all'esterno, e di consolidamento dell'Impero a livello organizzativo.
Anche il suo successore Marco Aurelio (161-180), fu un uomo saggio e moderato che ispirava il suo principato al rispetto per la cultura e alla tolleranza
Nonostante questo e quasi contemporaneamente, i Parti e i Germani cominciarono ad attaccare il limes da sud-est e da nord, stringendo i territori romani come nella morsa di una tenaglia. I Romani chiamarono barbari questi popoli, dal greco, termine che indicava chi parlasse in modo incomprensibile, cioè una specie di "bar-bar-bar”.
Per arginare gli attacchi Roma fu costretta a mobilitare un altissimo numero di uomini, ma la guerra su due fronti si rivelò fin da subito un’impresa disperata destinata prima o poi al fallimento.
La situazione precipitò nel III secolo a causa del dilagare di un nemico ancora più subdolo: la peste bubbonica.
L’epidemia aggredì prima l’Impero dei Parti, dove arrivò lungo la Via della seta, il percorso delle carovane che portavano in Persia questa stoffa preziosa dalla lontana Cina. La malattia venne veicolata dai topi, che spesso viaggiavano al seguito dei mercanti, dei marinmassima estensione Impero Romanoai e di altri viaggiatori. Il bacillo, trasmesso agli uomini, si diffuse con grande facilità, soprattutto in luoghi affollati e poco igienici come gli accampamenti militari o le città carovaniere.

La peste contagiò quindi i legionari romani durante gli scontri con i Parti lungo il confine sud-orientale e ben presto si diffuse in tutto l’Impero, determinando un brusco e gigantesco calo demografico; alcuni storici contemporanei affermano che metà degli abitanti dell’Impero fu uccisa dalla malattia.
Ne rimase vittima lo stesso imperatore Marco Aurelio, mentre si salvò il suo medico, il famosissimo Galeno.
Attaccati su due fronti, decimati dalla peste, i Romani non poterono evitare la crisi economica, che durò per tutto il III secolo d.C.
Gli imperatori furono costretti a imporre tasse elevatissime per poter sostenere le spese della difesa dei confini, che impegnava un numero enorme di soldati, armi, attrezzature, macchine da guerra, vettovaglie. Queste tasse erano necessarie per la sicurezza stessa dei cittadini, minacciati dai barbari, ma colpivano una popolazione stremata dalle guerre e dalla peste, aggravando situazioni già notevolmente compromesse.
Nelle campagne la “villa” coltivata dagli schiavi aveva praticamente cessato di esistere, perché, essendo finite le guerre di conquista, non si facevano più prigionieri da vendere nei mercati. I coloni liberi, gli unici rimasti a coltivare la terra, non ressero alla pressione delle nuove tasse e molti si diedero alla macchia; di conseguenza, anche i loro campi restarono incolti mentre le strade venivano infestate da banditi, pronti a uccidere per un pezzo di pane.
Nelle città la situazione era altrettanto drammatica, perché dalle campagne non arrivava più cibo sufficiente e ciò determinò un incontrollato aumento dei prezzi. I poveri si ammalavano e morivano, aggravando il calo demografico, ma anche i ricchi si impoverirono e cessarono di elargire denaro per restaurare edifici pubblici, organizzare giochi e spettacoli. L’unico atto importante, in questo sfacelo, fu compiuto da Caracalla, un imperatore che nel 212 d.C. estese la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’Impero. Con questo atto l’Impero romano fu l’unico grande impero della storia a concedere la piena cittadinanza a tutti i suoi sudditi.
Non tutti gli imperatori si arresero di fronte al crollo delle istituzioni, dell’economia e della stessa potenza militare dell’Impero.
Verso la fine del III secolo il più determinato a trovare nuove soluzioni fu Diocleziano (284-305), un imperatore nato in Illiria, sulla costa slava del Mare Adriatico, che varò una serie di grandi riforme nel tentativo di restituire vita ed energia all’Impero Romano.
Diocleziano aumentò il numero dei legionari nell’esercito, sottopose le tasse a un controllo ferreo materie prime dell'imperobloccando la corruzione e l’evasione e impose un calmiere per frenare l’aumento dei prezzi. Inoltre, ritenendo che il cristianesimo minacciasse l’autorità divina dell’imperatore, scatenò contro i cristiani la più violenta di tutte le persecuzioni. Soprattutto però promulgò due leggi che ebbero conseguenze decisive nei secoli successivi.
Con la prima legge Diocleziano cercò di arginare la fuga dei contadini dalle campagne, e a questo scopo proibì agli agricoltori e ai loro figli di cambiare lavoro, legando ciascuna famiglia alla sua terra per sempre, da una generazione all’altra. Questa legge determinò la cosiddetta servitù della gleba (dove gleba significa “zolla”).
Con la seconda, nel 286, divise l’Impero romano in due parti, Impero d’Oriente e Impero d’Occidente, ciascuna governata da un proprio imperatore, chiamato “Augusto”, coadiuvato dal suo successore, chiamato “Cesare”. La divisione dell’Impero fu dettata dalla convinzione che un uomo solo non riuscisse più a governare un territorio tanto esteso e gravato da tanti problemi; il sistema degli “Augusti” e dei “Cesari”, chiamato tetrarchia o “governo dei quattro”, fu elaborato nella speranza che, alla morte o al ritiro degli Augusti, i Cesari diventassero automaticamente imperatori in modo pacifico.
Le speranze di Diocleziano furono subito deluse. Appena egli e l’altro Augusto si ritirarono, l’Impero fu nuovamente dilaniato dalle lotte fra i generali che volevano impadronirsi dell’Oriente e dell’Occidente, finché l’ordine non fu restaurato da Costantino (306-337).
Egli portò a compimento il declino di Roma e della parte occidentale dell’Impero trasferendo la capitale a Bisanzio, l’antica città greca che sorgeva sullo Stretto dei Dardanelli, ai confini tra Europa e Asia.

Ampliata e abbellita, la città nel 330 fu ribattezzata Costantinopoli.
L’importanza di Costantino non si limita a questo evento di portata storica. Egli infatti segnò anche un’altra svolta decisiva nella storia riconoscendo come “religione lecita” un grande movimento religioso che in poco più di due secoli stava affermandosi nelle città dell’Impero romano:
il cristianesimo.
La distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. aveva causato la diaspora del popolo ebreo nei vari paesi dell’Impero romano e prodotto due effetti: quello di dare uno scossone alla tradizione e leggi degli antichi ebrei, entro cui ancor più si accentuò la differenziazione dai cristiani, che, ormai numerosi, li incolpavano dell’uccisione del Messia, inoltre quello di favorire ancor più la penetrazione del Cristianesimo in Africa, in Medio Oriente ed anche in Occidente. A Roma in particolare e nei principali centri urbani della Gallia e della Spagna la diffusione del Cristianesimo restava comunque limitata agli orientali poiché sia gli scritti che andranno a costituire il Nuovo Testamento che le liturgie utilizzavano la lingua greca, fino a quando, da Cartagine, alla fine del I sec., iniziò l’uso del latino nella divulgazione e nella liturgia.

A Roma, dopo alla flessione verificatasi al tempo della persecuzione di Nerone (54-68) , era ripresa l'espansione del cristianesimo, senza che la repressione di Domiziano (81-96) ne avesse arrestato il processo e dove i vescovi, succeduti a Pietro, risiedendo nella capitale dell’impero, tendevano ad assumere un ruolo guida primario.  

In Medio Oriente lo sviluppo del cristianesimo nelle città, nei villaggi e nelle campagne fu tale da indurre il governatore del Ponto e della Bitinia,  Plinio il Giovane (61-113) a sollevare il problema (112 dC), convinto com’era che si dovesse intervenire per arrestarne l’imponente diffusione. A tal fine decise di coinvolgere l’imperatore Traiano.

Traiano in sostanza, volendo mantenere una posizione di equilibrio e, allo stesso tempo, rispettare la tradizione, riconobbe il comportamento morale dei cristiani (non dovevano essere inquisiti) ma ne condannava la credenza, sostenendo la punizione nel caso venissero denunciati. Ambiguità resa ancor più evidente dalla considerazione che il sistema giuridico romano, pur possedendo una religione di Stato ed un imperatore definito pontifex maximus, tollerava i culti religiosi più vari, tra cui magia ed astrologia, purché non venissero a costituire pericolo per lo Stato.

Fa riflettere il fatto che un uomo colto ed informato come Plinio chieda istruzioni sul comportamento da tenere nei riguardi dei cristiani e la risposta di un imperatore altrettanto accorto come Traiano dimostrerebbe che, fino ad allora, non esisteva alcuna legge relativa all’accusa di professare il cristianesimo. Plinio si uniformò al rescritto di Traiano, assumendo nei riguardi dei cristiani una posizione di vigilanza, non accogliendo denunce anonime, non promuovendo indagini ed accontentandosi di una invocazione rivolta agli dèi da parte dei sospetti cristiani.  

Questa del tempo di Traiano, in Bitinia, pur annoverata fra la decina di “persecuzioni” subite dai cristiani, non presenta quegli elementi di implacabilità che caratterizzò quella, pur circoscritta, di Nerone e le altre, pur violente ma limitate, praticate nelle regioni dell’Impero fino alla metà del III sec.  

Dopo le accuse infamanti di cui furono oggetto i cristiani, al tempo di Nerone, da parte di un animoso e rozzo ceto popolare romano, all’inizio del II sec., l’opinione pubblica più colta concentrò su di loro l'accusa di “sacrilegio” legata al disprezzo degli dèi pagani e dell’imperatore, favorendo il diffondersi della convinzione che l’appartenenza al cristianesimo comportasse atteggiamenti contrari alla tradizione romana ed all’autorità imperiale e, pertanto, dovesse essere oggetto di condanna. Convinzione che, in linea con l’editto di Traiano, trovò via via maggiore accoglienza da parte della magistratura romana che, secondo quanto emerge dalle testimonianze, adottò, a seguito di denunce nei confronti dei cristiani, procedimenti di tipo penale e provvedimenti di condanna. Nel decennio successivo, l’imperatore Adriano (117-138), successore di Traiano, rispondendo alle sollecitazioni pervenute dall’assemblea delle città dell’Asia favorevoli ad un irrigidimento della legislazione contro i cristiani, forniva indicazioni nel senso che: "Se qualcuno li accusa e dimostra che fanno qualcosa contro e leggi, si decida secondo la gravità della colpa. Ma se qualcuno presenta denuncia a scopo di calunnia, si deve punire questa condotta vergognosa”.

Posizione analoga assunse l’imperatore Antonino Pio (138-161) che, in un'ordinanza alla provincia d’Asia, avrebbe persino vietato ogni accusa di ateismo contro i cristiani.      

Anche in questo periodo governato dalla dinastia tollerante degli Antonini, non mancarono i martiri. Sotto Traiano sembra sia caduto martire in Egitto l’evangelista Marco, fu crocefisso il vescovo di Gerusalemme Simeone, il vescovo di Antiochia Ignazio fu condotto a Roma e dato in pasto alle belve. I cristiani della Palestina, non avendo partecipato alla rivolta contro Roma (132-35), vennero sottoposti a rappresaglie da parte degli Ebrei. Nello stesso periodo a Roma (136) subì martirio, assieme ad altri undici cristiani, il vescovo Telesforo (125-136), settimo successore di S.Pietro.

La speranza dei cristiani di una maggiore tolleranza non si realizzò neppure al tempo di Marco Aurelio(161-180), essendo la “questione cristianesimo” ancora di scarsa rilevanza se rapportata ai conflitti di potere che dividevano l’imperatore dal Senato e dall’esercito.

Grave anche il problema dell’instabilità territoriale causata delle pressioni delle popolazioni germaniche che, fin dalla fine del I sec., avevano iniziato a porre in pericolo la sicurezza ai confini dell’impero. Questa pressione, già emersa ai tempi di Traiano, costrinse i successivi imperatori, tra cui Marco Aurelio, ad un susseguirsi di azioni militari con enorme impegno finanziario ed umano a  presidio delle frontiere.

Intanto l'esercito ha visto sia il dilatarsi dell’inserimento di elementi barbari, sia l'acquisizione da parte dei capi di un crescente potere politico causa di successive e frequenti insubordinazioni.      

Marco Aurelio avversò i cristiani per la negativa impressione ricavata dalla loro esaltazione spirituale e per il disprezzo con cui essi affrontavano la morte, persuasi che il Signore, rendendoli insensibili ai patimenti, avrebbe loro spalancato la porta dei cieli. Comportamento che, pur non comprendendo l’ostinazione con cui subivano le condanne, aveva destato rispetto in uomini di cultura come Epitteto (I-II sec.) ed ammirazione nel medico Galeno (129-200), rispettoso della moralità con cui i cristiani conducevano la loro vita.       

E’ controversa la portata della persecuzione subita dai cristiani al tempo di Marco Aurelio che non fu ispirata dall’imperatore ma, probabilmente conseguente ad una situazione di disordine causata dall’epidemia di peste (200.000 vittime) scoppiata al rientro delle milizie che avevano combattuto i Parti . L’esasperazione popolare si indirizzò ancora una volta contro i cristiani, presunti portatori di sciagure, e le conseguenze subite furono dure e non attribuibili a nuove misure imperiali quanto all’applicazione di quelle già esistenti. Le torture patite sono testimoniate dagli Atti relativi ad una serie di martiri fra cui il filosofo apologista Giustino, il vescovo Policarpo ed i cristiani di Lione e di Scilli (Cartagine).

L’animosità contro i cristiani si attenuò con la successione al potere del figlio di Marco Aurelio, Commodo (180-192),  presumibilmente per l’influsso o il diretto intervento della sua concubina Marcia, essa stessa cristiana.  

L'estensione degli atti persecutori, in Africa e in Europa, conferma quanto fosse diffuso il cristianesimo che, con le proprie regole estranee alle tradizioni ed all’etica dell’impero, andava a potenziare le difficoltà già emergenti a livello sociale: questo cominciava a destare preoccupazione nei responsabili dell’amministrazione pubblica.       

I cristiani tuttavia, pur nelle difficoltà per le accuse subite, cercarono di modificare il loro atteggiamento di chiusura e di uscire dalla clandestinità, mantenendosi però distaccati rispetto agli affari della vita pubblica. Nello stesso tempo si sforzarono di superare la fase del proselitismo del I sec. per aprirsi alle fasce culturalmente più elevate ed avviare un periodo di informazione e divulgazione mediante la quale, accanto ai riti liturgici ed ai temi teologici della nuova religione, vennero divulgati quelli di carattere morale e disciplinare, intesi a convincere le autorità della assoluta lealtà dei cristiani verso l’Impero e rivendicando una giusta applicazione delle leggi.

Nello stesso periodo si verificò l’emarginazione delle comunità cristiane di origine giudaica a favore di quelle di origine pagana che, progressivamente, attraverso l’elaborazione di concetti nuovi come quello di eresia (scelta) e di dogma (verità dichiarata ed obbligatoria per la fede), si avviavano a definire il rigore dottrinale della Chiesa.

Alla fine del II sec. Roma era divenuta il centro di irradiazione missionaria in Europa, dando avvio alla nascita delle diocesi, cioè Comunità cristiane territoriali affidate al governo pastorale di un vescovo. Nell'Italia settentrionale nascono le diocesi di Milano, Ravenna e Aquileia, nella Gallia, Lione e Marsiglia, mentre nell’Africa romana si svilupparono importanti centri culturali, tra cui la scuola di Alessandria che fu la prima di dottrina cristiana. In varie diocesi si formarono minoranze cristiane economicamente potenti e, grazie ai lasciti ed alle attività imprenditoriali, si dotarono di risorse economiche su cui non tardò a focalizzarsi l’interesse dello Stato.

Catacomeb di San Gennaro - affresco   

In quel tempo i cristiani, mantennero moralità e comportamenti decisamente contrastanti rispetto al mondo pagano, nella vita sociale e familiare:

- il matrimonio cristiano era caratterizzato dall'indissolubilità e con una sessualità volta soltanto alla procreazione, veniva celebrato in presenza del vescovo e dei fedeli in preghiera. Venne disconosciuta la sessualità fine a se stessa e consacrate la continenza e la verginità quali discipline contro la peccaminosità.

- Nei comportamenti familiari  vennero applicati gli insegnamenti di Pietro e Paolo e, malgrado l’affermazione di eguaglianza di tutti gli uomini dinnanzi a Dio, viene riconosciuta la sottomissione dello schiavo al padrone, della moglie al marito.

- Nelle attività sociali i cristiani pur nel rispetto della legalità, mantenevano una carica unitaria di solidarietà e di comportamenti, separati dai valori su cui si reggeva l’impero e tali da apparire un corpo di cittadini politicamente non condizionabili ed il cui peso sociale finì per destare l’attenzione di chi gestiva la vita pubblica.

La dinastia dei Severi, inizia con Settimio Severo (193-211) e prosegue con Caracalla (211-17) che, benchè allevato da precettori cristiani, se ne scostò. Successivamente Alessandro Severo  (222-235) accentuò durante il suo mandato l’aspetto mistico (nella sua casa,  domus divina  sembra tenesse le statue di Cristo ed Abramo) e consentì liberamente il culto cristiano.

I Severi erano di origine afro-siriaca, meno legati alle tradizioni romane. Sotto il loro governo, un periodo di pace consentì una ulteriore espansione della Chiesa, pur se all’inizio non mancarono episodi di persecuzione in Egitto, ad Alessandria (202) dove numerosi furono i martiri, in Numidia, in Mauritania ed in Gallia (211).

Tali episodi furono dovuti all'applicazione fin troppo zelante di leggi esistenti, non al volere dell’imperatore Settimio Severo che anzi, sollecitato dalla moglie Giulia Domna, intervenne per limitare gli eccessi. In particolare con Alessandro Severo (222-235) si instaurò a favore dei cristiani un clima favorevole ad aperture in cui la Chiesa potè allargare territorialmente la sua influenza, consolidare la propria organizzazione gerarchica, rafforzare le strutture amministrative collegando le varie chiese sotto l’autorevole guida dei vescovi, penetrare in ambienti sociali fino ad allora preclusi e rivendicare la proprietà dei luoghi di culto, di riunione e dei cimiteri, fino ad allora rimasti sotto protezione di privati.

I cristiani che in tempi precedenti, per timore di ritorsioni, non avevano dichiarato la loro fede chiesero di essere riammessi nella Chiesa. Tali cristiani, detti lapsi (coloro che sono scivolati) erano stati differenziati sulla base dei comportamenti tra quelli che avevano consegnato i libri sacri che vennero definiti traditores, quelli che avevano offerto il sacrificio agli dèi, i sacrificati, quelli che avevano bruciato incenso davanti all’altare pagano, i thurificati e infine quelli che erano riusciti a procurarsi un falso certificato, i libellati .

 Terminata la persecuzione sorse il problema della richiesta dei  lapsi di essere riammessi alla pratica delle fede. La posizione di rifiuto dei rigoristi si scontrò con quella possibilista che a sua volta era differenziata. A Cartagine,  Cipriano  sosteneva che potevano essere ammessi dopo penitenza e, tra questi i  libellati subito ed i  sacrificati  solo se in pericolo di vita. Tra le varie Chiese si diffuse la disputa e mentre Cipriano sosteneva che i “riammessi” dovevano essere di nuovo battezzati da Roma, che si avviava ad affermare il suo primato su tutte le Chiese, il vescovo Stefano   (254-257), ritenendo ancora valido il battesimo ricevuto, sosteneva sufficiente la sola imposizione delle mani.       

Con l’allargamento della comunità dei credenti, si verificò un cambiamento etnico con la prevalenza dell’elemento latino rispetto al greco ed all’ebraico ed anche un mutamento della composizione sociale delle comunità la cui la gestione fu assunta dagli appartenenti ad uno strato più colto, professionisti e piccoli borghesi. Questi, interessati a mantenere legami di affari con la componente pagana, indussero un declino del livello di moralità e spiritualità. Tale situazione fu decisamente condannata da Cipriano, vescovo di Cartagine (248-258). Il generale allentamento del rigore, fu occasione per il manifestarsi di diverse eresie.  

 

Nel periodo storico da zero a cento troviamo la sorprendente vicenda di S. Paolo.

Paolo, fariseo nato nel decennio successivo alla nascita di  Gesù (5-10 d.C.) a Tarso, città della Cilicia che, confluenza di cultura greca e semitica, si caratterizzava per un grande fervore per la filosofia e per ogni ramo della formazione universale e dove si ritiene abbia ricevuto la sua prima educazione di stampo giudaico-ellenista sulla base della Legge mosaica (Torah). Fu dapprima avviato, secondo la tradizione rabbinica, ad apprendere il mestiere manuale di fabbricatore di tende, quindi inviato a Gerusalemme,  presso la scuola del prestigioso maestro (rabbi) Gamaliele dove acquisì la perfetta padronanza del greco e dell’ebraico-aramaico che gli consentiranno subito di ricoprire vari ruoli nell’ambiente fariseo con diritto di voto nel Sinedrio e gli faciliteranno, successivamente, la diffusione delle dottrine elementari del Cristianesimo (catechesi) ad ebrei e greci. Non vi è notizia di diretti rapporti con Gesù perché nel periodo in cui questi annunciava a Gerusalemme la venuta imminente del regno di Dio e forniva una nuova interpretazione della Legge di Mosé, Paolo era rientrato a Tarso (anni 25-30 dC).

Giudeo di stretta osservanza, legato alle tradizioni ebraiche, si allineò alla corrente giudaica più rigorosa e, come disse egli stesso “mi ero spinto nel giudaismo oltre tutti i miei coetanei, difensore fanatico come ero, in misura maggiore di loro, delle tradizioni dei miei padri” e con un ruolo nella persecuzione dei cristiani di formazione giudaica tra cui la lapidazione del San Paolodiacono Stefano. Stefano entrò in contrasto con il sinedrio a causa della sua missione e Saulo approvò l’uccisione di Stefano. In quel giorno si scatenò una grande persecuzione contro la nascente chiesa cristiana che era in Gerusalemme. Saulo intanto devastava la chiesa, entrava nelle case, trascinava fuori uomini e donne e li faceva mettere in prigione.

Circa la sua conversione, essa può collocarsi intorno al 33, nel corso del suo viaggio verso Damasco finalizzato alla persecuzione dei cristiani. Giunto nei pressi delle mura della città, venne chiamato da Cristo Gesù con un’apparizione folgorante che mutò radicalmente il corso della sua vita e segnò una tappa fondamentale nella storia della Chiesa, secondo quanto egli stesso riporta e secondo quanto descritto negli Atti: Or mentre io ero in viaggio e mi stavo avvicinando a Damasco,  una gran luce venuta dal cielo mi folgorò tutto intorno. Io caddi a terra ed udii una voce che mi diceva: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?"  Io risposi: "Chi sei o Signore?" Mi disse: "Sono Gesù il Nazzareno che tu perseguiti".

Ricevuto a Damasco il battesimo (Atti 9) si ritirò, forse per due anni, nel deserto dell’Arabia a sud di Damasco (l. Galati 1, 17), per pregare e riflettere sulle sacre scritture, quindi ritornò a Damasco dove i suoi antichi compagni di fede non tardarono a dichiararlo apostata, cioè colui che abbandona la propria religione  per seguirne un altra, e costringerlo a fuggire a Gerusalemme per porsi sotto la protezione di Barnaba, un giudeo-cristiano suo protettore. Là incontrò Pietro e Giacomo con cui confrontò la sua predicazione e da cui ricevette informazioni sugli episodi fondamentali della vita di Gesù.

Fu durante quel soggiorno che gli apparve di nuovo Gesù: “Mentre stavo pregando nel tempio fui rapito in estasi e vidi lui che mi diceva: - Presto affrettati ad uscire da Gerusalemme perché non accetteranno la tua  testimonianza riguardo a me ... Va, perché io ti manderò lontano tra i pagani” che gli diede la coscienza di aver ricevuto la missione apostolica per portare alla speranza della fede tutti i gentili. Ricevuta direttamente da Gesù l’istruzione della dottrina cristiana, Paolo, si trovò in difficoltà nel divulgarla perché il mondo cristiano, memore dei suoi precedenti, lo accolse con diffidenza e accusandolo di apostasia, lo respinse dimostrandogli rancore ed obbligandolo alla fuga (39 dC). Alcuni seguaci lo accompagnarono prima a Cesarea, quindi a Tarso dove completò la riflessione su Gesù che, nella sua mente, finì col sostituirsi a quella sulla Torah fino ad indurlo a rivelare "Vivo, però non più io, ma vive in me Cristo. La vita che ora io vivo nella carne, la vivo nella fede, quella del Figlio di Dio ...".

Durante il soggiorno a Tarso, durato presumibilmente quattro o cinque anni, riprese ad esercitare il suo antico mestiere di fabbricatore di tende, finché Barnaba lo indusse a trasferirsi ad Antiochia, in Siria, dove si fermò ad istruire una comunità i cui componenti per la prima volta furono chiamati cristiani. Là stabilì la base della sua missione che, attraverso le vie più frequentate dell’Impero romano, raggiunse Siria e Cilicia, Asia Minore e Grecia per concludersi infine a Roma. Durante la sua zelante opera di proselitismo egli intese rivolgersi al giudeo prima e poi al greco con l’intento di dimostrare che Gesù di Nazaret è proprio il Messia da loro atteso e che le scritture dell'Antico Testamento, secondo la sua interpretazione, anticipano quanto si è compiuto con Cristo. Nel Nuovo Testamento è inserito l’epistolario di Paolo, 14 lettere che, redatte occasionalmente e con diverse finalità tra il 51 ed il 67 d.C. rappresentano gli scritti più antichi del Cristianesimo e ad esse è stata attribuita un’autorità pari a quella delle altre scritture. Esse sono divise in tre gruppi:

a) prime lettere: I e II alla comunità (c.) di Tessalonica (Grecia), I e II ai alla c. di Corinto, alla c. della Galazia (Turchia), alla c. di Roma;

b) lettere dalla prigionia: alla c. di Filippi (Grecia), a Filemone,  alla c. di Colosse (Turchia), alla c. di Efeso;

c) lettere pastorali : I e II a Timoteo, a Tito.

Il primo viaggio missionario iniziò nel 45 da Antiochia con Barnaba ed il giovane evangelista Marco per il primo viaggio  missionario (45-49) che lo condusse a Cipro, Salamina, Listra e nelle regioni meridionali dell’attuale Turchia (Atti, 13 e 14) evangelizzando molte città e fondando diverse comunità ma incontrando altrettante difficoltà e persecuzioni. Nel corso del viaggio diede inizio alla fase di gerarchizzazione con la scelta, tra gli anziani più ragguardevoli, dei primi capi delle comunità locali evangelizzate, chiamati presbiteri (presbyteros). Sono gli attuali preti, in cui il termine si è trasformato attraverso il meridionale previte, tra questi, quelli chiamati episcopi (vescovi) erano residenti ed avevano compiti di sovrintendenza. Non si evitarono però contrasti con i giudei convertiti, soprattutto farisei, che volevano imporre ai cristiani provenienti dal paganesimo l’osservanza delle pratiche ebraiche, cioè la circoncisione "..Se non vi fate circoncidere secondo la legge di Mosè non potete essere salvi" che assicurava l’appartenenza al vero popolo di Dio. Fu allora che si rese necessaria la convocazione del “Concilio apostolico di Gerusalemme” (49 dC), prototipo di tutti i concili ecumenici successivi, dove, con la partecipazione dell’intera comunità di Gerusalemme, venne superato il ritualismo ebraico e, riconosciuta ai giudei-pagani la dispensa dalla piena osservanza della legge di Mosé, venne confermato che la salvezza proveniva unicamente dalla fede in Gesù. Conclusioni che risultarono determinanti al fine di staccare la nuova religione dalla matrice giudaica (di cui conservava il monoteismo, l’osservanza del sabato e poche altre regole elementari) ed estenderla alle genti di matrice ellenistica. Regole che però non trovarono uniformità di applicazione e, dopo la partenza di Pietro da Gerusalemme, i seguaci di Giacomo espressero la loro intenzione di non abbandonare le tradizioni che venivano dai padri.

Tra il 50 ed il 52 Paolo intraprese il secondo viaggio missionario, in compagnia di Sila e Timoteo ma senza Barnaba con cui aveva allentato i rapporti. Si diresse verso nord dove fondò la comunità della Galazia (Turchia), quindi verso le città della Macedonia dove vennero fondate le comunità di Filippi e Tessalonica (odierna Salonicco). Proseguì quindi per Atene, incontrando ripetute difficoltà per la sua predicazione. Si recò quindi a Corinto, nella cronologia di Paolo abbastanza controversa, la permanenza a Corinto nel 50-51 è abbastanza sicura per l’incontro  con il proconsole dell’Acaia, Gallione, presso cui era stato condotto e denunciato perché induce la gente a rendere un culto a Dio in modo contrario alla legge.

Da Antiochia, dove era rientrato, partì per il terzo e movimentato viaggio (53-58 dC) in cui visitò le comunità dell’Asia Minore fondate in precedenza e sostando per più di due anni ad Efeso dove, sembra già esistesse una comunità di credenti e dove aprì un centro di insegnamento cristiano presso i locali del retore Tiranno in cui continuò a tenere le sue discussioni ogni giorno.   

A Roma, sede del culto ad Artemide, si verificò contro di lui l’insurrezione della corporazione pagana degli orefici che, fondando i loro guadagni sulla vendita di simulacri lo costrinsero a riparare prima in Macedonia, da dove scrisse la seconda lettera ai Corinzi, poi a Corinto da dove scrisse ai Romani la lettera che viene identificata come il suo testamento spirituale e dove viene puntualizzato il tema della salvezza che viene da Gesù e della fede, suggellata dal battesimo. Viene inoltre ribadito che la promessa fatta da Dio ad Abramo si è attuata in Cristo costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santificazione mediante la resurrezione dai morti.

Alla fine del 57 Paolo partì da Corinto ed, attraverso una via tortuosa nel timore di imboscate, raggiunse Gerusalemme dove, a seguito dell’accusa di religione non permessa, venne arrestato per ordine del tribuno romano. I culti dovevano essere riconosciuti dai romani per essere legali ed il cristianesimo non lo era. In questa occasione i romani lo salvarono dall’ira degli ebrei che volevano lapidarlo e temendo altre iniziative contro Paolo, il tribuno Claudio Lissa lo fece accompagnare sotto scorta a Cesarea, sede della più importante guarnigione romana in Giudea. Là rimase, con la possibilità di condurre una vita pressoché normale, sotto custodia militaris, cioè protetto da eventuali azioni degli ebrei e vi rimase in custodia per due anni scrivendo le lettere agli Efesini ed ai Colossesi 

Non intravedendo la possibilità di ottenere la libertà, considerate le pressanti accuse e l’accanimento con cui i suoi avversari lo perseguivano, ricorse al diritto di cittadinanza romana (ereditato dal padre o dal nonno per servigi resi all’impero o per un loro affrancamento) facendo appello all’imperatore per essere giudicato a Roma. Dopo un viaggio travagliato, scortato dal centurione Giulio, subì un naufragio a Malta, quindi fece tappa in Sicilia, a Reggio (dove, secondo la leggenda, compì il miracolo della colonna, conservata tuttora nel Duomo) per sbarcare infine a Pozzuoli.

A Roma giunse nella primavera del 61, e trovò seguaci della nuova religione che andarono ad incontrarlo alle porte di Roma. Rimase agli arresti domiciliari per due anni (61-63) durante cui, presumibilmente, scrisse, oltre alle due lettere prima citate, anche quella ai Filippesi. A seguito del processo presieduto da uno stretto collaboratore di Nerone, Afranio Burro, gli fu restituita la libertà, probabilmente nel 62, comunque prima dell’incendio di Roma e della persecuzione dei cristiani.

Da qui in poi sono ancor più incerti i suoi spostamenti e, secondo alcune testimonianze, sembra si sia recato in Spagna (64 dC) e quindi in Asia Minore.

In Asia Minore lasciò Timoteo, a capo della Chiesa di Efeso ed affidò la comunità di Creta a Tito per mettervi ordine e per scegliere i presbiteri.

Il martirio di Paolo, che egli stesso pretese fosse per decapitazione in quanto cittadino romano, si ritiene avvenuto nel 67 d.C. presso le Acque Salvie, sulla via Ostiense. Con la sua predicazione egli contribuì al superamento dei caratteri giudaici del cristianesimo e, restando fedele alla questione, per quel tempo vitale, dell’unità nella chiesa di giudei e gentili, la allargò ad un contesto geograficamente e culturalmente più ampio. Le sue Lettere, tracciano il periodo di consolidamento della nuova religione e costituiscono la più antica testimonianza del Nuovo Testamento. Esse furono subito utilizzate dalle comunità di credenti per conoscere e trasmettere con la predicazione i temi fondamentali ed i termini teologici dell'insegnamento di Gesù.

Le comunità del Medio Oriente -  La comunità di Gerusalemme che Gesù aveva raccolto, ricostituitasi dopo gli eventi della Pasqua del 30 che avevano registrato la morte e la resurrezione di Gesù, era composta sia da coloro che si accostavano inizialmente alla fede nel Gesù Cristo risorto che da quelli che lo avevano conosciuto nella vita terrena. Lo stato d’animo di questi ultimi, così come era accaduto agli stessi apostoli, oscillava tra la sorpresa e lo sbalordimento per la immediata  realizzazione degli eventi annunciati durante la predicazione. Fra gli aderenti prevalevano i giudei di lingua aramaica (nativi della Palestina ed accusati di apostasia) che, identificandosi nella fede in Gesù (atteso Signore e Messia che tornerà alla fine dei tempi) e consapevoli di essere stati chiamati a testimoniarLo, si differenziavano dalla visione teocratica e di attesa messianica dei gruppi farisei, esseni e sadducei da cui provenivano, pur restando comunque legati alle loro tradizioni e osservando la legge mosaica. Meno problematico l’atteggiamento degli aderenti di lingua greca (ebrei dispersi in mezzo ai pagani che avevano allentato i legami con la religione originaria) che, scarsamente legati all’osservanza della legge di Mosé, già ai tempi della predicazione di Gesù, ne avevano seguito senza incertezze l’insegnamento. Le due componenti (aramaici ed ellenisti) si ponevano comunque in rotta di collisione con le autorità teocratiche di Gerusalemme ed il contrasto teologico che si venne a creare diede origine alle prime persecuzioni rivolte sia verso gli ebrei-aramaici che verso gli ebrei-ellenisti. Nei riguardi dei primi prevalevano le motivazioni di carattere dottrinale mentre nei riguardi dei secondi le motivazioni erano di natura più prettamente politica in quanto, con l’accoglienza dei nuovi canoni religiosi, venivano messe in crisi le istituzioni giudaiche. Motivazioni analoghe costituiranno la base del fondamento giuridico  utilizzato successivamente per le persecuzioni attuate dall’Impero romano. La fuga da Gerusalemme dei componenti la prima comunità, perseguitati e dispersi da Erode Agrippa divenne una opportunità per la nuova religione "..quelli che si erano dispersi se ne andavano in giro predicando la parola del vangelo" in quanto allargarono la predicazione alle province ed all'Asia minore, in cui la

 

La città siriana di Antiochia divenne un centro di vastissima attività missionaria. La comunità giudo-cristiana rimasta in Gerusalemme, a seguito della partenza di molti ellenisti e sotto l’influsso del diacono Giacomo che ne aveva assunto la guida, registrò un rafforzamento dei vincoli con la comunità giudaica e, pur mantenendo la fede in Gesù, tentava di realizzarla all’interno del giudaismo, con il riconoscimento della legge, inclusa la circoncisione. Questione che, come come detto precedentemente, rese necessaria la convocazione del Concilio di Gerusalemme.

Successivamente l’opera di proselitismo che, da Antiochia, si sviluppò lungo le grandi vie di comunicazione dell’impero romano, dalle grandi città della Grecia (Efeso, Filippi, Tessalonica, Corinto, Atene) fino a giungere al centro del Mediterraneo e dell'Impero romano (Alessandria, Cartagine e Roma), consentì alla nuova religione di valicare l’ambito provinciale per assumere una dimensione globale. L’opera di proselitismo, soprattutto da parte di Paolo, ma anche di Pietro e dei suoi seguaci, a causa del prevalente rifiuto del mondo giudaico ad accogliere la predicazione che Paolo avviava dalle sinagoghe, si rivolse, favorendone l’ingresso nelle comunità, ai pagani (gentili) che, del tutto estranei alla legge  mosaica e più aperti ad accogliere la dottrina di Gesù, permisero di allentare il legame con le concezioni apocalittiche dell'Antico Testamento.

Gli ex-gentili, nell’abbracciare la nuova religione, ponevano al centro del loro credo  la venerazione per il Cristo figlio dell’uomo, morto e risorto, salvatore e Signore, nell’attesa del suo prossimo ritorno (maranathà) ed, al fine di limitarne comportamenti e concezioni individualiste, vennero inseriti nella comunità del popolo di Dio. La componente giudaica invece continuò a mantenere le tradizioni della legge mosaica e la sua influenza, prevalente soprattutto in Gerusalemme, dove era guidata da Giacomo.

Alla morte dell'apostolo Giacomo, un parente di Gesù, Simone figlio di Clopa, era subentrato alla guida della comunità che continuò fino alla caduta della città (70 dC). Caduta che ben presto fece nascere nelle comunità cristiane la convinzione che si trattasse della punizione voluta da Dio per la miscredenza dei giudei. Il tramonto dello stato ebraico ed il declino della comunità cristiana di Gerusalemme tuttavia non ne cancelleranno il ricordo che rimase, nella memoria dei cristiani, come quella da cui era originato il cristianesimo.

L’ampliamento del numero di aderenti alla nuova religione fece accrescere i motivi di avversione tra componente giudaica e pagana. I giudei vedevano messa in discussione la loro tradizione religiosa, i pagani vedevano messi  in pericolo i loro interessi economici. Tali contrasti obbligarono talvolta le truppe romane stanziate in Asia minore ad intervenire per motivi di ordine pubblico, senza pregiudizio, ma con atteggiamento protettivo nei riguardi dei cristiani “christianoi”: legati a Cristo. Il neologismo cristiani, utilizzato dai pagani per differenziare i seguaci del Cristo-Messia dagli ebrei rimasti fedeli alle leggi di Mosé e diffuso dai Romani, prova la consistenza e l’autonomia assunta da questa comunità al di fuori del giudaismo. Da sottolineare la mancanza di pregiudizio, ancora a quel tempo, delle autorità romane nei riguardi delle credenze religiose. Tolleranza evidenziata dal proconsole d’Acacia, Gallione che, ai giudei che accusavano Paolo di indurre ad  "onorare Dio in modo contrario alla legge" rispose “se si trattasse di un delitto o di una azione malvagia vi ascolterei ..”.

La città di Antiochia, con l’arrivo di Pietro, Paolo e Barnaba, seguiti da dottori e predicatori itineranti, fra cui Luca, era diventata il fulcro da cui si irradiava la predicazione missionaria della buona novella. La concentrazione dell'interesse teologico fece crescere quel movimento culturale che, concorse alla redazione del Vangelo di Matteo e della Didachè, cioè di quel testo di insegnamento apostolico scritto presumibilmente verso la fine del I secolo e che rappresenta la più antica regola delle comunità cristiane siro-palestinesi e sviluppa temi liturgici, morali ed organizzativi.

La tradizione culturale di Antiochia continuò con S. Ignazio successore di Pietro, in qualità di Vescovo, ed autore di sette lettere ardenti di misticismo dove si incontrano, per la prima volta, i neologismi di Chiesa cattolica e cattolicesimo (Cattolicesimo “katholikos”: universale) comprende il complesso dottrinario della Chiesa intesa come società fondata da Gesù ed affidata alla guida di Pietro e dei suoi successori.

Si ritrovano importanti testimonianze della Chiesa  di Antiochia di fine secolo. Da Antiochia il cristianesimo si diffuse molto presto, probabilmente ad opera dell’apostolo Simone lo zelota, nel Siriavicino centro carovaniero di Aleppo (Halab), la cui comunità cristiana ebbe un ruolo, nei secoli successivi, sia per le persecuzioni subite (Santi Cosma e Damiano) che per la vita monastica.

Le comunità cristiane, che si andavano costituendo nelle varie città della Grecia e caratterizzate da una matrice essenzialmente greco-romana, erano costituite in larga misura da componenti provenienti dalle classi medio basse, quali commercianti ed artigiani, giunti da varie parti dell’impero. Le comunità apparivano, per la solidarietà che manifestavano verso il prossimo, come entità sociali assolutamente anomale per l’epoca. Ed erano anche rispettose delle leggi e delle autorità, dall’affermazione di Gesù “Rendete a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio”.

Le comunità cristiane erano portatrici di una dirompente carica rivoluzionaria poggiata su un Dio che, fattosi uomo, abbracciava la condizione dei diseredati, degli oppressi e dei più esposti alle insidie del mondo. Carica rivoluzionaria che coinvolgeva le classi più umili, fino ad allora escluse da ogni attenzione, che venivano spinte all’apprendimento delle scritture. Il governo di ciascuna comunità veniva affidato ad un collegio di presbiteri, tra cui emerse la figura del vescovo. In Siria ed Asia minore il vescovo assume, già alla fine del I sec. un potere di governo mentre, in altre località dell’Impero, si mantiene più a lungo un governo collegiale. Nelle lettere di S. Ignazio per la prima volta si trova la tripartizione vescovo, presbitero, diacono.

I componenti delle comunità cristiane si affidavano, sia presso le comunità giudaiche che in ambienti pagani, a contatti personali ed a testimonianze di vita per divulgare, un messaggio semplice ma innovativo: Dio è quello stesso degli ebrei e testimoniato dalla Bibbia, Gesù è il Salvatore che è resuscitato ed ha aperto le porte del cielo a coloro che accolgono il suo invito. Va sottolineata la rapidità con cui il cristianesimo, favorito dalla diaspora e dalle grandi vie di comunicazione, si diffuse in tutto l’Impero romano di lingua greca, prima fra i centri urbani quindi in quelli rurali, solitamente più statici. Ed accanto alle comunità impostate da Paolo ne furono fondate diverse altre da missionari precedenti o suoi contemporanei che non si limitarono ad operare in territori ristretti. In Asia minore, a seguito della predicazione dell’apostolo Giovanni sorsero sette Chiese: Sono quelle di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia, Laodicea cui Giovanni indirizza il libro profetico dell’Apocalise per metterle in guardia da errori insorgenti ed incoraggiarli a superare le difficoltà inerenti alla professione di fede.

La vita nelle comunità - I cristiani si identificavano profondamente nell'appartenenza a Cristo e quindi alla sua cittadinanza celeste. Conducevano una vita separata nei confronti della cittadinanza terrena, rifiutandone i costumi ed evitando di partecipare alle vicende delDiffusione Cristianesimo I° secolola vita  politica. Questo atteggiamento finì col trasformarsi in una obiezione di coscienza nei confronti delle autorità e dei cittadini sollevando sospetti e diffidenze e creando i presupposti per le persecuzioni . Il Centro vitale delle comunità erano le riunioni liturgiche dove i componenti si ritrovano in case private messe a disposizione da chi era più facoltoso, per rafforzare l’unione e per la preghiera, affidata a forme celebrative diverse da comunità a comunità ed ispirata dalla creatività dei singoli o a modelli della sinagoga ebraica. L’unificazione della liturgia si verificherà nella Chiesa imperiale del IV sec.

Nelle preghiere prevaleva il Pater Noster (Matteo) recitato in piedi, rivolti ad oriente, con le braccia alzate ed aperte ad imitazione della croce. Le letture riguardavano le prime testimonianze divulgate con le Epistolae di Paolo ed i Vangeli. I cristiani, nello sforzo di emulare Cristo, iniziarono a praticare la continenza, la castità nel matrimonio, i digiuni che aiutano a controllare la cupidigia ed accrescono i vincoli di solidarietà verso i bisognosi, gli ammalati i condannati. Nelle prime comunità di Gerusalemme si era instaurato un “regime comunistico di beni”, anche se successivamente la resistenza di coloro che possedevano di più si fece sentire. La condivisione dei beni era la naturale conseguenza di un sentimento di amore. Atti di disinteressata generosità (caritas) che si differenziavano da quelli dei pagani, rivolti prevalentemente ad accrescere il prestigio personale. La solidarietà dei cristiani si manifestò anche col provvedere alla sepoltura dei diseredati, nell’offrire ospitalità a confratelli di passaggio e nel condannare i maltrattamenti verso gli schiavi. I cristiani valorizzano il lavoro manuale che, ritenuto dai pagani una triste necessità che umilia l’uomo, i cristiani dedicano alla gloria di Dio. Con altrettanta fermezza vengono condannati i giochi circensi che mettono in pericolo la vita umana. Tra i principi assunti dalle comunità c'era quello del matrimonio, ritenuto indissolubile. Il matrimonio non era ancora un rito e le unioni erano sancite con una benedizione. Non erano permessi matrimoni con i pagani, portatori di diversi comportamenti ed il secondo matrimonio era considerato alla stregua di un adulterio. L’aborto era ritenuto omicidio, pur in un contesto in cui l’uomo era considerato tale solo dopo la nascita. La riunione della comunità avveniva la domenica, giorno della resurrezione di Cristo ed i rituali più importanti delle loro celebrazioni erano il battesimo, la celebrazione dell’eucarestia, la Pasqua cui si legavano i digiuni, risalenti alla tradizione giudaica, ma significativi di una nuova realtà spirituale. Il battesimo era proceduto da una iniziazione dottrinale preliminare ed avveniva per immersione in acqua viva e con l'imposizione delle mani.

L’eucarestia era l’atto rituale della memoria e della comunicazione della salvezza che veniva celebrata in ricordo dell’ultima cena in cui Gesù aveva preannunciato la sua passione ed invitato a ripetere il rito in memoria di Lui. Si compiva in occasione di un pasto in comune e si rafforzava con la celebrazione comunitaria, nel giorno del Signore, la domenica. Domenica che non rappresenta più il giorno del riposo di Dio ma il giorno del Signore, nel ricordo della resurrezione: prima si aggiunse al sabato quindi lo sostituì. Con l’eucarestia veniva celebrato il rito della trasformazione del pane e del vino (alimenti base dei popoli mediterranei) nel corpo e sangue del Cristo-Messia, che, distribuiti come cibo, mettono i fedeli in comunione col Signore e fra di loro. Il rito dell’eucarestia ha termine con l’invocazione vieni o Signore (maranathà) con cui la comunità attende il compimento finale e con l'abbraccio della pace. Rito che, col tempo, verrà celebrato anche il mercoledì (giorno del tradimento di Giuda) ed il venerdì (giorno della crocefissione di Cristo).