Anno “0” dell’era cristiana. Nessuno di coloro che vivono in questo anno sa che
è l’anno “0”, l’anno dal quale la maggior parte dell’umanità avrebbe iniziato a
contare il tempo. Nel grande impero romano che domina il mondo occidentale si
conta l’anno 753 dalla fondazione di Roma, per i cinesi è l’anno 2.637, per gli
ebrei l’anno 3.760 dalla creazione biblica.
Il 25 dicembre di questo anno “0”, secondo il calcolo di un monaco, Dionigi il
Piccolo, sarebbe nato Gesù di Nazareth.
Il calcolo non corretto: gli storici hanno dimostrato che l’anno di nascita di
Gesù deve essere anticipato di circa 6 anni.
Questo però è l’anno, convenzionalmente accettato come anno zero, come
spartiacque tra epoca pre-cristiana e post-cristiana.
Ma com’era la vita in quest’anno “0” e nei primi 100 anni dall’avvento di
Gesù? Che cosa è cambiato con la nascita del cristianesimo?
Cominciamo dal grande Impero Romano che domina la scena politica e geografica
del Mediterraneo.
Roma verso l’anno “0” - Nelle province romane il governo è demandato a
proconsoli e propretori che avevano poteri vastissimi: civili, militari,
giudiziari.
Poiché però (come tutti i magistrati)duravano in carica solo un anno, essi
non potevano assicurare alle province la necessaria continuità amministrativa.
Per risolvere il problema Roma appaltò una serie di funzioni ad agenti, che
chiamò pubblicani (cioè “appaltatori”), i quali avevano il compito di riscuotere
i tributi e di svolgere altre mansioni per conto dello Stato..
I
pubblicani erano imprenditori privati che Roma pagava a percentuale su ogni
affare concluso. L’ammontare delle percentuali era legalmente stabilito, ma la
scarsa sorveglianza dei proconsoli o, a volte, la loro complicità, permise il
dilagare della corruzione. Ben presto pubblicani e proconsoli divennero per i
provinciali il motivo di massimo risentimento verso i dominio romano.
Nell’ultimo periodo della repubblica, anche l’elite di potere a Roma ha un
ordinamento particolare: i senatori possono fare politica ma non possono fare
affari, i cavalieri fanno affari ma non possono fare politica.
Per evitare che la corruzione e gli affari inquinassero l’imparzialità di chi
governava la Repubblica, un tribuno della plebe aveva fatto approvare una legge
cautelativa in base alla quale chi aspirava a ricoprire cariche politiche doveva
dimostrare di possedere solo terreni agricoli e di non essere coinvolto in altri
affari (commerci, appalti, prestiti di denaro a usura, ecc.).
Quando le conquiste di Roma furono così vaste da costituire un Impero cambiò
anche il carattere dei Romani che da popolo di agricoltori si trasformò in una
società raffinata e amante delle arti, ma anche avida di lusso, impegnata negli
affari e negli intrighi politici e intenzionata a sfruttare i vinti senza pietà.
Le conquiste fecero esplodere il fenomeno della schiavitù. I pochi schiavi che i
ricchi romani avevano posseduto prima delle Guerre puniche divennero milioni.
Gli schiavi, per la maggior parte erano prigionieri di guerra e venivano
comprati, sul campo stesso delle battaglie, dai mercanti che seguivano le
legioni.
Poi i mercanti li selezionavano e li vendevano all’asta nei mercati dell’Impero.
Altre volte i consoli vendettero intere popolazioni, come accadde ai Galli
Liguri quando le legioni entrarono nel loro territorio. Alcune campagne
fruttarono in un colpo solo 150.000 schiavi tra uomini, donne e bambini.
Mentre senatori e cavalieri aumentano a dismisura le loro ricchezze, si consuma
la rovina dei contadini che hanno combattuto nelle legioni. Quando tornano alle
loro fattorie, questi legionari – che a volte sono stati lontani da casa dieci,
dodici, sedici anni – trovano i campi abbandonati e sterili per mancanza di
braccia. E quando si spaccano la schiena per dissodarli di nuovo e seminarli, si
accorgono che il grano della Sicilia, l’olio della Grecia, il vino della Siria
superano sui mercati i loro prodotti sia per il prezzo più basso e che per la
qualità migliore.
Colpiti dalla crisi economica, i piccoli proprietari si indebitano e offrono il
proprio lavoro come braccianti per pagare i debiti e conservare il campo.
Il lavoro a giornata però non serve più ai grandi proprietari, perché ormai
fanno coltivare le loro terre da migliaia di schiavi. Uno schiavo offre diversi
vantaggi rispetto a un bracciante: costa solo vitto e alloggio e non deve
abbandonare i campi ogni volta che lo Stato chiama i contadini a servire nelle
legioni. I debiti costringono poi decine di migliaia di piccoli proprietari a
svendere i loro campi ai grandi proprietari terrieri, che accumulano centinaia
di piccoli lotti fino a costituire enormi distese di terreno, i latifondi.
Cambia il paesaggio: là dove prima c’era un reticolato perfettamente ordinato di
piccoli poderi, ora si estendono a perdita d’occhio i terreni delle grandi
famiglie senatorie e, mentre precedentemente c’era il podere con la piccola
fattoria di una famiglia contadina, ora immense distese coltivate sono dominate
da un’unica grande azienda agricola, brulicante di schiavi, chiamata villa in
latino.
I latifondi erano enormi e le famiglie senatorie non avevano interesse a farli
coltivare interamente e quindi ne lasciavano buona parte incolte tanto che si
inselvatichirono e si ricoprirono di paludi, come accadde in Maremma e nella
Pianura pontina.
Di conseguenza, i contadini che avevano svenduto i loro poderi, emigravano a
Roma e in genere nelle città in cerca di un lavoro. Lavoro che poteva venire
solo da opere pubbliche, rare e di breve durata.
Per questo motivo un’intera categoria di ex-piccoli proprietari agricoli si
trasformò in proletariato disoccupato che affollava i cadenti fabbricati dei
quartieri popolari cittadini.
Le campagne che si spopolavano riempivano le città, dando luogo a un fenomeno
chiamato urbanesimo (da urbs, “città”). Roma, presa d’assalto da queste masse
povere e senza speranza, si avviò a raggiungere il milione di abitanti. Già
oltre un secolo prima dell’anno “0”, a questi problemi tentò di porre rimedio un
gruppo di nobili, tra i quali emergevano i fratelli Tiberio e Gaio Gracco,
discendenti da una famiglia antica e gloriosa, che aveva dato numerosi consoli
alla Repubblica.
Entrambi furono eletti “Tribuni della Plebe”: Tiberio nel 133 a.C. e Gaio nel
123 a.C. Entrambi proposero una legge agraria che avrebbe restituito i campi
alla plebe urbana, togliendone una piccola parte ai “possessori” di latifondi.
Queste leggi non avrebbero fatto torto a nessuno, anzi avrebbero ripristinato la
legalità, perché i “possessori” non erano proprietari, ma semplici affittuari.
Molti dei terreni conquistati in Italia e distribuiti agli agricoltori, infatti,
erano stati proclamati in origine agro pubblico, cioè “territorio dello Stato”,
e chiunque avesse acquisito il diritto di sfruttarli era tenuto a restituirli se
lo Stato lo richiedeva.
Da tempo però la nobiltà romana considerava illegalmente i terreni pubblici come
terreni di sua proprietà. Essa non volle neppure mettere in discussione i
privilegi
che aveva accumulato e, quando il pericolo di perderli divenne concreto, fece
assassinare prima Tiberio, poi, dieci anni dopo, suo fratello Gaio, compiendo un
atto illegale contro la legge e la religione, poiché i tribuni erano “sacri e
inviolabili”.
Tra le leggi a suo tempo proposte da Gaio Gracco ve n’era una particolarmente
importante perché estendeva la cittadinanza romana agli italici.
I contadini di tutta Italia si riversano a Roma, che comincia a espandersi oltre
le vecchie Mura. I contadini inurbati diventano plebei disoccupati che
ciondolano
oziosamente per le strade della città. Gli alleati italici erano collocati al
penultimo posto della scala sociale, prima degli schiavi. Dopo aver combattuto
per più di tre secoli nelle legioni di Roma, ora chiedevano in cambio il
privilegio della cittadinanza.
Gaio aveva percepito la loro esasperazione e con la sua legge intendeva evitare
una ribellione generale che avrebbe avuto conseguenze sanguinose per l’Italia
intera. La sua morte segnò invece la fine delle riforme. Gli ex contadini non
ottennero i campi e gli Italici, delusi nelle loro speranze, cominciarono a
covare vendetta verso questa ingiustizia.
La durissima lotta tra i Gracchi e i loro avversari, la sconfitta dei due
tribuni e il loro assassinio segnarono una svolta nella storia di Roma.
Da allora in poi la società romana si divise in due fazioni nemiche:
i Popolari, gli “amici del popolo”, che si ispiravano alle idee dei Gracchi,
comprendenti la maggioranza dei plebei e una minoranza di nobili, erano
impegnati a:
•Ridimensionare lo strapotere del Senato
•Attenuare lo squilibrio tra ricchi e poveri con nuove leggi agrarie
•Favorire della ridistribuzione della terra ai contadini
gli Ottimati (dall’aggettivo superlativo optimus), quindi nobili nonché mandanti
dell’assassinio dei Gracchi, erano:
•Favorevoli al rafforzamento del potere del Senato
•Decisi a mantenere la plebe nella povertà
•Contrari alla redistribuzione delle terre ai contadini.
Dopo la morte dei Gracchi, i Popolari cercarono di raccogliersi intorno a un
altro capo di prestigio che unisse all’abilità politica la gloria militare: a
Roma questa era una qualità essenziale per suscitare l’entusiasmo del popolo e
trarre dalla propria parte gli incerti.
Nel 107 a.C. l’uomo che rispondeva a queste esigenze era Gaio Mario, un nobile
di origine plebea che, eletto più volte console, guidò alla vittoria le legioni
di Roma prima contro un re africano ribelle, Giugurta, poi contro le agguerrite
tribù dei Cimbri e Teutoni che stavano invadendo l’Italia.
Oltre che per le imprese militari, Mario si segnalò per una radicale riforma
dell’esercito con cui risolse due problemi: il primo problema era quello di
sempre, cioè la miseria dei proletari. Il secondo derivava dal primo; infatti
un’antica legge riserva solo a chi possedeva terra sufficiente a pagarsi le armi
e l’equipaggiamento l’onore e l’obbligo di militare nell’esercito. Di
conseguenza la fine della piccola proprietà contadina rendeva sempre più
difficile trovare uomini per formare le legioni.
La riforma di Mario si articolò così:
• l’esercito sarebbe stato formato esclusivamente da volontari;
• per arruolarsi non occorreva più possedere terra sufficiente;
• i legionari non solo non dovevano pagarsi l’equipaggiamento, ma avrebbero
ricevuto una paga giornaliera e premi in caso di vittoria;
• chi fosse diventato veterano, cioè avesse compiuto 16 anni di servizio
militare, avrebbe ricevuto come liquidazione un appezzamento di terra diventando
un piccolo
proprietario.
Le nuove legioni nate dalla riforma furono presto sottoposte a una dura prova:
la ribellione degli Italici che, sin dal tempo dei Gracchi chiedevano invano la
cittadinanza romana e che esasperati dall’attesa, si ribellarono e iniziarono
una sanguinosa Guerra sociale (da socii, “alleati”) che durò dal 90 all’88 a.C.
In questa guerra fratricida, Romani e Alleati italici, fino ad allora compagni
d’arme in decine di battaglie, furono costretti a combattere tra loro e ad
uccidersi. Roma vinse, ma, terminata la guerra, le campagne erano devastate e
gli uomini decimati. Inoltre, per rompere il fronte avversario, il Senato fu
costretto a concedere progressivamente a quasi tutti gli Alleati la cittadinanza
romana.
L’uomo che sconfisse gli Alleati italici si chiamava Lucio Cornelio Silla. Era
un patrizio e divenne il capo degli Ottimati.
Nell’88 a.C. Silla era con il suo esercito in Campania, pronto a salpare per
l’Oriente dove nel Ponto (attuale Turchia) c’era la rivolta del re Mitradate.
Inaspettatamente l’Assemblea della plebe gli tolse il comando e lo affidò a
Mario. Era un atto illegale, perché la plebe non poteva togliere a un console un
comando militare affidatogli dal Senato, ad esso Silla rispose con un altro atto
illegale: marciò su Roma ed entrò con le sue legioni in assetto di guerra nel
sacro recinto delle mura, cosa che la legge vietava severamente.
Allora, per la prima volta, due eserciti romani si scontrarono fra loro: i
legionari di Silla massacrarono i legionari di Mario e partirono per la guerra
contro Mitridate. Partito nell’88 a.C. per l’Oriente, Silla nell’85 a.C.
costrinse Mitridate ad arrendersi Nei tre anni della sua assenza, però,
Roma cadde di nuovo in preda ai Popolari e molti Ottimati furono trucidati con i
loro clienti; le loro teste mozzate venivano esposte ogni giorno nel Foro.
Silla tornò a Roma nell’83 a.C. e, d’accordo con il Senato, divenne il padrone
assoluto di Roma, assumendo nell’82 a.C. una carica non contemplata dalla
costituzione repubblicana: quella di dittatore a tempo indeterminato con tutti i
poteri, militari, civili e giudiziari. Questo atto incostituzionale fu una delle
tante illegalità tollerate in quel burrascoso periodo.
Mario intanto era morto e la vendetta degli Ottimati si abbatté sui Popolari con
una violenza senza precedenti. Silla infatti emanò le tavole di proscrizione,
che erano elenchi appesi nel Foro e continuamente aggiornati, contenenti i nomi
dei suoi nemici. Chiunque poteva ucciderli a vista e senza processo: non solo
non sarebbe stato punito per questo ennesimo atto illegale, ma anzi avrebbe
ricevuto una ricompensa. Morirono così 80 senatori, 1500 cavalieri e migliaia di
cittadini in tutta Italia, ai quali furono anche confiscati i beni. In base alla
riforma di Mario, parte delle terre ottenute con le confische furono distribuite
in premio ai veterani che avevano combattuto nelle legioni di Silla; molte
altre, invece, furono incamerate dagli Ottimati che lo sostenevano e dai loro
clienti.
Nell’80 a.C., soddisfatto di aver consolidato definitivamente il potere degli
Ottimati, Silla abbandonò improvvisamente la vita politica e si ritirò in una
sua villa in Campania,dove morì due anni dopo. Le Guerre civili iniziate nell’88
finirono solo nel 31 a.C., poco meno di sessant’anni dopo.
Gaio Giulio Cesare (Roma 100 ca. – 44 a.C.) nacque da una famiglia antica e
patrizia, che, tuttavia, nello schieramento politico, era di simpatie popolari.
Anche Cesare mostrò presto simpatia per il partito democratico, cui fu presto
legato anche da vincoli familiari (ancora giovanissimo sposò Cornelia, figlia di
Cinna, luogotenente di Mario), e durante la dittatura di Silla lasciò Roma per
il servizio militare in Asia Minore (81-78). Nel 68 cominciò il "cursus
honorum" in Spagna, come questore. Continuò poi come edile, accattivandosi
il favore del popolo con grandi feste e spettacoli. Due anni dopo fu eletto
pontefice massimo, la carica più alta nel sistema religioso del periodo, molto
legata alla vita politica. Nel 62, ottenne la carica di pretore; l'anno dopo, il
governo della Spagna. In questo periodo ripudiò la seconda moglie, Pompea,
perché coinvolta in uno scandalo con Clodio. Intelligentemente, trattò
quest'ultimo con mitezza, mirando all'appoggio politico che poteva trarne
dall'amicizia. Nel 60, chiese al Senato la carica di console, ma non gli fu
accordata, per via del suo irriducibile nemico Catone.
Cesare arrivò lo stesso al potere nel 59 quando fu eletto console grazie
all’alleanza con Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso che in seguito sarà
definita come "I° triumvirato": strinse cioè un accordo privato con personaggi
potentissimi, scontenti dell'atteggiamento del Senato nei loro confronti.
Divenuto console Cesare darà prova delle sue doti militari e politiche,
distinguendosi e superando qualsiasi rivale: proconsole delle Gallie nel 58, ne
intraprese la conquista, terminata nel 51.
La formidabile ascesa che portò Cesare ad essere l’uomo più potente di Roma
cominciò a procurargli numerosi nemici: il conflitto col senato e l’aristocrazia
romana e lo scontro con Pompeo sfociarono (49) in guerra civile: vinti i
pompeiani in Spagna e a Marsiglia, Cesare raggiunse lo stesso Pompeo in Grecia,
sconfiggendolo a Farsàlo (48) e soffocandone definitivamente i focolai di
resistenza.
Diventato padrone assoluto di Roma, Cesare ricoprì – talora contemporaneamente –
dittatura e consolato, attendendo ad una radicale riforma della costituzione
dello Stato.
Il 15 marzo ("idi") del 44, veniva tuttavia assassinato da un gruppo di
aristocratici di irriducibile fede repubblicana, preoccupati per le tendenze
aristocratiche e regali che Giulio Cesare andava sempre più assumendo.
Uccidendo Cesare, i congiurati avevano, per così dire, agito in buona fede.
Proclamandosi dittatore a vita, Cesare aveva inferto il colpo definitivo alla
Costituzione repubblicana, che essi ritenevano l’unica forma di governo in grado
di garantire la libertà dei cittadini, e aveva tolto ogni potere al Senato, che
essi giudicavano formato da professionisti della politica e quindi
insostituibile se si voleva amministrare con competenza lo Stato e trattare con
gli Stati esteri.
Ma
chi erano i congiurati? Erano aristocratici e senatori, cioè i rappresentanti di
una categoria che aveva approfittato delle leggi repubblicane per ottenere ogni
sorta di privilegi e le aveva spregiudicatamente infrante ogni volta che questi
privilegi erano stati minacciati da altre leggi.
I congiurati chiamavano Cesare “tiranno” e formalmente avevano ragione, visto
che egli aveva assunto tutti i poteri e governava prendendo le decisioni da
solo. Ma quale “libertà” era minacciata da questa tirannide? Secondo il
parere della plebe, la cosiddetta “tirannide” di Cesare era il governo saggio e
illuminato di un uomo che intendeva mettere ordine nel caos creato dalle Guerre
civili, porre fine alle stragi e abbattere i privilegi degli aristocratici.
Quanto alla “libertà”, per i plebei essa non era altro che l’ingiustizia
esercitata dagli aristocratici quando rubavano i campi ai piccoli proprietari o
esigevano affitti vertiginosi per gli appartamenti di stabili in rovina.
Ancora una volta la società romana era spaccata su un tema di vitale importanza.
Quando si diffuse la notizia della morte di Cesare, Roma e l’Italia si
prepararono alla rivolta. I plebei e i veterani si armarono. Il giorno dei
funerali il testamento di Cesare fu letto pubblicamente e, appena si giunse al
punto in cui, attingendo dal proprio patrimonio personale, il vincitore delle
Gallie lasciava 300 monete d’argento a testa a ogni plebeo romano a
testimonianza del suo affetto per il popolo, il furore scoppiò incontenibile.
Bruto, Cassio, Cicerone e gli altri congiurati, per evitare il linciaggio,
fuggirono precipitosamente dalla città. Contemporaneamente, contro di loro si
schierarono uno dei generali di Cesare, Marco Antonio, e il nipote e f iglio
adottivo del dittatore, Ottaviano, che si allearono con un altro amico di
Cesare, Lepido, e nel 43 a.C. diedero vita a un Secondo triumvirato che
sconfisse Bruto e Cassio nella battaglia di Filippi in Macedonia.
La loro alleanza, però, ebbe durata brevissima e già nel 31 a.C. nelle acque di
Azio, davanti alle coste greche, Ottaviano in guerra con Antonio lo sconfisse.
La battaglia di Azio segnò la fine delle Guerre civili e consegnò Roma nelle
mani di Ottaviano.
Ottaviano chiese poteri eccezionali: agì con deferenza verso le leggi e con
astuzia: ogni carica ricevuta rispettava le leggi repubblicane, ma la loro somma
trasformava il suo potere in quello di un monarca.
Tali poteri erano:
• il tribunato della plebe, che rese la sua persona “sacra e inviolabile”
e gli permise di controllare le Assemblee della plebe, dove si potevano votare
leggi senza bisogno dell’approvazione del Senato (i plebisciti);
• il proconsolato per tutto l’Impero, che gli assegnò il governo delle
province più importanti, nonché il comando supremo di tutte le legioni romane, e
gli permise inoltre di avere a sua disposizione il Tesoro dello Stato per
finanziarle;
• la carica di pontefice massimo, con la quale ebbe il controllo di tutte
le cerimonie religiose.
Con questi tre poteri Ottaviano scavalcò quello dei consoli e quello del Senato
e divenne un sovrano di fatto. Ottaviano assunse il prenome di imperatore, che
fino ad allora era stato semplicemente il titolo riservato ai comandanti
vittoriosi; quello di Cesare e come cognome Augusto, “colui che accresce”, cioè
che rende i cittadini ricchi e felici.
Stremati da tanti anni di Guerre civili, nelle quali erano stati versati fiumi
di sangue ed erano state vuotate le casse dello Stato, i Romani non
chiedevano altro che ordine, pace, sicurezza, una buona amministrazione e
risparmi garantiti. Augusto cercò di dare un segnale immediato ai cittadini con
una serie di provvedimenti urgenti che tendevano a risanare le finanze statali e
a dare sicurezza ai diseredati: congedò 300.000 legionari per rendere meno
costoso e più snello l’esercito, annullò i debiti dei privati verso lo Stato e
diede l’avvio a grandi opere pubbliche – acquedotti, templi, strade, edifici –
impiegando come manodopera i disoccupati di Roma e delle colonie italiche.
Successivamente Augusto varò una vera e propria riforma che diede una nuova
sistemazione alle categorie sociali dell’Impero. Al Senato tolse la maggior
parte dei poteri politici; però compensò astutamente i singoli senatori con
incarichi inutili ma onorifici e redditizi. Inoltre mantenne il loro diritto
ormai secolare al governo delle province. Poiché i cavalieri gli apparivano
molto più fidati, fece di loro la classe dirigente dell’Impero. A tre di essi
affidò il comando dei pretoriani, la nuova guardia imperiale che divenne
importantissima perché fu l’unico corpo militare autorizzato a percorrere armato
le vie di Roma, la prefettura dell’annona, cioè il controllo
dell’approvvigionamento di Roma, la prefettura della flotta.
La classe media, formata da mercanti, bottegai e artigiani, sostenne Augusto
perché la pace favoriva le attività e gli affari. Anche la plebe fu avvinta da
un legame strettissimo con l’imperatore, che presiedeva come tribuno le
Assemblee, organizzava i giochi del circo e, quando il prezzo del pane si alzava
eccessivamente, ordinava distribuzioni gratuite di grano.
Infine Augusto compì un gesto rivoluzionario dando importanza al ruolo dei
liberti, gli schiavi liberati che avevano curato i suoi affari di famiglia, ai
quali affidò l’amministrazione del fisco, il patrimonio personale
dell’imperatore, mentre l’erario, le casse pubbliche dello Stato,
restava amministrato dai senatori. In breve tempo il fisco divenne più ricco e
importante dell’erario. Imitato da molte casate nobili, nel giro di pochi anni,
i liberti diventarono una categoria sempre più vasta di privilegiati.
Uno degli obiettivi principali
delle riforme di Augusto era non solo la restaurazione della “pace romana”, che
avrebbe permesso agli abitanti dell’Impero, di viaggiare al sicuro lungo le sue
strade, di commerciare e di sentirsi cittadini del mondo, ma anche la
restaurazione degli antichi costumi: religiosità, austerità, coraggio,
frugalità.
Il compito di diffondere queste
virtù fu affidato a un gruppo di scrittori e di poeti selezionati dal più grande
amico di Augusto, che fu anche suo ministro: Mecenate. Nel gruppo emersero
Orazio, Virgilioe Tito Livio.
L’imperatore, tuttavia, non riuscì
a restaurare gli antichi valori morali. La società ormai si era troppo
degradata, i ricchi conducevano una vita tra agi e vizi, la plebe voleva solo
giochi e grano gratuiti, il rispetto per gli antichi dèi romani si era allentato
e molti subivano il fascino di altre religioni che venivano dall’Oriente tra cui
a breve spiccherà il cristianesimo. Accanto ai poeti di corte protetti dal
mecenatismo, cioè dal denaro e dai regali di Mecenate, ce n’erano altri, come ad
esempio Ovidio, che celebravano i divertimenti sfrenati, gli amori
extraconiugali, i banchetti che duravano sino al mattino. Augusto esiliò Ovidio,
ma non riuscì a frenare la corruzione.
Augusto morì nel 14 d.C. a 77
anni; da 57 era un protagonista della vita politica.
La fortuna che egli ebbe nella
vita pubblica si accompagnò a una grande sfortuna nella vita privata: vide
morire il figliastro e i due nipoti che amava e che aveva designato a
succedergli e alla fine dovette rassegnarsi a lasciare l’Impero al figlio di
primo letto della sua consorte, Tiberio, per il quale però non nutriva alcuna
simpatia. Egli designò quindi il proprio successore fondando una dinastia, cioè
trasmettendo il trono da una generazione all’altra. La svolta era compiuta. La
Repubblica era morta e nasceva l’“Impero” dando a questa parola non più il
valore di “province conquistate”, come aveva ai tempi della repubblica romana,
ma di “governo dell’imperatore”.
Il regno di Augusto comprende
l’anno “zero” o comunque l’anno della nascita di Gesù.
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Erode Agrippa I (6 aC-44 dC),
nipote di Erode Antippa e discendente di Erode il Grande, nominato nel
39 Re e governatore della Betania dall'imperatore Caligola (37-41
dC), riuscì ad ottenere dall'imperatore Claudio (41-54 dC) altri
governatorati (Idumea, Samaria e Giudea) fino ad estendere il suo potere
su un territorio uguale a quello di Erode il Grande.
Il territorio di Erode il
Grande, dopo la sua morte (4 a.C.), era stato diviso tra i figli
Archelao (Giudea, Samaria e Idumea), Filippo (Traconitide, Gaulanitide,
Batanea, Auranitide e Iturea) ed Erode Antipa (Galilea e Perea). Non
essendo di origine ebraica, Erode Agrippa usò la persecuzione dei
seguaci di Gesù per divenire re (41-44), su disposizione dell'imperatore
Claudio.
Da re, governò in maniera equa
e tale da essere condiviso sia dai giudei che dai romani. Dopo la sua
morte la Giudea tornò nuovamente sotto l'amministrazione romana, prima
che alcune parti venissero assegnate al figlio Agrippa II.
Erode Agrippa al fine di
ingraziarsi i giudei e farsi accettare come re (41 d.C.), fu indotto ad
avviare la prima persecuzione contro i cristiani nel corso della quale
venne catturato e messo a morte (44 d.C.) l’apostolo Giacomo (fratello
di Giovanni). Molti cristiani, per sfuggire alla persecuzione, si
dispersero in Giudea e Samaria (Atti 8), molti altri ripararono a
Damasco, in Fenicia, Cipro ed ad Antiochia che, a quel tempo, con circa
mezzo milione di abitanti, era, dopo Roma ed Alessandria, la più grande
città dell'Impero Romano.
Pietro, accompagnato da Giovanni, si mise in viaggio per somministrare, nelle
varie regioni, il battesimo ai cristiani il cui numero cresceva, iniziando dalla
Samaria, nella parte meridionale della Palestina.
In Palestina, Ponzio Pilato
(26-36 d.C.) non aveva favorito la distensione tra giudei e romani,
pertanto fu rimosso e sostituito con Marcello.
Seguì un periodo di sommosse ed
un alternarsi di procuratori romani, da Cuspio Faro (il primo dopo
Agrippa I nel 44) a Gessio Floro (64-66), il cui malgoverno, e
soprattutto il tentativo di usare a fini personali il tesoro del tempio,
causò lo scoppio dell’ira popolare. Egli la represse nel sangue
provocando la reazione dei giudei che si impossessarono della fortezza
romana di Masada, dando avvio ad una rivolta che si estese a tutta la
Palestina ed indusse l’intervento del legato della Siria, Cestio Gallio.
Questi marciò alla testa di una legione verso la Palestina, di fatto,
dando avvio alla I Guerra giudaica (66-73). Un indugio di Gallio
consentì ai giudei, posizionati dentro e fuori le mura di Gerusalemme,
di contrattaccare e mettere in fuga i romani. Nel 67 Nerone sostituì
Gallio con Vespasiano affidando a lui ed al figlio Tito l’incarico di
ristabilire l’ordine il Palestina. Riunite le legioni in Siria, da qui
ripartì l'attacco a tutte le città conquistate dai Giudei che registrò
episodi di atroci repressioni. Tutto ciò avveniva mentre a Gerusalemme i
capi zeloti mettevano a morte molti influenti personaggi ritenuti
collaborazionisti con i Romani ed a Roma dove, dopo l’assassinio di
Nerone privo di successori, si alternavano al potere, nominati dalle
rispettive legioni, prima Galba, poi Vitellio e quindi Vespasiano
(69-79). Questi, dopo la nomina, rientrò a Roma, lasciando il comando
delle operazioni in Palestina al figlio Tito (successe al padre come
imperatore, 79-81). Tito cinse d’assedio Gerusalemme dove la popolazione
favorevole ad una convivenza con i Romani era condizionata dalle fazioni
di farisei zeloti che, pur in contrapposizione fra di loro, erano
solidali nella rigorosa osservanza della legge e per il rigido
nazionalismo.
I Romani dopo aver penetrato due delle tre cinta di mura che fortificavano
Gerusalemme, subirono un contrattacco prima di riprendere un rigido assedio che
si protrasse per mesi fino a riuscire a penetrare nel tempio, dove si era
attestata l’estrema difesa degli zeloti. Il tempio, malgrado il volere di Tito,
personaggio colto e raffinato, fu incendiato dai Romani, presumibilmente dopo
che i difensori zeloti avevano già iniziato ad appiccare il fuoco per impedirne
la conquista. Il tempio fu completamente raso al suolo (70 dC), episodio che
drammaticamente segnò la storia del popolo di Israele.
Dopo la distruzione del tempio
ci vollero ancora tre anni prima di sedare i rivoltosi di cui gran parte
(5.000) furono crocefissi e riconquistare la fortezza di Masada, dove si
erano asserragliati. |
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Nel presunto anno "0" i romani,
come tutte le popolazioni europee di cui abbiamo notizia, avevano un cielo
popolato da molti dei, di aspetto, sentimenti e desideri simili a quelli umani.
L'unica importante differenza rispetto agli umani è l’immortalità e alcuni
“super-poteri” molto circoscritti (come i fulmini di Giove, i poteri sul
mare di Nettuno e quelli sull’innamoramento di Cupido). Per dopo la morte
c’erano idee abbastanza
confuse.
La religione
romana non aveva un fine escatologico,
non prospettava una vita o una salvezza dopo la morte, ma era tutta incentrata
sulla valorizzazione della via terrena e degli atteggiamenti umani.
Il regno dei morti greco/latino era, al
contrario di quello ebraico e cristiano, un vero e proprio luogo fisico, al
quale si poteva persino accedere qui sulla terra attraversando particolari
luoghi impervi, difficilmente raggiungibili o comunque segreti e inaccessibili
ai mortali
Nella tradizione greca, per esempio,
uno degli ingressi all'Ade si trovava nel paese dei Cimmeri, che si trovava al
confine crepuscolare dell'Oceano, e proprio in questa regione remota Odisseo
dovette recarsi per discendere all'Ade ed incontrare l'ombra dell'indovino
Tiresia
Nella tradizione romana, invece, uno
degli ingressi infernali si trovava vicino al lago dell'Averno, che poi divenne
il nome del regno infernale stesso, dal quale Enea discese insieme alla Sibilla
cumana.
Per quanto riguarda la geografia e la
topografia degli Inferi, Omero (nell'"Odissea") non gli dà un carattere di vero
e proprio "regno" esteso, ma lo descrive solamente come una sfera fisica oscura
e misteriosa, perlopiù preclusa ai viventi, dove soggiornano in eterno le ombre
(e non le anime) di tutti gli uomini, senza apparente distinzione tra ombre
buone ed ombre malvagie, e senza nemmeno un'assegnazione di pena o di premio in
base ai meriti terreni.
Ma le as
Solo in seguito si formò il concetto
dei "Campi Elisi", ovvero il luminoso luogo ove soggiornano in eterno le anime
pie e virtuose, senza gioia né tristezza, e il concetto del "Tartaro", cioè il
tenebroso e terribile luogo dove in eterno vengono punite le anime dei malvagi;
celebri pene del Tartaro sono quelle di Sisifo e di Tantalo.
Virgilio, successivamente narra
nell'Eneide la discesa di Enea agli Inferi e la topografia infernale raggiunge
la sua massima espressione, nonché estensione: anche il poeta latino divide gli
Inferi tra Tartaro e Campi Elisi, ma aggiunge il "Vestibolo", l'atrio infero
popolato da mostri e demoni vari e, recuperando la tradizione greco-latina,
nomina i fiumi infernali, cioè Stige, Acheronte, Flegetonte, Lete e Cocito.
Inoltre, è sua invenzione poetica la "città di Dite", ovvero la città del re
degli Inferi (Dite, appunto) che verrà ripresa nella "Divina Commedia" da Dante
Alighieri come la città del re dell'Inferno, cioè Lucifero.
Comunque, le pene del Tartaro o il
premio dei Campi Elisi non erano decisi dagli déi, bensì dai 3 giudici infernali
Minosse, Radamanto (fratello di Minosse) ed Eaco, che, in base alla condotta
morale tenuta in vita dell'ombra, le assegnavano la propria dimora eterna. Per
raggiungere il luogo dove i giudici emettevano il verdetto bisognava entrare
dall'ingresso guardato da cerbero poi raggiungere il fiume Acheronte e pagare
Caronte per essere traghettati dall'altra parte.
Il cristianesimo nasce nello
stesso periodo.
Il Cristianesimo deriva dalla
religione ebraica. Gli ebrei credono in un solo Dio e aspettano un premio o una
condanna a seguito del comportamento nella vita terrena.
Come abbiamo visto, nell’anno “0” Augusto regge saldamente ilo potere. Con lui
si inizia la tradizione che vede inseriti nell’olimpo degli dei quegli
imperatori graditi a popolo e al senato.
Questa mentalità romanica di trasformazione in nuovi Dei di grandi personaggi
sia di accettazione di Dei derivati dal culto di altri popoli ci rende l’idea di
un sentimento blando verso la religione, che assumeva spesso i caratteri della
superstizione e che si concentrava s sulla ricerca dei
favori da parte di entità ultraterrene finalizzati a scopi puramente umani
di salute, beni, potere, ecc…
Anche gli ebrei più ardenti in campo religioso, gli Zeloti, c'è
comunque attesa per le gioie terrene
Il Dio degli ebrei è lontano e inaccessibile, non si può neppure nominare,
Yahweh è unico e solo. |
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11-8 aC - 743-746 di Roma: Publio Sulpicio Quirino tiene la carica di legato in
Siria - Iniziano le operazioni
del censimento di tutto l'impero.
7-6 aC - L'angelo
Gabriele annuncia a Zaccaria la nascita di Giovanni Battista e alla Vergine
Maria
l'incarnazione dei
Verbo -Visita di Maria a Elisabetta
Nasce Giovanni
Battista - A Betlemme nasce Gesù;
6-5 aC - Gesù è
presentato al tempio - I magi lo adorano - Fugge in Egitto - Erode ordina la
strage dei bambini
4
aC - 750 di Roma, marzo: Muore Erode il Grande - Gesù ritorna dall'Egitto a
Nazareth
6 dC - 759 di Roma,
Archelao viene deposto - La Giudea diventa provincia romana.
7 dC - Gesù va a
Gerusalemme e resta tre giorni nel tempio
12 d. C - 765 di Roma,
gennaio, Augusto associa al suo governo Tiberio, nel 14 Augusto muore e subentra
imperatore Tiberio.
17 d. C Caifa
eletto Sommo Sacerdote.
26 d. C - 779 di Roma
Ponzio Pilato nominato procuratore in Palestina.
27 d. C - Ottobre
Giovanni Battista inizia la sua predicazione
28 d. C - Gennaio - Gesù riceve il battesimo
(Come
la nascita di Gesù è stata ricalcolata, così la manifestazione pubblica
di Gesù
si fa risalire al gennaio del 28 d.C)
Gennaio-Febbraio Gesù nel deserto digiuna ed è tentato dal
demonio
Marzo -
Gesù chiama i primi discepoli - Partecipa alle nozze di Canaa
31marzo Prima Pasqua - Gesù scaccia i mercanti dal tempio (Gv 2, 13-25).
Aprile -
Gesù riceve la visita di Nicodemo
Estate -
Erode incarcera Giovanni Battista
Gesù lascia la Giudea - Incontra la samaritana
Sceglie Cafarnao come sua città - Inizia la sua
predicazione
Compie numerosi miracoli - Chiama definitivamente i
primi discepoli.
Viene in urto con i farisei.
Pronuncia il suo discorso programmatico
Novembre - Gesù pronuncia le parabole del regno
Dicembre - Gesù chiamato dai discepoli a sedare la tempesta sul lago
Libera gli indemoniati di Gerasa
29 d. C - Gennaio
- Gesù guarisce l'emorroissa - Risuscita la figlia di Giairo - Viene scacciato
da Nazareth
Febbraio - Gesù istruisce i discepoli e li manda a predicare
Marzo - I discepoli ritornano dalla predicazione - Erode fa decapitare Giovanni
Battista -
Gesù moltiplica i pani per cinquemila uomini
Cammina sulle acque - Pronuncia a Cafarnao il discorso sul pane di vita
Aprile - 19: Seconda Pasqua
Gesù risana il paralitico della piscina di Betesda - Fa la sua apologia contro i
farisei -
Lascia la Giudea per andare verso la Galilea
Giugno - Gesù attraversa la Fenicia e la Decapoli - Esaudisce la donna cananea -
Moltiplica una seconda volta i pani
Luglio - A Cesarea di Filippo, Pietro proclama Gesù figlio di Dio e Gesù gli
promette il primato -
Dirigendosi poi
verso la Galilea
Gesù annuncia la sua passione .
Agosto - Gesù si trasfigura davanti a Pietro Giacomo e Giovanni - Ritornato a
Cafarnao dà alcune istruzioni
Ottobre - Gesù passa per la Perea - Manda a predicare settantadue discepoli -
Racconta la parabola del buon samaritano -
Fa visita a Marta e Maria - Insegna
il "Padre nostro" e parla della preghiera
15: Festa dei tabernacoli - Gesù nel tempio
proclama la sua missione divina - I giudei cercano di impadronirsi di lui - Decisioni
del Sinedrio nei suoi riguardi - Assolve una donna adultera
Dicembre - Festa delle encenie - Gesù ridona la vista a un cieco dalla nascita -
Proclama apertamente la sua divinità -
Lascia la Giudea per la Perea
Anno 30 d. C -
Gennaio-Febbraio - Gesù attorniato dai bambini. Pranza in casa d'un
fariseo - Compie numerose guarigioni.
Narra la parabola dei convitati, della pecorella smarrita, della dramma
ritrovata, del figlio prodigo,
del fattore disonesto, di Lazzaro e il ricco epulone, degli
operai dell'undecima ora -
Guarisce dieci lebbrosi - Annuncia la sua parusia - Parla
della preghiera umile e fiduciosa
Marzo - Gesù risuscita l'amico Lazzaro - Si ritira ad
Efraim - Si fa invitare in casa del pubblicano Zaccheo
Aprile - 1-8: Ultima settimana.
sabato 1 - A Betania, durante un banchetto, Maria profuma con aromi il capo e i
piedi di Gesù
domenica 2 - Gesù entra trionfalmente a Gerusalemme, piange sulla sorte della
città Di notte ritorna a Betania
lunedì 3 - Gesù ritorna a Gerusalemme - Maledice il fico - Scaccia i mercanti
dal tempio - Pernotta a Betania
martedì 4 - Gesù ritorna a Gerusalemme - Confonde farisei, scribi e sadducei -
Parabole dei due figli mandati a lavorare nella vigna, dei vignaioli omicidi,
del convito nuziale -
Pronuncia il discorso escatologico e preannuncia il giudizio universale
mercoledì 5 - Il Sinedrio cospira per impadronirsi di Gesù - Giuda offre la sua
collaborazione -
Gesù denuncia il mistero dell'incredulità dei giudei
giovedì 6 (14 nisan) Gesù manda Pietro e Giovanni in città perché preparino la
cena pasquale
18-19 circa: Gesù celebra la cena pasquale
19-20 circa: Gesù istituisce l'Eucaristia e s'intrattiene a lungo con gli
apostoli,
dando le ultime raccomandazioni e pregando il Padre per sé e per i suoi
21 circa: Gesù con gli
apostoli lascia il cenacolo e va al Getsemani
22 circa: Gesù inizia
la sua agonia nell'orto e suda sangue
23 circa: Gesù è
tradito da Giuda, arrestato e tradotto al palazzo dei sommi sacerdoti
venerdì 7 - 0-3
circa: Gesù davanti ad Anna e Caifa - È giudicato e condannato a morte - Pietro
lo rinnega
6 circa: Gesù compare
nuovamente davanti al Sinedrio - Giuda muore disperato .
7-8 circa: Gesù è
condotto al tribunale di Pilato per la prima volta
8-9 circa: Pilato manda
Gesù da Erode che lo deride
9-11 circa: Gesù per la
seconda volta al tribunale di Pilato - È flagellato e coronato di spine
11 circa: Gesù è
condannato e si avvia al Calvario
12 circa: Gesù viene
crocifisso
come un qualunque ribelle.
15 circa: Gesù, emesso
un grido, reclina il capo e spira
17 circa: Gesù morto
viene tolto dalla croce e posto nel sepolcro
sabato 8 - Tutti
osservano il riposo sabbatico.
domenica 9 - Gesù risorge glorioso - Appare a Maria Maddalena, alle pie donne, a
Pietro,
ai discepoli di Emmaus, agli apostoli nel cenacolo
domenica 16 - Gesù ricompare nel cenacolo per l'incredulo Tommaso
Maggio giovedì 18
- Gesù ascende al Padre |
Le aspettative si concentrano verso il messia che Dio manderà sulla terra.
Grazie a lui il popolo ebraico si imporrà su tutti i popoli.
Il cristianesimo rivoluziona l’idea ebraica di Messia e pone al primo posto tra
gli scopi dell’uomo la vita ultraterrena.
Questo rivoluziona tutta la concezione della vita: le cose terrene perdono
importanza e gli onori degli uomini sono considerati di scarso valore. Ci si
priva volentieri dei beni materiali che sono venduti e il cui ricavato viene
condiviso con i fratelli.
La perdita della vita umana, la condanna a morte, viene vissuta come un pegno
per l'aldilà. E questo perchè i Cristiani hanno ricevuto da Dio stesso,
incarnato in Gesù, la certezza di una vita ultraterrena, eterna, con premio e
castigo di entità infinitamente maggiore rispetto alle dimensioni terrene.
Nei popoli pagani invece l'attenzione e l'impegno è dedicato a due scopi:
per i poveri alla
soluzione dei bisogni primari, mangiare, bere, ripararsi, coprirsi, nel modo più
confortevole possibile
per i più ricchi
l'impegno è rivolto alle cariche, prevalentemente politiche, e agli onori
tributati dal popolo per i quali talvolta vengono fatti atti di prodigalità e
magnificenza.
Anche gli ebrei non
sono esenti dalle passioni terrene verso beni e onori e Gesù nelle sue
predicazioni non esita a condannarli.
Quando Gesù è ancora adolescente, nel 14 d.C., a Roma muore l'imperatore
Augusto e gli succede Tiberio.
Con lui ebbe inizio la dinastia
Giulio-Claudia, che regnò dal 14 al 68 d.C.
Tiberio in politica estera
inviò suo nipote Germanico in una serie di campagne militari
in cui il giovane generale sconfisse i Germani (14-16 d. C.)
che minacciavano i confini dell'impero. Improvvisamente,
Germanico morì avvelenato e a Roma si incominciò a
sospettare che fosse stato Tiberio a dare l'ordine.
In politica interna Tiberio inaugurò la prima banca di Roma
dove fu nascosto il tesoro romano.
Dopo la presunta accusa contro di lui di aver ucciso
Germanico, Tiberio si trasferì nella sua villa a Capri
A Roma il potere era
sempre più nella mani di Seiano, capo dei pretoriani, gli
unici soldati autorizzati a presidiare Roma per difendere
imperatore e senato. Seiano si servì del potere accumulato
per creare un suo partito e tentare un colpo di stato.
Quando Tiberio venne a sapere della congiura fece uccidere
Seiano. Gli storici antichi hanno tramandato un giudizio
molto critico di questo imperatore anche se il suo
principato fu tutt'altro che negativo.
La dinastia Giulio-Claudia espresse
quattro imperatori: oltre a Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. I loro regni
furono nel complesso tormentati ed ebbero spesso un epilogo drammatico: gli
ultimi tre morirono di morte violenta; di essi Caligola (37-41) era pazzo e
anche Nerone mostrò segni di squilibrio.
Inoltre il Palazzo imperiale dove risiedeva la corte, cioè il gruppo dei
familiari, degli amici, dei collaboratori del principe, divenne un luogo infido
nelle cui stanze parenti, senatori, pretoriani, liberti ordivano congiure e dove
il principe viveva sospettando i suoi collaboratori più stretti e i suoi amici
più intimi.
Insomma, era solido il regime imperiale, ma non era tranquillo l’imperatore, che
sentiva la propria persona eternamente minacciata e in pericolo.
Alla morte del giovane Caligola, l'Impero passa
a suo zio Claudio, l'imperatore dimenticato (41-54). Costui si distingue per un
proprio stile di governo estremamente dimesso, essendo il suo un principato
privo o quasi di eventi politici appariscenti. A ciò principalmente è dovuta la
bassa stima che i suoi contemporanei tendono a riservargli, oltre che la scarsa
risonanza del suo regno presso i posteri. Eppure, nonostante una tale
'invisibilità', la sua gestione dello stato sarà molto oculata, e perfino
astuta.
Il personaggio più controverso della
dinastia Giulio-Claudia fu Nerone (54-68), che divenne imperatore a diciassette
anni e che, dopo qualche anno di governo equilibrato si abbandonò ad atti
crudeli e |
|
Ma come si svolge questa vita
quotidiana su cui i popoli sono così concentrati?
A Roma, soprattutto nel periodo
imperiale, la vastità e lo splendore del centro monumentale,
contrastavano nettamente le zone destinata alla residenza di una
popolazione troppo numerosa, e quindi costretta ad ammassarsi sempre di
più.
La
crescita della popolazione portò a tipi di abitazione che si
sviluppavano in altezza, le insulae, chiamate anche caseggiati, che
sostanzialmente erano le case dei poveri. Il caseggiato a pianta
quadrangolare, conteneva un giardino o un cortile. Gli appartamenti, si
affacciavano sull’esterno con finestre senza vetri e balconi, mentre
nella facciata si aprivano varie botteghe. Il piano terra era occupato
da inquilini benestanti, e talvolta dal proprietario dell’insula. Le
condizioni di vita degli inquilini non erano buone; infatti lo spazio
era limitato e i mobili erano pochi: un tavolo, qualche panca, e qualche
sgabello. Negli appartamenti, non esistevano camini, e quindi per
riscaldarsi o cucinare, si faceva il fuoco con il braciere.
In inverno l’olio delle lucerne era molto costoso, perciò si doveva
scegliere se stare al freddo o al buio.
La DOMUS invece, l’abitazione
dei ricchi, era quasi sempre a un solo piano.
La sua prima parte era il
VESTIBULO, aperto sulla strada; la seconda parte, più interna, era
chiamata FAUCES ( imboccatura della casa ). Lungo il vestibolo nelle
case più ricche si potevano trovare statue e portici. Oltre all’entrata
principale della domus, ne esisteva una di servizio, chiamata POSTICUM,
che si affacciava su di un vicolo, da dove passavano gli schiavi, ma
anche di nascosto il padrone di casa, quando non voleva essere
disturbato. Un elemento caratteristico delle prime domus era l’atrio, un
ampio cortile, che in età antica era l’ambiente più importante della
casa. In esso infatti era collocato il focolare domestico e qui il padre
di famiglia amministrava il suo potere. Con l’ampliamento della casa, la
vita familiare si sposterà verso gli ambienti più interni. Al centro
dell’atrio, si trovava l’IMPLUVIO. Esso era collegato ad una cisterna
che era utilizzata per tutti i lavori domestici e con il passare del
tempo diventerà un elemento decorativo. Nelle prime domus, i pasti si
consumavano nel TABLINO o in un locale chiamato CENACOLO; Per entrare in
questi ambienti non c’era un porta, ma una tenda. Dal 3° secolo nella
domus viene introdotto il peristilio, un giardino circondato da un
portico a due piani sostenuto da colonne. Con il passare del tempo esso
diventerà un elemento decorativo. Nell’Italia settentrionale, però
spesso, la domus a causa del clima, non è così aperta verso l’esterno:
mancavano infatti il portico e il peristilio.
Vicino al peristilio erano situate alcune stanze; tra queste la più
conosciuta è il triclinio, che serviva unicamente come sala da pranzo.
La cucina non si trovava in un luogo preciso della domus; essa si
trovava nei sottoscala, o in un angolo dell’atrio. IL pavimento della
cucina era sempre di terra battuta. Un tempo il bagno era soltanto un
piccolo ambiente chiamato LAVATRINA. Successivamente verso la metà del
3° secolo, si costruì un’apposita stanza chiamata BALNEUM, che significa
bagno. Nelle case più antiche la porta era rettangolare ed era preceduta
da uno scalino; sopra ad esso, era situato un architrave di pietra. Con
il passare del tempo la porta divenne più elegante, e si arricchì di
capitelli. Le finestre rivolte verso l’esterno erano poche e piccole,
per evitare che entrassero in casa i rumori e gli odori della strada,
erano irregolari e non avevano una cornice esterna.
A Roma, come ad Atene, gran parte della vita soprattutto degli uomini,
trascorreva all’aperto o negli edifici pubblici che offrivano spesso
gratuitamente tutti quei servizi e quelle comodità assenti nelle case.
Le fontane e latrine pubbliche erano molto numerose, e in tutti i
quartieri vi erano terme, particolari edifici dove si trovavano oltre
alle piscine, e ai locali per la sauna e il massaggio, anche palestre,
biblioteche, e locali per lo studio e la conversazione. Molto
probabilmente però, fu soltanto durante il regno dell’imperatore NERONE
che gli architetti idearono le prime grandi terme
articolate secondo regole
assiali e di simmetria, che divennero poi canoniche per questi tipi di
edifici. La nuova pianta delle terme neroniane in campo marzio era
caratterizza da due assi incrociati ad angolo retto, con la sequenza
degli ambienti più importanti lungo uno dei due assi e la duplicazione
degli ambienti minori e complementari in posizione simmetrica lungo
l’altro asse. Il principio di simmetria fu confermato dalle terme di
TITO, completate nell’80 d.C. sui resti della famosa DOMUS AUREA, la cu
i pianta ci è nota da un disegno del PALLADIO. Il passo successivo fu
l’inserimento dell’edificio balneare così strutturato all’interno di una
vasta area, aperta e delimitata da un ampio recinto con portici, che
ospitava numerose ambienti e spazi variamente attrezzati con variazioni
diverse da quelle propriamente balneari: biblioteche, auditori, sale di
lettura, di esposizione e di ritrovo. Così si presentano le terme di
Traiano sul colle Oppio, che furono inaugurate nel 109 d.C., estese
originariamente su una superficie di circa 110.000 m2. Le terme di
Caracalla e quelle di Diocleziano (III secolo) rappresentano il culmine
dell'evoluzione di questo tipo edilizio;
I romani dedicavano il tempo all’igiene, alla pulizia, e alla cura del
proprio corpo, soprattutto il pomeriggio, mentre al mattino al risveglio
non si lavavano, o lo facevano molto sommariamente.
La giornata iniziava ancor
prima dell’alba, intorno all’aurora, sia per i ricchi che per i poveri e
appena levati dal letto gli uomini erano in pratica pronti per uscire:
dormivano nello stesso vestito usato di giorno, la semplice tunica, e
per essere pronti bastava loro calzare i sandali, coprirsi con un
mantello, o drappeggiarsi con la toga ( in genere serviva per stipulare
incontri importanti, o se si doveva comparire in una pubblica cerimonia
). La colazione era un semplice bicchiere d’acqua, mentre alle abluzioni
era dedicato il pomeriggio. Anche la cura dei capelli e del viso
avveniva fuori casa, nelle botteghe dei barbieri sparse ovunque. Dai
tratti e dai dipinti gli storici sono stati in grado di sapere che fino
al secondo secolo a.C. molti romani portarono la barba, come i greci
prima di Alessandro, ma poi per circa quattro secoli l’uso divenne
quello di tenere i volti rasati. Una volta usciti, ognuno si recava a
tendere omaggio al proprio patrono. Quest’ultimo riceveva i propri
clienti in ordine di importanza, e ai più poveri faceva dare cibo da
portare via in una sporta o direttamente dei soldi. L’abitudine al
regalo in denaro era così diffusa, che in pratica veniva a stabilirsi
una specie di tariffa, uguale per tutti. I poveri per integrare il
proprio bilancio, si recavano ogni giorno dal loro patrono, ma anche i
più ricchi dovevano ogni tanto rendere omaggio a chi era ancora più
potente di loro, secondo una gerarchia che aveva in cima l’imperatore.
Dopo la cerimonia dell’omaggio, la giornata poteva essere molto di versa
per chi viveva da ozioso e per chi doveva lavorare.
Gli sfaccendati, avevano come
meta preferita i FORI: là incontravano gli amici, commentavano i fatti
del giorno, potevano assistere ai numerosi processi che si svolgevano
nelle basiliche e che richiamavano sempre una folla variopinta in cui si
mescolavano accusatori ed imputati, avvocati, testimoni molto curiosi e
persino spettatori per applaudire o fischiare i discorsi più importanti.
Per i poveri che non si accontentavano delle elargizioni gratuite di
grano c’era la cura degli affari, o il lavoro nell’infinità delle
botteghe che producevano o vendevano ogni genera di merce. Artigiani e
venditori appartenevano a diverse collegia, cioè associazioni di
mestiere che riunivano coloro che svolgevano la stessa attività. Gli
scavi archeologici di Ostia, vicino Roma hanno riportato alla luce le
sedi e le insegne di circa 150 diverse associazioni, tra cui, ad
esempio, tre per i calzolai, distinte a seconda del tipo di calzatura
prodotto, a riprova di un livello molto elevato di specializzazione e di
divisione del lavoro. In tutte le attività però era fondamentale il
contributo degli schiavi, che nella Roma antica differirono in modo
significativo rispetto al modello greco. Innanzitutto perché i
proprietari ebbero più potere sugli schiavi, ma soprattutto perché il
complesso sistema economico e sociale di Roma per funzionare richiese,
soprattutto in età imperiale, molta più manodopera di quanta non ne
fosse stata impiegata in Grecia. Le continue conquiste territoriali e la
conseguente espansione dei confini resero infatti necessario un
imponente numero di schiavi per far fronte alle necessità del lavoro
agricolo e delle costruzioni; il loro reclutamento avveniva soprattutto
durante le guerre, quando decine di migliaia di prigionieri catturati in
battaglia venivano portati a Roma come schiavi e venduti. La
legislazione romana fu tuttavia la prima a contemplare la possibilità di
restituire allo schiavo la dignità di uomo libero; la restituzione della
libertà attraverso l'istituto della manumissione, molto diffuso
soprattutto tra le famiglie patrizie, permise ai liberti (tale era il
nome degli ex schiavi) di assurgere talvolta a ruoli di notevole
importanza, come accadde a Tirone, segretario di Marco Tullio Cicerone,
o al commediografo Terenzio. Nel patriziato romano era inoltre pratica
diffusa affidare l'educazione e l'istruzione dei figli a schiavi greci
eruditi, il cui prezzo poteva superare di 700 volte quello di uno
schiavo comune.
Dopo la quotidiana visita
alle terme, si svolgeva il pasto principale della giornata, la cena: di
solito, questa prevedeva tre portate, tutte con l’accompagnamento di
vino, ma a seconda della condizione sociale e dell’occasione, come è
ovvio, cibi e bevande potevano variare molto. A parte i grandi
banchetti, che potevano protrarsi per molte ore, in genere la cena
terminava prima che fosse notte fonda, perché per gli ospiti era
pericoloso avventurarsi nelle strade non illuminate e perché, in ogni
caso a parte i più inguaribili oziosi, la giornata faticosa o meno,
ricominciava per tutti con l’aurora.
Divertimento e spettacoli - La giornata lavorativa del romano anche per
chi aveva un’occupazione stabile, non andava oltre le sei sette ore e
finiva a mezzogiorno: ogni giorno quindi, la gran parte dei cittadini
disponeva di molto tempo libero. Inoltre le feste erano molto numerose
perché nel tempo, ai dies festi, cioè ai giorni festivi consacrati alle
diverse divinità, si erano aggiunte molte feriae publicae, celebrazioni
di ricorrenze pubbliche, sempre più frequenti da AUGUSTO in poi perché
ogni imperatore voleva celebrare la propria gloria con feste
particolari, ora per ricordare una vittoria, ora per festeggiare il suo
compleanno o l’anniversario dell’ascesa al trono. Queste di solito si
aggiungevano alle precedenti e potevano durare diversi giorni, tanto che
alcuni studiosi hanno calcolato che a Roma durante l’impero per ogni
giorno lavorativo ce ne fossero quasi due di festa: era una condizione
di eccezionale vantaggio, resa possibile solo dallo sfruttamento dalle
ricchezze provenienti dalle province. In occasione delle feste si
svolgevano cerimonie religiose e venivano organizzati intrattenimenti di
vario tipo: come per i greci, anche per i romani questi due aspetti
erano strettamente connessi: ogni spettacolo veniva aperto da
processioni e sacrifici e il pubblico voleva assistervi indossando
l’abito da cerimonia, la toga. Le corse e i duelli dei gladiatori, i due
divertimenti più seguiti, avevano un’origine sacra: sappiamo al ritorno
i un esercito vittorioso venivano sempre organizzate gare di cavalli, in
cui si immolava l’animale vincitore per ringraziare gli dei; da un rito
propiziatorio derivavano anche i combattimenti dei GLADIATORI: questi
nei primi tempi si svolgevano solamente durante i funerali di personaggi
importanti e avevano lo scopo di placare gli dei degli inferi
sacrificando in loro onore la vita dei combattenti, come dimostra anche
il termine munus, cioè “ offerta” con cui venivano chiamati questi
spettacoli. |
insensati, come l’uccisione della sua
stessa madre, Agrippina. Alla fine le legioni si sollevarono contro di lui ed
egli si tolse la vita.
Nerone ebbe molte colpe, ma la pessima valutazione che ci rimane della sua
personalità è dovuta principalmente al colossale incendio che nel 64 d.C. colpì
Roma distruggendo interi quartieri della città. In quell’occasione Nerone si
comportò in realtà responsabilmente,
allestendo i soccorsi e una tendopoli
per ospitare le migliaia di senza tetto. Eppure circolò la voce, molto
probabilmente infondata, che egli fosse l’autore dell’incendio perché voleva
radere al suolo catapecchie e casupole e costruirsi una reggia magnifica, la
cosiddetta Domus Aurea, “casa d’oro”.
Per difendersi da queste accuse, Nerone le ritorse sui membri di una piccola
sètta religiosa che, dal nome del dio in cui credevano, Gesù Cristo, furono poi
chiamati cristiani. Li fece arrestare e li condannò a supplizi atroci nel circo,
di fronte alla folla romana, sempre avida di scene cruente. Quando crebbero e
divennero potenti, i cristiani non dimenticarono questa ingiusta e assurda
persecuzione e contribuirono a dipingere Nerone come una belva sanguinaria.
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Il
Vangelo è termine greco che corrispondente a lieta novella. Il vangelo
nasce dalla necessità di soddisfare il bisogno religioso delle comunità
di credenti, riferisce sugli eventi della vita di Gesù, (racconti,
testimonianze, preghiere) trasmessi a viva voce dagli stessi Apostoli e
quindi ordinati, tra il 50 e 180 dC in forma letteraria. Il Vangelo
presenta la figura di Gesù non tanto come è apparsa agli abitanti della
Palestina, durante la sua vicenda terrena, ma come essa fu recepita
dalla fede dei discepoli dopo la resurrezione.
Il Vangelo è costituito da
quattro unità, attribuite agli apostoli Matteo e Giovanni ed ai
discepoli Marco e Luca. Di esse, quelle riferite a Matteo, Marco e Luca
presentano tali analogie da essere considerati sinottici in quanto,
nello stesso ordine, riferiscono la medesima narrazione degli eventi
della vita di Gesù. Quello di Giovanni si discosta dai precedenti.
Le comunità dei credenti
(Chiesa) stabilirono (II sec), tra la tanta letteratura apocrifa
prodotta, quali testi dovessero ritenersi
autentici e portatori della verità su Cristo.
Dopo l'umiliante morte di Gesù lo sgomento si era diffuso tra le comunità dei
suoi seguaci, incapaci di percepire come il “Messia” (dall’ebraico mashi ah:
unto; dal greco,Chistos) cioè il re o salvatore, quel Gesù Cristo crocifisso.
Ma il Cristo morì fu sepolto e fu risuscitato il terzo giorno, secondo
le Scritture e apparve a Cefa e poi ai Dodici gli Apostoli rimasti in 11,
cioè:Simone, detto Pietro e Andrea suo fratello, Giacomo, figlio di Zebedeo e
Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano;
Giacomo di Alfeo e Taddeo; Simone il Cananeo (soprannominato Zelota)
Giuda Iscariota, quello che
tradì è gia morto.
Prima dell'ascensione al cielo,
vengono indicate varie apparizioni di Gesù risorto, talvolta a molti
discepoli contemporaneamente (si parla di 500).
Dopo la resurrezione di Gesù, Mattia fu aggregato agli undici
Apostoli. I dodici divennero una realtà socio-ecclesiale in cui emergeva Pietro
a cui Gesù aveva detto: ..Io ti dico, Tu sei Pietro e su questa pietra
edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa.
Ti darò le chiavi del Regno dei cieli (Matteo 16, 18-19).
Il primo vangelo è quello di
Matteo
(Levi, secondo Marco 2, 14 e Luca 5, 27) un esattore di imposte di
Cafarnao, che al richiamo di Gesù, "seguimi", abbandonò tutto e si pose
al suo seguito. Il suo vangelo originale, scritto in aramaico (intorno
al 60 dC) durante un soggiorno in Palestina o ad Antiochia (Siria),
ancor prima del Vangelo di Marco, è andato perduto.
La versione giunta a noi, in
greco, dovrebbe essere stata redatta intono al 70-80 dC. E’ il primo ad
essere divulgato e risulta il più completo dei quattro. Matteo imposta
la sua dottrina nella dimostrazione che, con Gesù, si compiono i
vaticini dell'Antico Testamento riguardanti il Messia, fondatore di un
nuovo Regno dei celi, per farne parte è necessaria una giustizia
superiore a quella degli scribi e dei farisei.
Marco, autore del secondo
vangelo, non fu apostolo di Gesù ma discepolo di Barnaba e Paolo e, durante la
prigionia di quest’ultimo, discepolo e segretario di Pietro. Il suo Vangelo,
scritto presumibilmente a Roma intorno al 65-70 dC, è interprete della
predicazione di Pietro ed essenzialmente impostato sull’annuncio della lieta
novella. Il Vangelo di Marco è ritenuto più antico ed è stato utilizzato da
Matteo e da Luca che lo completarono con parti proprie. Nell’ultimo secolo, è
stato rivalutato per la sua originalità. Sembra che Marco sia morto martire in
Egitto al tempo dell’imperatore Traiano (98-117)Luca,
terzo evangelista, medico di Antiochia, si convertì verso il 40 dC e fu
discepolo e compagno di Paolo che seguì a Gerusalemme, Cesarea e Roma. Sembra
sia morto in Bitinia, dove si recò dopo la morte di Paolo. Egli, di autentica
formazione ellenista, nel suo Vangelo redatto in Antiochia o in Grecia verso il
70 dC, narra un’infanzia di Gesù diversa da quella narrata da Matteo. Egli
completa l’informazione con la stesura (presumibilmente negli anni 80) degli
Atti degli Apostoli, fondamentali per la conoscenza del cristianesimo in quanto
forniscono notizie sulle prime comunità cristiane (Chiesa), sulla predicazione
di Paolo e sul Concilio di Gerusalemme.
Le due stesure formarono un’opera unica fino al 175 dC, allorché, nel riunire i
quattro vangeli, si tenne separata quella che appunto oggi è conosciuta come
Atti degli Apostoli.
Giovanni, quarto
evangelista, è il discepolo che Gesù amava, pescatore e molto amico di
Pietro. Molti studiosi ritengono che l’estensore dell’ultimo Vangelo (fine del I
sec.), diverso dagli altri per finalità e contenuti (fa svolgere il ministero di
Gesù in Giudea anziché in Galilea) ha fatto ritenere che a redigere il testo non
sia stato l’apostolo ma un suo discepolo. Si sa poco del suo apostolato. Forse
si fermò a lungo in Palestina (probabilmente fino alla morte di Maria SS), poi
andò ad Antiochia, quindi ad Efeso dove probabilmente fu scritto il Vangelo e
dove morì in età avanzata. A Giovanni viene attribuita la stesura
dell'Apocalisse, unico libro profetico del NT, redatto dopo la persecuzione dei
cristiani da parte di Domiziano (81-96) ed in cui si esprime l’apprezzamento per
coloro che testimoniavano con il martirio la fede in Cristo. Giovanni in questo
ultimo libro del NT riprende la tradizione apocalittica (narrazione attraverso
la visione) giudaica del libro di Daniele del AT che sviluppa una visione
drammatica della storia concepita come scontro perenne tra i giusti ed i
peccatori. Testo di difficile interpretazione che vuole tracciare la storia
della Chiesa attraverso profezie e visioni degli avvenimenti finali, tra cui il
secondo avvento di Cristo, e simboleggia con due bestie il potere politico e
quello religioso. A Giovanni sono anche attribuite tre brevi Lettere indirizzate
a pagani convertiti e di cui la prima risulta assai simile al Vangelo.
La storia della Chiesa incomincia con la morte di Gesù e si fonda sulle
apparizioni immediatamente seguenti. Tuttavia le vicende che, negli anni
immediatamente successivi coinvolsero apostoli e discepoli, sono ricostruite per
deduzione in quanto i Vangeli non presentano uno sviluppo cronologico,
I Discepoli di Gesù, dopo la
sua morte, secondo le indicazioni ricevute (Ma dopo che sarò risorto vi
precederò in Galilea; Marco 14, 28) si recarono in Galilea dove, a
seguito della terza apparizione, si consolidò nella loro mente la
convinzione che la morte di Gesù non rappresentasse soltanto la tragica
conclusione della sua vicenda umana ma che essa, seguita dalla
resurrezione, raffigurasse il passaggio ad una forma diversa di
esistenza, identificando Gesù con quel Figlio dell'uomo profetizzato da
Daniele (7, 14). Identificazione che Gesù stesso accreditò rispondendo
al sommo sacerdote Caifa, durante l'interrogatorio davanti al Sinedrio.
Con l’identificazione di Gesù quale Signore e Cristo, avvenuta nel
giorno della Pentecoste, si realizzò quel passaggio che diede origine
alla nascita ufficiale della Comunità di Dio (ekklesia tou theou), la
Chiesa, cioè di quell’assemblea di credenti che, considerandosi fratelli
accomunati dall’insegnamento di Gesù (amatevi gli uni gli altri, come io
ho amato voi; Giovanni 13, 34; Marco 12, 31), impostarono la loro azione
quotidiana all’accoglienza
di chiunque, senza distinzione etnica o sociale, alla pratica della solidarietà
verso deboli ed i bisognosi.
Da quel momento, Pietro, nominato capo dei dodici apostoli, assunse un ruolo
guida nel collegio apostolico la cui funzione era di salvaguardare l’unità della
comunità e garantire, nella predicazione, l’autenticità degli insegnamenti e
dell’opera del Maestro. Egli, con i discepoli e i nuovi proseliti, divenne
promotore del movimento di diffusione della buona novella. Diffusione che,
trovando scarsa accoglienza tra gli ebrei, si indirizzò verso i gentili.
Il ritmo di adesione alla nuova religione divenne particolarmente coinvolgente
ed alle prime comunità cristiane sorte a seguito della diretta predicazione del
Gesù-terreno, incontrato in Galilea ed a Gerusalemme, si aggiunsero le nuove
comunità che necessariamente ebbero un approccio diverso accostandosi
direttamente alla fede del Gesù-risorto.
Le comunità si moltiplicarono, allorché il movimento di Pietro fu affiancato da
un ebreo ellenista, figlio di un sellaio, Paolo di Tarso che, convertitosi nel
periodo immediatamente successivo a quello di fondazione della nuova religione,
divenne il più importante evangelizzatore e diffusore della catechesi,
consistente nella predicazione del regno di Dio e della redenzione del genere
umano ad opera di Cristo, al punto da essere individuato quale secondo fondatore
del cristianesimo.
Pietro cadde vittima nel corso
della persecuzione anticristiana (64 dC) favorita dall’imperatore
Nerone.
Tertulliano (160-220), cita un
istituto imperiale che, emanato da Nerone in occasione dell’incendio di
Roma, rese illecita la religione cristiana (non licet esse christianos;
Ad Nationes I, 7, 14). Si ipotizza, inoltre, che una tale norma
anticristiana possa risalire ai tempi dell'imperatore Tiberio(14-37 dC)
allorché il senato, avendo rifiutato la proposta di riconoscimento
della religione cristiana, di fatto proibisse il cristianesimo.
Lo stesso Tertulliano (Apologetico 7, 1; 10, 1) ricorda i vergognosi crimini
(infanticidi, incesti, ecc.) di cui erano sospettati i cristiani e le modalità
con cui vennero condotti i processi contro di loro dove, contrariamente alle
procedure, ad essi non veniva consentita facoltà di discolparsi né venivano
ricostruite le circostanze del crimine. Le pene subite dai perseguitati di
Nerone furono quelle prescritte per gli incendiari, consistenti nel farli ardere
cosparsi con liquidi infiammabili, esporli, coperti da pelli animali,
all’aggressione di belve feroci o affiggerli alle croci. |
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Con Nerone si estinse la dinastia
Giulio-Claudia e, dopo un anno di lotte per la successione, salì al potere
Flavio Vespasiano (69-79), che diede inizio alla dinastia Flavia. cui gli
succedettero nel tempo i suoi due figli Tito (79-81 sotto il suo comando, nel 70
dC venne distrutto il secondo tempio di Gerusalemme) e Domiziano e che
restituì alla carica imperiale prestigio e potere, poi compromessi dal pessimo
regno di Domiziano (81-96).
Gli anni in cui regnarono i Flavi furono caratterizzati da un lato dal
consolidamento dei poteri assoluti dell’imperatore, dall’altro da una serie di
ribellioni nelle province.
Nello stesso periodo una gravissima
catastrofe colpì la Campania: nel 79 d.C. una terribile e improvvisa eruzione
del Vesuvio distrusse Ercolano e Pompei.
In pochi minuti morì l’intera
popolazione e le due città scomparvero sotto cumuli di cenere e lapilli. Un
vento di nord-ovest, una vera e propria “brezza mortale”, portò per 100 km la
nube di cenere verso l’Italia meridionale, passando dal Golfo di Napoli.
Dopo la dinastia Flavia cambiò radicalmente il modo di scegliere l’imperatore.
Fu abbandonato il principio dell’ereditarietà, che aveva portato al potere
troppi personaggi indegni, e fu usato il sistema romano dell’adozione, con cui
l’imperatore in carica sceglieva il proprio successore tra i suoi collaboratori
più saggi e validi. Fu il caso degli imperatori del II secolo, che vengono
ricordati proprio come gli imperatori adottivi; due di essi, Traiano e Adriano,
erano di origine spagnola, quindi dei provinciali, segno che l’accesso alle più
alte cariche dell’Impero diventava meno rigido e non era più riservato alla
nobiltà romana o italica. Il II secolo d.C. si aprì con le grandi
conquiste dell’imperatore Traiano (98-117) che, riprendendo la politica
aggressiva abbandonata dagli imperatori precedenti, tra il 101 e il 106 d.C.
invase la Dacia (l’odierna Romania) e la striscia settentrionale dell’Arabia,
rendendole entrambe province romane.
Con queste ultime acquisizioni l’Impero
romano raggiunse la sua massima estensione.
Traiano fu imperatore di indiscusso
prestigio, dotato di equilibrio, realismo e rispetto della tradizione: cordiale
ed aperto informò la sua azione all’etica del bene pubblico, mostrando fermezza
e decisione nel perseguire i suoi programmi. Con lui Roma concluse la sua
politica di attacco per conquistare il mondo e si pose in difesa, preoccupata di
conservare i risultati raggiunti e di respingere i tentativi dei popoli vicini
di sfondare il limes, cioè la lunga linea fortificata che proteggeva la pace e
la tranquillità dell’Impero.
Sotto Adriano (117-138), che fu per altri versi un imperatore pacifico,
tollerante e amante dell’arte, una rivolta giudaica fu soffocata nel sangue tra
il 132 e il 135 d.C. Da quel momento iniziò la diàspora degli Ebrei, cioè la
loro emigrazione dalla Palestina
Il I e il II secolo d.C. furono un’epoca di benessere e di prosperità alla fine
del II secolo, invece, questa tendenza si invertì bruscamente, precipitando
l’Impero nella crisi.
E' il periodo degli Antonini che inizia
con Antonino Pio (138-161). Adottato da Adriano quasi in punto di morte,
Aurelio Antonino, passato alla storia come il Pio, per l'immagine da lui fornita
di se stesso come di un Imperatore interamente dedito al bene dei propri
sudditi, ascende al principato nel 138, a quarantadue anni. Fondamentalmente
Antonino non apporta modifiche all'orientamento di Adriano: persegue infatti una
politica di pace sia all'interno che all'esterno, e di consolidamento
dell'Impero a livello organizzativo.
Anche il suo successore Marco Aurelio (161-180), fu un uomo saggio e moderato
che ispirava il suo principato al rispetto per la cultura e alla tolleranza
Nonostante questo e quasi contemporaneamente, i Parti e i Germani cominciarono
ad attaccare il limes da sud-est e da nord, stringendo i territori romani come
nella morsa di una tenaglia. I Romani chiamarono barbari questi popoli, dal
greco, termine che indicava chi parlasse in modo incomprensibile, cioè una
specie di "bar-bar-bar”.
Per arginare gli attacchi Roma fu costretta a mobilitare un altissimo numero di
uomini, ma la guerra su due fronti si rivelò fin da subito un’impresa disperata
destinata prima o poi al fallimento.
La situazione precipitò nel III secolo a causa del dilagare di un nemico ancora
più subdolo: la peste bubbonica.
L’epidemia aggredì prima l’Impero dei Parti, dove arrivò lungo la Via della
seta, il percorso delle carovane che portavano in Persia questa stoffa preziosa
dalla lontana Cina. La malattia venne veicolata dai topi, che spesso viaggiavano
al seguito dei mercanti, dei marinai
e di altri viaggiatori. Il bacillo, trasmesso agli uomini, si diffuse con grande
facilità, soprattutto in luoghi affollati e poco igienici come gli accampamenti
militari o le città carovaniere.
La peste contagiò quindi i legionari romani durante gli scontri con i Parti
lungo il confine sud-orientale e ben presto si diffuse in tutto l’Impero,
determinando un brusco e gigantesco calo demografico; alcuni storici
contemporanei affermano che metà degli abitanti dell’Impero fu uccisa dalla
malattia.
Ne rimase vittima lo stesso imperatore Marco Aurelio, mentre si salvò il suo
medico, il famosissimo Galeno.
Attaccati su due fronti, decimati dalla peste, i Romani non poterono evitare la
crisi economica, che durò per tutto il III secolo d.C.
Gli imperatori furono costretti a imporre tasse elevatissime per poter sostenere
le spese della difesa dei confini, che impegnava un numero enorme di soldati,
armi, attrezzature, macchine da guerra, vettovaglie. Queste tasse erano
necessarie per la sicurezza stessa dei cittadini, minacciati dai barbari, ma
colpivano una popolazione stremata dalle guerre e dalla peste, aggravando
situazioni già notevolmente compromesse.
Nelle campagne la “villa” coltivata dagli schiavi aveva praticamente cessato di
esistere, perché, essendo finite le guerre di conquista, non si facevano più
prigionieri da vendere nei mercati. I coloni liberi, gli unici rimasti a
coltivare la terra, non ressero alla pressione delle nuove tasse e molti si
diedero alla macchia; di conseguenza, anche i loro campi restarono incolti
mentre le strade venivano infestate da banditi, pronti a uccidere per un pezzo
di pane.
Nelle città la situazione era altrettanto drammatica, perché dalle campagne non
arrivava più cibo sufficiente e ciò determinò un incontrollato aumento dei
prezzi. I poveri si ammalavano e morivano, aggravando il calo demografico, ma
anche i ricchi si impoverirono e cessarono di elargire denaro per restaurare
edifici pubblici, organizzare giochi e spettacoli. L’unico atto importante, in
questo sfacelo, fu compiuto da Caracalla, un imperatore che nel 212 d.C. estese
la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’Impero. Con questo atto l’Impero
romano fu l’unico grande impero della storia a concedere la piena cittadinanza a
tutti i suoi sudditi.
Non tutti gli imperatori si arresero di fronte al crollo delle istituzioni,
dell’economia e della stessa potenza militare dell’Impero.
Verso la fine del III secolo il più determinato a trovare nuove soluzioni fu
Diocleziano (284-305), un imperatore nato in Illiria, sulla costa slava del Mare
Adriatico, che varò una serie di grandi riforme nel tentativo di restituire vita
ed energia all’Impero Romano.
Diocleziano aumentò il numero dei legionari nell’esercito, sottopose le tasse a
un controllo ferreo
bloccando
la corruzione e l’evasione e impose un calmiere per frenare l’aumento dei
prezzi. Inoltre, ritenendo che il cristianesimo minacciasse l’autorità divina
dell’imperatore, scatenò contro i cristiani la più violenta di tutte le
persecuzioni. Soprattutto però promulgò due leggi che ebbero conseguenze
decisive nei secoli successivi.
Con la prima legge Diocleziano cercò di arginare la fuga dei contadini dalle
campagne, e a questo scopo proibì agli agricoltori e ai loro figli di cambiare
lavoro, legando ciascuna famiglia alla sua terra per sempre, da una generazione
all’altra. Questa legge determinò la cosiddetta servitù della gleba (dove gleba
significa “zolla”).
Con la seconda, nel 286, divise l’Impero romano in due parti, Impero d’Oriente e
Impero d’Occidente, ciascuna governata da un proprio imperatore, chiamato
“Augusto”, coadiuvato dal suo successore, chiamato “Cesare”. La divisione
dell’Impero fu dettata dalla convinzione che un uomo solo non riuscisse più a
governare un territorio tanto esteso e gravato da tanti problemi; il sistema
degli “Augusti” e dei “Cesari”, chiamato tetrarchia o “governo dei quattro”, fu
elaborato nella speranza che, alla morte o al ritiro degli Augusti, i Cesari
diventassero automaticamente imperatori in modo pacifico.
Le speranze di Diocleziano furono subito deluse. Appena egli e l’altro Augusto
si ritirarono, l’Impero fu nuovamente dilaniato dalle lotte fra i generali che
volevano impadronirsi dell’Oriente e dell’Occidente, finché l’ordine non fu
restaurato da Costantino (306-337).
Egli portò a compimento il declino di Roma e della parte occidentale dell’Impero
trasferendo la capitale a Bisanzio, l’antica città greca che sorgeva sullo
Stretto dei Dardanelli, ai confini tra Europa e Asia.
Ampliata e abbellita, la città nel 330 fu ribattezzata Costantinopoli.
L’importanza di Costantino non si limita a questo evento di portata storica.
Egli infatti segnò anche un’altra svolta decisiva nella storia riconoscendo come
“religione lecita” un grande movimento religioso che in poco più di due secoli
stava affermandosi nelle città dell’Impero romano:
il cristianesimo.
La
distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70
d.C. aveva causato la diaspora del popolo ebreo nei vari paesi
dell’Impero romano e prodotto due effetti: quello di dare uno scossone alla
tradizione e leggi degli antichi ebrei, entro cui ancor più si accentuò la
differenziazione dai cristiani, che, ormai numerosi, li incolpavano
dell’uccisione del Messia, inoltre quello di favorire ancor più la penetrazione
del Cristianesimo in Africa, in Medio Oriente ed anche in Occidente. A Roma in
particolare e nei principali centri urbani della Gallia e della Spagna la
diffusione del Cristianesimo restava comunque limitata agli orientali poiché sia
gli scritti che andranno a costituire il Nuovo Testamento che le liturgie
utilizzavano la lingua greca, fino a quando, da Cartagine, alla fine del I sec.,
iniziò l’uso del latino nella divulgazione e nella liturgia.
A Roma, dopo alla flessione
verificatasi al tempo della persecuzione di Nerone (54-68) , era ripresa
l'espansione del cristianesimo, senza che la repressione di Domiziano (81-96) ne
avesse arrestato il processo e dove i vescovi, succeduti a Pietro, risiedendo
nella capitale dell’impero, tendevano ad assumere un ruolo guida primario.
In Medio Oriente lo sviluppo del
cristianesimo nelle città, nei villaggi e nelle campagne fu tale da indurre il
governatore del Ponto e della Bitinia, Plinio il Giovane (61-113) a sollevare
il problema (112 dC), convinto com’era che si dovesse intervenire per arrestarne
l’imponente diffusione. A tal fine decise di coinvolgere l’imperatore Traiano.
Traiano in sostanza, volendo mantenere
una posizione di equilibrio e, allo stesso tempo, rispettare la tradizione,
riconobbe il comportamento morale dei cristiani (non dovevano essere inquisiti)
ma ne condannava la credenza, sostenendo la punizione nel caso venissero
denunciati. Ambiguità resa ancor più evidente dalla considerazione che il
sistema giuridico romano, pur possedendo una religione di Stato ed un imperatore
definito pontifex maximus, tollerava i culti religiosi più vari, tra cui magia
ed astrologia, purché non venissero a costituire pericolo per lo Stato.
Fa riflettere il fatto che un uomo
colto ed informato come Plinio chieda istruzioni sul comportamento da tenere nei
riguardi dei cristiani e la risposta di un imperatore altrettanto accorto come
Traiano dimostrerebbe che, fino ad allora, non esisteva alcuna legge relativa
all’accusa di professare il cristianesimo. Plinio si uniformò al rescritto di
Traiano, assumendo nei riguardi dei cristiani una posizione di vigilanza, non
accogliendo denunce anonime, non promuovendo indagini ed accontentandosi di una
invocazione rivolta agli dèi da parte dei sospetti cristiani.
Questa del tempo di Traiano, in
Bitinia, pur annoverata fra la decina di “persecuzioni” subite dai cristiani,
non presenta quegli elementi di implacabilità che caratterizzò quella, pur
circoscritta, di Nerone e le altre, pur violente ma limitate, praticate nelle
regioni dell’Impero fino alla metà del III sec.
Dopo le
accuse infamanti di cui furono oggetto i cristiani, al tempo di Nerone, da parte
di un animoso e rozzo ceto popolare romano, all’inizio del II sec., l’opinione
pubblica più colta concentrò su di loro l'accusa di “sacrilegio” legata al
disprezzo degli dèi pagani e dell’imperatore, favorendo il diffondersi della
convinzione che l’appartenenza al cristianesimo comportasse atteggiamenti
contrari alla tradizione romana ed all’autorità imperiale e, pertanto, dovesse
essere oggetto di condanna. Convinzione che, in linea con l’editto di Traiano,
trovò via via maggiore accoglienza da parte della magistratura romana che,
secondo quanto emerge dalle testimonianze, adottò, a seguito di denunce nei
confronti dei cristiani, procedimenti di tipo penale e provvedimenti di
condanna. Nel decennio successivo, l’imperatore Adriano (117-138), successore di
Traiano, rispondendo alle sollecitazioni pervenute dall’assemblea delle città
dell’Asia favorevoli ad un irrigidimento della legislazione contro i cristiani,
forniva indicazioni nel senso che: "Se qualcuno li accusa e dimostra che fanno
qualcosa contro e leggi, si decida secondo la gravità della colpa. Ma se
qualcuno presenta denuncia a scopo di calunnia, si deve punire questa condotta
vergognosa”.
Posizione analoga assunse l’imperatore
Antonino Pio (138-161) che, in un'ordinanza alla provincia d’Asia, avrebbe
persino vietato ogni accusa di ateismo contro i cristiani.
Anche in questo periodo governato dalla
dinastia tollerante degli Antonini, non mancarono i martiri. Sotto Traiano
sembra sia caduto martire in Egitto l’evangelista Marco, fu crocefisso il
vescovo di Gerusalemme Simeone, il vescovo di Antiochia Ignazio fu condotto a
Roma e dato in pasto alle belve. I cristiani della Palestina, non avendo
partecipato alla rivolta contro Roma (132-35), vennero sottoposti a rappresaglie
da parte degli Ebrei. Nello stesso periodo a Roma (136) subì martirio, assieme
ad altri undici cristiani, il vescovo Telesforo (125-136), settimo successore di
S.Pietro.
La speranza dei
cristiani di una maggiore tolleranza non si realizzò neppure al tempo di
Marco Aurelio(161-180), essendo la “questione cristianesimo” ancora di scarsa
rilevanza se rapportata ai conflitti di potere che dividevano l’imperatore dal
Senato e dall’esercito.
Grave anche il problema
dell’instabilità territoriale causata delle pressioni delle popolazioni
germaniche che, fin dalla fine del I sec., avevano iniziato a porre in pericolo
la sicurezza ai confini dell’impero. Questa pressione, già emersa ai tempi di
Traiano, costrinse i successivi imperatori, tra cui Marco Aurelio, ad un
susseguirsi di azioni militari con enorme impegno finanziario ed umano a
presidio delle frontiere.
Intanto l'esercito ha visto sia il
dilatarsi dell’inserimento di elementi barbari, sia l'acquisizione da parte dei
capi di un crescente potere politico causa di successive e frequenti
insubordinazioni.
Marco Aurelio
avversò i cristiani per la negativa impressione ricavata dalla loro esaltazione
spirituale e per il disprezzo con cui essi affrontavano la morte, persuasi che
il Signore, rendendoli insensibili ai patimenti, avrebbe loro spalancato la
porta dei cieli. Comportamento che, pur non comprendendo l’ostinazione con cui
subivano le condanne, aveva destato rispetto in uomini di cultura come Epitteto
(I-II sec.) ed ammirazione nel medico Galeno (129-200), rispettoso della
moralità con cui i cristiani conducevano la loro vita.
E’
controversa la portata della persecuzione subita dai cristiani al tempo di Marco
Aurelio che non fu ispirata dall’imperatore ma, probabilmente conseguente ad una
situazione di disordine causata dall’epidemia di peste (200.000 vittime)
scoppiata al rientro delle milizie che avevano combattuto i Parti .
L’esasperazione popolare si indirizzò ancora una volta contro i cristiani,
presunti portatori di sciagure, e le conseguenze subite furono dure e non
attribuibili a nuove misure imperiali quanto all’applicazione di quelle già
esistenti. Le torture patite sono testimoniate dagli Atti relativi ad una serie
di martiri fra cui il filosofo apologista Giustino, il
vescovo Policarpo ed i cristiani di Lione e di Scilli (Cartagine).
L’animosità contro i cristiani si
attenuò con la successione al potere del figlio di Marco Aurelio,
Commodo (180-192), presumibilmente per l’influsso o il diretto intervento
della sua concubina Marcia, essa stessa cristiana.
L'estensione degli atti persecutori, in
Africa e in Europa, conferma quanto fosse diffuso il cristianesimo che, con le
proprie regole estranee alle tradizioni ed all’etica dell’impero, andava a
potenziare le difficoltà già emergenti a livello sociale: questo cominciava a
destare preoccupazione nei responsabili dell’amministrazione pubblica.
I cristiani
tuttavia, pur nelle difficoltà per le accuse subite, cercarono di
modificare il loro atteggiamento di chiusura e di uscire dalla clandestinità,
mantenendosi però distaccati rispetto agli affari della vita pubblica. Nello
stesso tempo si sforzarono di superare la fase del proselitismo del I sec. per
aprirsi alle fasce culturalmente più elevate ed avviare un periodo di
informazione e divulgazione mediante la quale, accanto ai riti liturgici ed ai
temi teologici della nuova religione, vennero divulgati quelli di carattere
morale e disciplinare, intesi a convincere le autorità della assoluta lealtà dei
cristiani verso l’Impero e rivendicando una giusta applicazione delle leggi.
Nello stesso periodo si verificò
l’emarginazione delle comunità cristiane di origine giudaica a favore di quelle
di origine pagana che, progressivamente, attraverso l’elaborazione di concetti
nuovi come quello di eresia (scelta) e di dogma (verità dichiarata ed
obbligatoria per la fede), si avviavano a definire il rigore dottrinale della
Chiesa.
Alla fine del II sec. Roma era divenuta
il centro di irradiazione missionaria in Europa, dando avvio alla nascita delle
diocesi, cioè Comunità cristiane territoriali affidate al governo pastorale di
un vescovo. Nell'Italia settentrionale nascono le diocesi di Milano, Ravenna e
Aquileia, nella Gallia, Lione e Marsiglia, mentre nell’Africa romana si
svilupparono importanti centri culturali, tra cui la scuola di Alessandria che
fu la prima di dottrina cristiana. In varie diocesi si formarono minoranze
cristiane economicamente potenti e, grazie ai lasciti ed alle attività
imprenditoriali, si dotarono di risorse economiche su cui non tardò a
focalizzarsi l’interesse dello Stato.
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In quel tempo i cristiani, mantennero moralità e comportamenti decisamente
contrastanti rispetto al mondo pagano, nella vita sociale e familiare:
- il matrimonio cristiano era
caratterizzato dall'indissolubilità e con una sessualità volta soltanto
alla procreazione, veniva celebrato in presenza del vescovo e dei fedeli
in preghiera. Venne disconosciuta la sessualità fine a se stessa e
consacrate la continenza e la verginità quali discipline contro la
peccaminosità.
- Nei comportamenti familiari
vennero applicati gli insegnamenti di Pietro e Paolo e, malgrado
l’affermazione di eguaglianza di tutti gli uomini dinnanzi a Dio, viene
riconosciuta la sottomissione dello schiavo al padrone, della moglie al
marito.
-
Nelle attività sociali i cristiani pur nel rispetto della legalità,
mantenevano una carica unitaria di solidarietà e di comportamenti, separati dai
valori su cui si reggeva l’impero e tali da apparire un corpo di cittadini
politicamente non condizionabili ed il cui peso sociale finì per destare
l’attenzione di chi gestiva la vita pubblica.
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La dinastia dei Severi,
inizia con Settimio Severo (193-211) e prosegue con Caracalla (211-17)
che, benchè allevato da precettori cristiani, se ne scostò.
Successivamente Alessandro Severo (222-235) accentuò durante il suo
mandato l’aspetto mistico (nella sua casa, domus divina sembra tenesse le
statue di Cristo ed Abramo) e consentì liberamente il culto cristiano.
I Severi erano di origine afro-siriaca, meno
legati alle tradizioni romane. Sotto il loro governo, un periodo di pace
consentì una ulteriore espansione della Chiesa, pur se all’inizio non mancarono
episodi di persecuzione in Egitto, ad Alessandria (202) dove numerosi furono i
martiri, in Numidia, in Mauritania ed in Gallia (211).
Tali episodi furono dovuti all'applicazione fin
troppo zelante di leggi esistenti, non al volere dell’imperatore Settimio Severo
che anzi, sollecitato dalla moglie Giulia Domna, intervenne per limitare gli
eccessi. In particolare con Alessandro Severo (222-235) si instaurò a favore dei
cristiani un clima favorevole ad aperture in cui la Chiesa potè allargare
territorialmente la sua influenza, consolidare la propria organizzazione
gerarchica, rafforzare le strutture amministrative collegando le varie chiese
sotto l’autorevole guida dei vescovi, penetrare in ambienti sociali fino ad
allora preclusi e rivendicare la proprietà dei luoghi di culto, di riunione e
dei cimiteri, fino ad allora rimasti sotto protezione di privati.
I cristiani che in tempi precedenti, per timore
di ritorsioni, non avevano dichiarato la loro fede chiesero di essere riammessi
nella Chiesa. Tali cristiani, detti lapsi (coloro che sono scivolati) erano
stati differenziati sulla base dei comportamenti tra quelli che avevano
consegnato i libri sacri che vennero definiti traditores, quelli che avevano
offerto il sacrificio agli dèi, i sacrificati, quelli che avevano bruciato
incenso davanti all’altare pagano, i thurificati e infine quelli che erano
riusciti a procurarsi un falso certificato, i libellati .
Terminata la persecuzione sorse il problema
della richiesta dei lapsi di essere riammessi alla pratica delle fede. La
posizione di rifiuto dei rigoristi si scontrò con quella possibilista che a sua
volta era differenziata. A Cartagine, Cipriano sosteneva che potevano
essere ammessi dopo penitenza e, tra questi i libellati subito ed i
sacrificati solo se in pericolo di vita. Tra le varie Chiese si diffuse la
disputa e mentre Cipriano sosteneva che i “riammessi” dovevano essere di nuovo
battezzati da Roma, che si avviava ad affermare il suo primato su tutte le
Chiese, il vescovo Stefano (254-257), ritenendo ancora valido il
battesimo ricevuto, sosteneva sufficiente la sola imposizione delle mani.
Con l’allargamento della comunità dei credenti, si verificò un
cambiamento etnico con la prevalenza dell’elemento latino rispetto al
greco ed all’ebraico ed anche un mutamento della composizione sociale
delle comunità la cui la gestione fu assunta dagli appartenenti ad uno
strato più colto, professionisti e piccoli borghesi. Questi, interessati
a mantenere legami di affari con la componente pagana, indussero un
declino del livello di moralità e spiritualità. Tale situazione fu
decisamente condannata da Cipriano, vescovo di Cartagine (248-258). Il
generale allentamento del rigore, fu occasione per il manifestarsi di
diverse eresie.
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Nel periodo
storico da zero a cento troviamo la sorprendente vicenda di S. Paolo.
Paolo, fariseo nato nel
decennio successivo alla nascita di Gesù (5-10 d.C.) a Tarso,
città della Cilicia che, confluenza di cultura greca e semitica, si
caratterizzava per un grande fervore per la filosofia e per ogni ramo
della formazione universale e dove si ritiene abbia ricevuto la sua
prima educazione di stampo giudaico-ellenista sulla base della Legge
mosaica (Torah). Fu dapprima avviato, secondo la tradizione rabbinica,
ad apprendere il mestiere manuale di fabbricatore di tende, quindi
inviato a Gerusalemme, presso la scuola del prestigioso maestro
(rabbi) Gamaliele dove acquisì la perfetta padronanza del greco e
dell’ebraico-aramaico che gli consentiranno subito di ricoprire vari
ruoli nell’ambiente fariseo con diritto di voto nel Sinedrio e gli
faciliteranno, successivamente, la diffusione delle dottrine elementari
del Cristianesimo (catechesi) ad ebrei e greci. Non vi è notizia di
diretti rapporti con Gesù perché nel periodo in cui questi annunciava a
Gerusalemme la venuta imminente del regno di Dio e forniva una nuova
interpretazione della Legge di Mosé, Paolo era rientrato a Tarso (anni
25-30 dC).
Giudeo di stretta osservanza, legato
alle tradizioni ebraiche, si allineò alla corrente giudaica più rigorosa e, come
disse egli stesso “mi ero spinto nel giudaismo oltre tutti i miei coetanei,
difensore fanatico come ero, in misura maggiore di loro, delle tradizioni dei
miei padri” e con un ruolo nella persecuzione dei cristiani di formazione
giudaica tra cui la lapidazione del
diacono
Stefano. Stefano entrò in contrasto con il sinedrio a causa della sua missione e
Saulo approvò l’uccisione di Stefano. In quel giorno si scatenò una grande
persecuzione contro la nascente chiesa cristiana che era in Gerusalemme. Saulo
intanto devastava la chiesa, entrava nelle case, trascinava fuori uomini e donne
e li faceva mettere in prigione.
Circa la sua conversione, essa può
collocarsi intorno al 33, nel corso del suo viaggio verso Damasco finalizzato
alla persecuzione dei cristiani. Giunto nei pressi delle mura della città, venne
chiamato da Cristo Gesù con un’apparizione folgorante che mutò radicalmente il
corso della sua vita e segnò una tappa fondamentale nella storia della Chiesa,
secondo quanto egli stesso riporta e secondo quanto descritto negli Atti: Or
mentre io ero in viaggio e mi stavo avvicinando a Damasco, una gran luce
venuta dal cielo mi folgorò tutto intorno. Io caddi a terra ed udii una voce che
mi diceva: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?" Io risposi: "Chi sei o
Signore?" Mi disse: "Sono Gesù il Nazzareno che tu perseguiti".
Ricevuto a Damasco il battesimo (Atti 9) si ritirò, forse
per due anni, nel deserto dell’Arabia a sud di Damasco (l. Galati 1,
17), per pregare e riflettere sulle sacre scritture, quindi ritornò a
Damasco dove i suoi antichi compagni di fede non tardarono a dichiararlo
apostata,
cioè colui che abbandona la propria religione
per seguirne un altra, e costringerlo a fuggire a
Gerusalemme per porsi sotto la protezione di Barnaba, un
giudeo-cristiano suo protettore. Là incontrò Pietro e Giacomo con cui
confrontò la sua predicazione e da cui ricevette informazioni sugli
episodi fondamentali della vita di Gesù.
Fu durante quel soggiorno che gli
apparve di nuovo Gesù: “Mentre stavo pregando nel tempio fui rapito in estasi e
vidi lui che mi diceva: - Presto affrettati ad uscire da Gerusalemme perché non
accetteranno la tua testimonianza riguardo a me ... Va, perché io ti
manderò lontano tra i pagani” che gli diede la coscienza di aver ricevuto la
missione apostolica per portare alla speranza della fede tutti i gentili.
Ricevuta direttamente da Gesù l’istruzione della dottrina cristiana, Paolo, si
trovò in difficoltà nel divulgarla perché il mondo cristiano, memore dei suoi
precedenti, lo accolse con diffidenza e accusandolo di apostasia, lo respinse
dimostrandogli rancore ed obbligandolo alla fuga (39 dC). Alcuni seguaci lo
accompagnarono prima a Cesarea, quindi a Tarso dove completò la riflessione su
Gesù che, nella sua mente, finì col sostituirsi a quella sulla Torah fino ad
indurlo a rivelare "Vivo, però non più io, ma vive in me Cristo. La vita che ora
io vivo nella carne, la vivo nella fede, quella del Figlio di Dio ...".
Durante il soggiorno a Tarso, durato
presumibilmente quattro o cinque anni, riprese ad esercitare il suo antico
mestiere di fabbricatore di tende, finché Barnaba lo indusse a trasferirsi ad
Antiochia, in Siria, dove si fermò ad istruire una comunità i cui componenti per
la prima volta furono chiamati cristiani. Là stabilì la base della sua missione
che, attraverso le vie più frequentate dell’Impero romano, raggiunse Siria e
Cilicia, Asia Minore e Grecia per concludersi infine a Roma. Durante la sua
zelante opera di proselitismo egli intese rivolgersi al giudeo prima e poi al
greco con l’intento di dimostrare che Gesù di Nazaret è proprio il Messia da
loro atteso e che le scritture dell'Antico Testamento, secondo la sua
interpretazione, anticipano quanto si è compiuto con Cristo. Nel Nuovo
Testamento è inserito l’epistolario di Paolo, 14 lettere che, redatte
occasionalmente e con diverse finalità tra il 51 ed il 67 d.C. rappresentano gli
scritti più antichi del Cristianesimo e ad esse è stata attribuita un’autorità
pari a quella delle altre scritture. Esse sono divise in tre gruppi:
a) prime lettere: I e II alla
comunità (c.) di Tessalonica (Grecia), I e II ai alla c. di Corinto,
alla c. della Galazia (Turchia), alla c. di Roma;
b) lettere dalla prigionia: alla c. di
Filippi (Grecia), a Filemone, alla c. di Colosse (Turchia), alla c. di
Efeso;
c) lettere pastorali : I e II a
Timoteo, a Tito.
Il primo viaggio missionario iniziò
nel 45 da Antiochia con Barnaba ed il giovane evangelista Marco per il
primo viaggio missionario (45-49) che lo condusse a Cipro,
Salamina, Listra e nelle regioni meridionali dell’attuale Turchia (Atti,
13 e 14) evangelizzando molte città e fondando diverse comunità ma
incontrando altrettante difficoltà e persecuzioni. Nel corso del viaggio
diede inizio alla fase di gerarchizzazione con la scelta, tra gli
anziani più ragguardevoli, dei primi capi delle comunità locali
evangelizzate, chiamati presbiteri (presbyteros). Sono gli attuali
preti, in cui il termine si è trasformato attraverso il meridionale
previte, tra questi, quelli chiamati episcopi (vescovi) erano residenti
ed avevano compiti di sovrintendenza. Non si evitarono però contrasti
con i giudei convertiti, soprattutto farisei, che volevano imporre ai
cristiani provenienti dal paganesimo l’osservanza delle pratiche
ebraiche, cioè la circoncisione "..Se non vi fate circoncidere secondo
la legge di Mosè non potete essere salvi" che assicurava l’appartenenza
al vero popolo di Dio. Fu allora che si rese necessaria la convocazione
del “Concilio apostolico di Gerusalemme” (49 dC),
prototipo
di tutti i concili ecumenici successivi, dove, con la partecipazione
dell’intera comunità di Gerusalemme, venne superato il ritualismo
ebraico e, riconosciuta ai giudei-pagani la dispensa dalla piena
osservanza della legge di Mosé, venne confermato che la salvezza
proveniva unicamente dalla fede in Gesù. Conclusioni che risultarono
determinanti al fine di staccare la nuova religione dalla matrice
giudaica (di cui conservava il monoteismo, l’osservanza del sabato e
poche altre regole elementari) ed estenderla alle genti di matrice
ellenistica. Regole che però non trovarono uniformità di applicazione e,
dopo la partenza di Pietro da Gerusalemme, i seguaci di Giacomo
espressero la loro intenzione di non abbandonare le tradizioni che
venivano dai padri.
Tra il 50 ed il 52 Paolo intraprese
il secondo viaggio missionario, in compagnia
di Sila e Timoteo ma senza Barnaba con cui aveva allentato i rapporti. Si
diresse verso nord dove fondò la comunità della Galazia (Turchia), quindi verso
le città della Macedonia dove vennero fondate le comunità di Filippi e
Tessalonica (odierna Salonicco). Proseguì quindi per Atene, incontrando ripetute
difficoltà per la sua predicazione. Si recò quindi a Corinto, nella cronologia
di Paolo abbastanza controversa, la permanenza a Corinto nel 50-51 è abbastanza
sicura per l’incontro con il proconsole dell’Acaia, Gallione, presso cui
era stato condotto e denunciato perché induce la gente a rendere un culto a Dio
in modo contrario alla legge.
Da Antiochia, dove era rientrato, partì
per il terzo e movimentato viaggio (53-58 dC)
in cui visitò le comunità dell’Asia Minore fondate in precedenza e sostando per
più di due anni ad Efeso dove, sembra già esistesse una comunità di credenti e
dove aprì un centro di insegnamento cristiano presso i locali del retore Tiranno
in cui continuò a tenere le sue discussioni ogni giorno.
A Roma, sede del culto ad Artemide, si
verificò contro di lui l’insurrezione della corporazione pagana degli orefici
che, fondando i loro guadagni sulla vendita di simulacri lo costrinsero a
riparare prima in Macedonia, da dove scrisse la seconda lettera ai Corinzi, poi
a Corinto da dove scrisse ai Romani la lettera che viene identificata come il
suo testamento spirituale e dove viene puntualizzato il tema della salvezza che
viene da Gesù e della fede, suggellata dal battesimo. Viene inoltre ribadito che
la promessa fatta da Dio ad Abramo si è attuata in Cristo costituito Figlio di
Dio con potenza, secondo lo Spirito di santificazione mediante la resurrezione
dai morti.
Alla fine del 57 Paolo partì da Corinto
ed, attraverso una via tortuosa nel timore di imboscate, raggiunse Gerusalemme
dove, a seguito dell’accusa di religione non permessa, venne arrestato per
ordine del tribuno romano. I culti dovevano essere riconosciuti dai romani per
essere legali ed il cristianesimo non lo era. In questa occasione i romani lo
salvarono dall’ira degli ebrei che volevano lapidarlo e temendo altre iniziative
contro Paolo, il tribuno Claudio Lissa lo fece accompagnare sotto scorta a
Cesarea, sede della più importante guarnigione romana in Giudea. Là rimase, con
la possibilità di condurre una vita pressoché normale, sotto custodia militaris,
cioè protetto da eventuali azioni degli ebrei e vi rimase in custodia per due
anni scrivendo le lettere agli Efesini ed ai Colossesi
Non intravedendo la possibilità di
ottenere
la libertà, considerate le pressanti accuse e l’accanimento con cui i suoi
avversari lo perseguivano, ricorse al diritto di cittadinanza romana (ereditato
dal padre o dal nonno per servigi resi all’impero o per un loro affrancamento)
facendo appello all’imperatore per essere giudicato a Roma. Dopo un viaggio
travagliato, scortato dal centurione Giulio, subì un naufragio a Malta, quindi
fece tappa in Sicilia, a Reggio (dove, secondo la leggenda, compì il miracolo
della colonna, conservata tuttora nel Duomo) per sbarcare infine a Pozzuoli.
A Roma giunse nella primavera del 61, e
trovò seguaci della nuova religione che andarono ad incontrarlo alle porte di
Roma. Rimase agli arresti domiciliari per due anni (61-63) durante cui,
presumibilmente, scrisse, oltre alle due lettere prima citate, anche quella ai
Filippesi. A seguito del processo presieduto da uno stretto collaboratore di
Nerone, Afranio Burro, gli fu restituita la libertà, probabilmente nel 62,
comunque prima dell’incendio di Roma e della persecuzione dei cristiani.
Da qui in poi sono ancor più incerti i
suoi spostamenti e, secondo alcune testimonianze, sembra si sia recato in Spagna
(64 dC) e quindi in Asia Minore.
In Asia Minore lasciò Timoteo, a capo
della Chiesa di Efeso ed affidò la comunità di Creta a Tito per mettervi ordine
e per scegliere i presbiteri.
Il martirio di Paolo, che egli stesso
pretese fosse per decapitazione in quanto cittadino romano, si ritiene avvenuto
nel 67 d.C. presso le Acque Salvie, sulla via Ostiense. Con la sua predicazione
egli contribuì al superamento dei caratteri giudaici del cristianesimo e,
restando fedele alla questione, per quel tempo vitale, dell’unità nella chiesa
di giudei e gentili, la allargò ad un contesto geograficamente e culturalmente
più ampio. Le sue Lettere, tracciano il periodo di consolidamento della nuova
religione e costituiscono la più antica testimonianza del Nuovo Testamento. Esse
furono subito utilizzate dalle comunità di credenti per conoscere e trasmettere
con la predicazione i temi fondamentali ed i termini teologici dell'insegnamento
di Gesù. |
Le comunità del Medio Oriente - La
comunità di Gerusalemme che Gesù aveva raccolto, ricostituitasi dopo gli eventi
della Pasqua del 30 che avevano registrato la morte e la resurrezione di Gesù,
era composta sia da coloro che si accostavano inizialmente alla fede nel Gesù
Cristo risorto che da quelli che lo avevano conosciuto nella vita terrena. Lo
stato d’animo di questi ultimi, così come era accaduto agli stessi apostoli,
oscillava tra la sorpresa e lo sbalordimento per la immediata
realizzazione degli eventi annunciati durante la predicazione. Fra gli aderenti
prevalevano i giudei di lingua aramaica (nativi della Palestina ed accusati di
apostasia) che, identificandosi nella fede in Gesù (atteso Signore e Messia che
tornerà alla fine dei tempi) e consapevoli di essere stati chiamati a
testimoniarLo, si differenziavano dalla visione teocratica e di attesa
messianica dei gruppi farisei, esseni e sadducei da cui provenivano, pur
restando comunque legati alle loro tradizioni e osservando la legge mosaica.
Meno problematico l’atteggiamento degli aderenti di lingua greca (ebrei dispersi
in mezzo ai pagani che avevano allentato i legami con la religione originaria)
che, scarsamente legati all’osservanza della legge di Mosé, già ai tempi della
predicazione di Gesù, ne avevano seguito senza incertezze l’insegnamento. Le due
componenti (aramaici ed ellenisti) si ponevano comunque in rotta di collisione
con le autorità teocratiche di Gerusalemme ed il contrasto teologico che si
venne a creare diede origine alle prime persecuzioni rivolte sia verso gli
ebrei-aramaici che verso gli ebrei-ellenisti. Nei riguardi dei primi prevalevano
le motivazioni di carattere dottrinale mentre nei riguardi dei secondi le
motivazioni erano di natura più prettamente politica in quanto, con
l’accoglienza dei nuovi canoni religiosi, venivano messe in crisi le istituzioni
giudaiche. Motivazioni analoghe costituiranno la base del fondamento giuridico
utilizzato successivamente per le persecuzioni attuate dall’Impero romano. La
fuga da Gerusalemme dei componenti la prima comunità, perseguitati e dispersi da
Erode Agrippa
divenne
una opportunità per la nuova religione "..quelli che si erano dispersi se ne
andavano in giro predicando la parola del vangelo" in quanto allargarono la
predicazione alle province ed all'Asia minore, in cui la
La città siriana di Antiochia divenne un centro di vastissima attività
missionaria. La comunità giudo-cristiana rimasta in Gerusalemme, a seguito della
partenza di molti ellenisti e sotto l’influsso del diacono Giacomo che ne aveva
assunto la guida, registrò un rafforzamento dei vincoli con la comunità giudaica
e, pur mantenendo la fede in Gesù, tentava di realizzarla all’interno del
giudaismo, con il riconoscimento della legge, inclusa la circoncisione.
Questione che, come come detto precedentemente, rese necessaria la convocazione
del Concilio di Gerusalemme.
Successivamente l’opera di proselitismo
che, da Antiochia, si sviluppò lungo le grandi vie di comunicazione dell’impero
romano, dalle grandi città della Grecia (Efeso, Filippi, Tessalonica, Corinto,
Atene) fino a giungere al centro del Mediterraneo e dell'Impero romano
(Alessandria, Cartagine e Roma), consentì alla nuova religione di valicare
l’ambito provinciale per assumere una dimensione globale. L’opera di
proselitismo, soprattutto da parte di Paolo, ma anche di Pietro e dei suoi
seguaci, a causa del prevalente rifiuto del mondo giudaico ad accogliere la
predicazione che Paolo avviava dalle sinagoghe, si rivolse, favorendone
l’ingresso nelle comunità, ai pagani (gentili) che, del tutto estranei alla
legge mosaica e più aperti ad accogliere la dottrina di Gesù, permisero di
allentare il legame con le concezioni apocalittiche dell'Antico Testamento.
Gli ex-gentili, nell’abbracciare la
nuova religione, ponevano al centro del loro credo la venerazione per il
Cristo figlio dell’uomo, morto e risorto, salvatore e Signore, nell’attesa del
suo prossimo ritorno (maranathà) ed, al fine di limitarne comportamenti e
concezioni individualiste, vennero inseriti nella comunità del popolo di Dio. La
componente giudaica invece continuò a mantenere le tradizioni della legge
mosaica e la sua influenza, prevalente soprattutto in Gerusalemme, dove era
guidata da Giacomo.
Alla morte dell'apostolo Giacomo, un
parente di Gesù, Simone figlio di Clopa, era subentrato alla guida della
comunità che continuò fino alla caduta della città (70 dC). Caduta che ben
presto fece nascere nelle comunità cristiane la convinzione che si trattasse
della punizione voluta da Dio per la miscredenza dei giudei. Il tramonto dello
stato ebraico ed il declino della comunità cristiana di Gerusalemme tuttavia non
ne cancelleranno il ricordo che rimase, nella memoria dei cristiani, come quella
da cui era originato il cristianesimo.
L’ampliamento del numero di aderenti alla nuova religione fece
accrescere i motivi di avversione tra componente giudaica e pagana. I giudei
vedevano messa in discussione la loro tradizione religiosa, i pagani vedevano
messi in pericolo i loro interessi economici. Tali contrasti obbligarono
talvolta le truppe romane stanziate in Asia minore ad intervenire per motivi di
ordine pubblico, senza pregiudizio, ma con atteggiamento protettivo nei riguardi
dei cristiani “christianoi”: legati a Cristo. Il neologismo cristiani,
utilizzato dai pagani per differenziare i seguaci del Cristo-Messia dagli ebrei
rimasti fedeli alle leggi di Mosé e diffuso dai Romani, prova la consistenza e
l’autonomia assunta da questa comunità al di fuori del giudaismo. Da
sottolineare la mancanza di pregiudizio, ancora a quel tempo, delle autorità
romane nei riguardi delle credenze religiose. Tolleranza evidenziata dal
proconsole d’Acacia, Gallione che, ai giudei che accusavano Paolo di indurre ad
"onorare Dio in modo contrario alla legge" rispose “se si trattasse di un
delitto o di una azione malvagia vi ascolterei ..”.
La città di Antiochia, con l’arrivo di
Pietro, Paolo e Barnaba, seguiti da dottori e predicatori itineranti, fra cui
Luca, era diventata il fulcro da cui si irradiava la predicazione missionaria
della buona novella. La concentrazione dell'interesse teologico fece crescere
quel movimento culturale che, concorse alla redazione del Vangelo di Matteo e
della Didachè, cioè di quel testo di insegnamento apostolico scritto
presumibilmente verso la fine del I secolo e che rappresenta la più antica
regola delle comunità cristiane siro-palestinesi e sviluppa temi liturgici,
morali ed organizzativi.
La tradizione culturale di Antiochia
continuò con S. Ignazio successore di Pietro, in qualità di Vescovo, ed autore
di sette lettere ardenti di misticismo dove si incontrano, per la prima volta, i
neologismi di Chiesa cattolica e cattolicesimo (Cattolicesimo “katholikos”:
universale) comprende il complesso dottrinario della Chiesa intesa come società
fondata da Gesù ed affidata alla guida di Pietro e dei suoi successori.
Si ritrovano importanti testimonianze
della Chiesa di Antiochia di fine secolo. Da Antiochia il cristianesimo si
diffuse molto presto, probabilmente ad opera dell’apostolo Simone lo zelota, nel
vicino
centro carovaniero di Aleppo (Halab), la cui comunità cristiana ebbe un ruolo,
nei secoli successivi, sia per le persecuzioni subite (Santi Cosma e Damiano)
che per la vita monastica.
Le comunità cristiane, che si andavano
costituendo nelle varie città della Grecia e caratterizzate da una matrice
essenzialmente greco-romana, erano costituite in larga misura da componenti
provenienti dalle classi medio basse, quali commercianti ed artigiani, giunti da
varie parti dell’impero. Le comunità apparivano, per la solidarietà che
manifestavano verso il prossimo, come entità sociali assolutamente anomale per
l’epoca. Ed erano anche rispettose delle leggi e delle autorità,
dall’affermazione di Gesù “Rendete a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel
che è di Dio”.
Le comunità cristiane erano portatrici
di
una dirompente carica rivoluzionaria poggiata su un Dio che, fattosi
uomo, abbracciava la condizione dei diseredati, degli oppressi e dei più esposti
alle insidie del mondo. Carica rivoluzionaria che coinvolgeva le classi più
umili, fino ad allora escluse da ogni attenzione, che venivano spinte
all’apprendimento delle scritture. Il governo di ciascuna comunità veniva
affidato ad un collegio di presbiteri, tra cui emerse la figura del vescovo. In
Siria ed Asia minore il vescovo assume, già alla fine del I sec. un potere di
governo mentre, in altre località dell’Impero, si mantiene più a lungo un
governo collegiale. Nelle lettere di S. Ignazio per la prima volta si trova la
tripartizione vescovo, presbitero, diacono.
I componenti delle comunità cristiane
si affidavano, sia presso le comunità giudaiche che in ambienti pagani, a
contatti personali ed a testimonianze di vita per divulgare, un messaggio
semplice ma innovativo: Dio è quello stesso degli ebrei e testimoniato dalla
Bibbia, Gesù è il Salvatore che è resuscitato ed ha aperto le porte del cielo a
coloro che accolgono il suo invito. Va sottolineata la rapidità con cui il
cristianesimo, favorito dalla diaspora e dalle grandi vie di comunicazione, si
diffuse in tutto l’Impero romano di lingua greca, prima fra i centri urbani
quindi in quelli rurali, solitamente più statici. Ed accanto alle comunità
impostate da Paolo ne furono fondate diverse altre da missionari precedenti o
suoi contemporanei che non si limitarono ad operare in territori ristretti. In
Asia minore, a seguito della predicazione dell’apostolo Giovanni sorsero sette
Chiese: Sono quelle di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia,
Laodicea cui Giovanni indirizza il libro profetico dell’Apocalise per metterle
in guardia da errori insorgenti ed incoraggiarli a superare le difficoltà
inerenti alla professione di fede.
La vita
nelle comunità - I cristiani si identificavano profondamente
nell'appartenenza a Cristo e quindi alla sua cittadinanza celeste. Conducevano
una vita separata nei confronti della cittadinanza terrena, rifiutandone i
costumi ed evitando di partecipare alle vicende della
vita politica. Questo atteggiamento finì col trasformarsi in una obiezione
di coscienza nei confronti delle autorità e dei cittadini sollevando sospetti e
diffidenze e creando i presupposti per le persecuzioni . Il Centro vitale delle
comunità erano le riunioni liturgiche dove i componenti si ritrovano in case
private messe a disposizione da chi era più facoltoso, per rafforzare l’unione e
per la preghiera, affidata a forme celebrative diverse da comunità a comunità ed
ispirata dalla creatività dei singoli o a modelli della sinagoga ebraica.
L’unificazione della liturgia si verificherà nella Chiesa imperiale del IV sec.
Nelle preghiere prevaleva il Pater
Noster (Matteo) recitato in piedi, rivolti ad oriente, con le braccia alzate ed
aperte ad imitazione della croce. Le letture riguardavano le prime testimonianze
divulgate con le Epistolae di Paolo ed i Vangeli. I cristiani, nello sforzo di
emulare Cristo, iniziarono a praticare la continenza, la castità nel matrimonio,
i digiuni che aiutano a controllare la cupidigia ed accrescono i vincoli di
solidarietà verso i bisognosi, gli ammalati i condannati. Nelle prime comunità
di Gerusalemme si era instaurato un “regime comunistico di beni”, anche se
successivamente la resistenza di coloro che possedevano di più si fece sentire.
La condivisione dei beni era la naturale conseguenza di un sentimento di amore.
Atti di disinteressata generosità (caritas) che si differenziavano da quelli dei
pagani, rivolti prevalentemente ad accrescere il prestigio personale. La
solidarietà dei cristiani si manifestò anche col provvedere alla sepoltura dei
diseredati, nell’offrire ospitalità a confratelli di passaggio e nel condannare
i maltrattamenti verso gli schiavi. I cristiani valorizzano il lavoro manuale
che, ritenuto dai pagani una triste necessità che umilia l’uomo, i cristiani
dedicano alla gloria di Dio. Con altrettanta fermezza vengono condannati i
giochi circensi che mettono in pericolo la vita umana. Tra i principi assunti
dalle comunità c'era quello del matrimonio, ritenuto indissolubile. Il
matrimonio non era ancora un rito e le unioni erano sancite con una benedizione.
Non erano permessi matrimoni con i pagani, portatori di diversi comportamenti ed
il secondo matrimonio era considerato alla stregua di un adulterio. L’aborto era
ritenuto omicidio, pur in un contesto in cui l’uomo era considerato tale solo
dopo la nascita. La riunione della comunità avveniva la domenica, giorno della
resurrezione di Cristo ed i rituali più importanti delle loro celebrazioni erano
il battesimo, la celebrazione dell’eucarestia, la Pasqua cui si legavano i
digiuni, risalenti alla tradizione giudaica, ma significativi di una nuova
realtà spirituale. Il battesimo era proceduto da una iniziazione dottrinale
preliminare ed avveniva per immersione in acqua viva e con l'imposizione delle
mani.
L’eucarestia era l’atto rituale della
memoria e della comunicazione della salvezza che veniva celebrata in ricordo
dell’ultima cena in cui Gesù aveva preannunciato la sua passione ed invitato a
ripetere il rito in memoria di Lui. Si compiva in occasione di un pasto in
comune e si rafforzava con la celebrazione comunitaria, nel giorno del Signore,
la domenica. Domenica che non rappresenta più il giorno del riposo di Dio ma il
giorno del Signore, nel ricordo della resurrezione: prima si aggiunse al sabato
quindi lo sostituì. Con l’eucarestia veniva celebrato il rito della
trasformazione del pane e del vino (alimenti base dei popoli mediterranei) nel
corpo e sangue del Cristo-Messia, che, distribuiti come cibo, mettono i fedeli
in comunione col Signore e fra di loro. Il rito dell’eucarestia ha termine con
l’invocazione vieni o Signore (maranathà) con cui la comunità attende il
compimento finale e con l'abbraccio della pace. Rito che, col tempo, verrà
celebrato anche il mercoledì (giorno del tradimento di Giuda) ed il venerdì
(giorno della crocefissione di Cristo).
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