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  Storia di Prato
 

 

 

 

 

Le origini e lo sviluppo della città di Prato e della sua area

Il territorio pratese è stato abitato fin dall’era paleolitica. All’epoca la pianura pratese era occupata da un grande lago formato dalle acque dei fiumi che scendevano dall’Appennino e che non potevano defluire verso il mare a causa della strettoia chiusa dal masso della "Gonfolina"; in seguito per un processo di lenta erosione il masso si spezzò e le acque si incanalarono verso il mare formando il corso inferiore dell’Arno, la pianura iniziò a prosciugarsi e a colmarsi grazie ai numerosi detriti trasportati dai fiumi Arno, Ombrone e Bisenzio, dando così origine ad una piana alluvionale e al cono sedimentatio allo sbocco della Val di Bisenzio.

Nel paleolitico medio (circa 40 mila anni fa) sulle sponde del lago, ai piedi del Monteferrato, nella zona di Galceti, vari ritrovamenti testimoniano lo stanziamento di cacciatori. Probabilmente alcune popolazioni vissero anche sulla sponda sinistra del Bisenzio, in particolare su piattaforme rialzate vicino al fiume (le attuali zone del Palco e del Podere Murato). Le stesse zone furono abitate nel periodo neolitico da agricoltori che vi trovarono condizioni favorevoli. Quando queste condizioni cambiarono e le risorse diminuirono, alla fine dell’età del bronzo, gli abitati sulle due sponde del Bisenzio furono abbandonati. Importanti tracce di un’altra popolazione preistorica, i Liguri, sono presenti nel territorio pratese: questi si stabilirono in varie zone dell’Appennino settentrionale e ne sono state trovate tracce probabilmente risalenti al VI secolo a.C. sulla Calvana e alle pendici del monte Javello; introdussero per primi l’agricoltura sulla Calvana in luoghi che attualmente sono impervi.

Etruschi e romani

Gli Etruschi penetrarono nel territorio pratese verso il VII secolo a.C.. Si suppone che Artimino fosse una città etrusca di grande importanza, un evoluto centro commerciale colonia di Volterra. Alcuni storici ritengono che gli etruschi seguissero dei sentieri che dalle rive dell’Arno e dell’Ombrone, attraverso la pianura pratese avanzassero verso l’Emilia, dove c’erano le città etrusche di Misa (ora Marzabotto) e di Felsina (Bologna), passando forse per la Val di Bisenzio e il valico di Montepiano. Agli etruschi subentrò la civiltà romana, seguendo il tracciato della via Cassia-Clodia. Ad ogni miglio di una strada consolare romana, veniva posto un cippo miliare numerato progressivamente. Da Firenze a Pistoia c’erano circa 25 miglia, e ancora oggi alcune località hanno conservato il ricordo di questi cippi: troviamo il torrente Terzolle, gli abitati di Quarto, Quinto, Sesto e Settimello. L’ottavo, il nono e il decimo cippo dovevano essere fra Pizzidimonte e il Ponte Petrino dopodichè la strada romana attraversava il Bisenzio su un ponte di incerta localizzazione. 

Lungo questa via si sviluppò la colonizzazione romana dell’area fiorentina e pratese, quando, al tempo di Silla e di Ottaviano furono distribuite terre ai veterani dell’esercito. La pianura fu divisa secondo il sistema della centuriazione in quadrati della superficie di 50 ettari (centurie), per cui si calcola che vi si stabilissero per coltivarla almeno 200 soldati con le loro famiglie. Questa suddivisione non era una semplice operazione di taglio del terreno, ma era ed è un operazione che interessava il territorio nella sua struttura di sostegno dell’insediamento. Inoltre permetteva il deflusso delle acque e la loro raccolta in determinate posizioni, con un atto di pianificazione molto rigido, cioè un reticolo dalle maglie quadrangolari. 
Ne troviamo ancora tracce nelle vecchie strade vicinali e nelle vecchie strade comunali di Prato (nella piazza del Comune e nel sistema che va da via Roma/via S.Trinità fino al fianco sud del Duomo) che si incrociano ad angolo retto o hanno un andamento parallelo. La maglia precisa della centuriazione si distorce nel momento in cui incontra il Bisenzio il cui letto, sboccando nella piana e rallentando, subisce lenti spostamenti di percorso da nord a sud. La colonizzazione romana si spinse anche più a nord, come testimoniano i nomi dei paesi della Val di Bisenzio. Non è però certo che proprio a Prato vi fosse un vero insediamento romano. E’ certo comunque che molte tracce degli insediamenti romani sono andate perdute con le invasioni barbariche, molte regioni si spopolarono e anche nella zona pratese molti luoghi abitati furono abbandonati: di alcuni rimase almeno il nome, di altri si è persa ogni traccia.

I Longobardi

La storia di Prato ha una svolta con l’invasione dei Longobardi che, nel 570 dopo Cristo occuparono anche le zone di Firenze e Pistoia, non arrivando però in Romagna per la forte resistenza dei Bizantini sull’Appennino tosco-romagnolo. Nel territorio pratese i Longobardi si stanziarono specialmente nella Val di Bisenzio e nella zona di Montemurlo, occupando parte delle terre colonizzate dai romani. Se inizialmente tra le due comunità ci furono scontri, in seguito si arrivò alla fusione dei popoli, anche se restarono differenze nelle usanze e nelle leggi. 

Sembra che già prima dell’invasione longobarda, nel luogo dove oggi c’è il Duomo di Prato, ci fosse, nel V o VI secolo d.C., una pieve (cioè una chiesa con fonte battesimale), dedicata a Santo Stefano, anche se la prima documentazione scritta è del 994. Già nell’880 d.C., però, dopo che il dominio dei Franchi si era sostituito a quello longobardo, un documento ricorda il luogo dove sorgeva questa pieve. Questo si chiamava "luogo Cornio" e doveva essere un abitato piuttosto importante, forse luogo di mercato e sede di pubblici ufficiali, come notai e "scabini", i giudici del tempo. In questo luogo il Vescovo di Pistoia possedeva una "Curtis", cioè il centro amministrativo dei suoi possessi e più tardi sorse un vero e proprio castello, circondato da fossati, che aveva al suo interno una chiesa dedicata a San Lorenzo.


Borgo al Cornio

La pieve di Santo Stefano era subito fuori dal castello e vicino ad essa sorse un vero e proprio borgo, chiamato appunto Borgo al Cornio. Borgo al Cornio, il castello e la pieve di Santo Stefano erano molto probabilmente tutti sottoposti all’autorità feudale del Vescovo di Pistoia. Il castello andò presto in rovina, ma il borgo si sviluppò estendendosi nell’area dov’è oggi via Garibaldi. Più a sud si sviluppò un altro nucleo abitato, chiamato "castello di Prato", forse attorno ad un prato adibito a luogo di mercato.

Il primo documento che lo ricorda è del 1028. A quell’epoca la parola "castello" significava borgata fortificata e infatti il castello di Prato comprendeva la zona dell’attuale centro cittadino, escluse piazza del Duomo, piazza delle Carceri e piazza San Francesco. Al suo interno c’erano numerose abitazioni e una chiesa detta appunto Santa Maria in Castello. Questo castello era sotto la giurisdizione dei conti Alberti, grandi feudatari che possedevano terre e castelli in varie parti del territorio fiorentino, pistoiese e bolognese. La loro abitazione era subito fuori del castello di Prato, nel luogo in cui ora sorge il castello dell’Imperatore, fatto costruire da Federico II sui ruderi della dimora albertesca.

La città e il comune

Sia il Borgo al Cornio che il castello di Prato si ingrandirono a causa di una notevole immigrazione di persone provenienti dalla campagna circostante, fino a riunirsi formando un’unica borgata, che prese il nome di Prato. Nel 1084 tutto il borgo era sotto il dominio feudale dei conti Alberti. La pieve di Santo Stefano diventata la Propositura di Prato (dotata di una fiorente comunità di canonici e con accresciuto patrimonio terriero) iniziò ad avanzare istanze autonomistiche nei confronti del Vescovo di Pistoia, al quale era ancora sottoposta. La popolazione pratese cercò (analogamente ad altre città italiane) di darsi una forma governativa autonoma: il comune. Il primo documento che ricorda il comune di Prato è del 1142 e attesta che esso era governato da consoli. Sembra che il sorgere del comune non fosse ostacolato dagli Alberti, ma col passare del tempo questo cercò una sempre maggiore autonomia, alleandosi spesso con i loro nemici nel corso delle varie guerre locali. Per questo verso la fine del XII secolo, gli Alberti preferirono ritirarsi in Valdelsa, sembra che addirittura "vendessero" i loro diritti feudali all’Imperatore, il quale fece curare i propri interessi dai "nunzi imperiali". 

L’amministrazione cittadina passò in un secondo tempo in mano ad un podestà (il primo documento che ne parla è del 1193), il quale doveva essere necessariamente forestiero per poter riportare la concordia tra le diverse classi e fazioni cittadine. Gli abitanti del borgo erano piccoli o medi proprietari terrieri o si dedicavano all’artigianato, al commercio o a professioni come quelle di giudice, notaio o medico. Era in quel periodo già iniziata la lavorazione della lana. Essa si era sviluppata grazie a condizioni favorevoli come la presenza di un fiume (per l’indispensabilità dell’acqua), ed anche per le peculiari proprietà detergenti del terreno nella zona di Galceti, utile per la sgrassatura della lana. Col tempo la lavorazione assunse "dimensioni industriali". Furono scavate molte gore che derivavano l’acqua del Bisenzio, sia per scopi difensivi che per muovere i macchinari. Fra il XII e il XIII secolo fu realizzato un razionale sistema di gore partendo dal partitoio di Santa Lucia, detto Cavalciotto. Sulle gore vennero costruiti numerosi mulini per macinare il grano e altri cereali. 

Un altra lavorazione artigiana importante era quella del "marmo verde", la serpentina del Monteferrato, che fu impiegato nella ricostruzione della pieve di Santo Stefano in stile romanico iniziata nel 1211 e più tardi nel portale del castello dell’Imperatore e nelle chiese di San Francesco e San Domenico. Alla fine del XII secolo la prima cerchia di mura, che lasciava fuori sia la casa degli Alberti, sia la chiesa di Santo Stefano, si rivelò del tutto insufficiente, perciò fu costruita una nuova cerchia, ultimata verso il 1196. Aveva un perimetro di circa due chilometri, il doppio della prima, e otto porte (porta San Giovanni, Porta Travaglio, Porta Gualdimare, Porta Fuia, Porta Santa Trinita, Porta a Corte, Porta Capodimonte e Porta Chiezzi) anzichè le quattro precedenti; praticamente racchiudeva quello che ora è il centro cittadino.

Rapporti con Firenze

Anche Prato, fu turbata dalle lotte fra Guelfi e Ghibellini parteggiando quasi sempre per i Guelfi. Finchè Prato fu una città in espansione, Firenze che aveva per molti anni cercato di esercitare la propria influenza nei suoi affari interni, non riuscì ad interferire. Il momento di maggiore espansione demografica ed economica di Prato fu la fine del ‘200, quando la popolazione raggiunse il numero di circa 17.000 abitanti, 32.000 compreso il distretto. Ma fin dai primi del ‘300, a causa di un certo peggioramento del clima e di raccolti scarsi, ci furono periodi di carestia e la popolazione cominciò a diminuire. Contemporaneamente alla decadenza demografica, la città subì una progressiva perdita di autonomia nei confronti di Firenze specialmente dopo che nel 1301 nei due comuni era andata al potere la fazione dei Guelfi Neri. Col pretesto di impedire ai Guelfi Bianchi ed ai Ghibellini fuoriusciti di rientrare in Prato, Firenze si fece dare più di una volta dai pratesi la custodia della fortezza e la potestà di intromettersi negli affari interni del Comune. Per cercare di porre fine a questa ingerenza, i pratesi, nel 1313, affidarono la signoria della città al Re di Napoli. Ma Firenze riuscì a mantenere un certo controllo negli affari interni pratesi, in quanto i vicari del Re di Napoli erano quasi sempre fiorentini. Intanto la popolazione continuava a diminuire a causa di carestia ed epidemie che investirono tutta l’Europa, culminando con la terribile peste del 1347-1350. Anche l’aspetto urbanistico della città subì dei cambiamenti; il Comune aveva infatti ordinato la costruzione di una terza cerchia di mura che però andò avanti lentamente anche a causa dello sconvolgimento della peste. 

Nel 1384 la cerchia fu terminata con il suo perimetro di 4500 metri, ma risultò troppo ampia per la diminuita popolazione, tanto che al suo interno rimasero molti spazi non edificati coltivati ad orti e giardini di privati o di monasteri, che erano anche una riserva agricola all’interno della cinta muraria. Le mura sono una operazione di "assetto": tagliano precisamente un "dentro" e un "fuori". Le mura verso nord, costituiscono una difesa verso il fiume e ne modificano leggermente il corso; la piazza Mercatale con la sua forma è una ripa che si è allargata, una volta bloccata l’erosione delle acque il tessuto edilizio all’interno delle mura, ha una consistenza edilizia particolarmente fitta ed addensata al centro, dove si pongono edifici di attività significative, e diventa più aperta nelle zone periferiche, per motivi difensivi. Prato non riuscì ad opporsi con efficacia alle mire di conquista dei fiorentini e quando nel 1350 alcuni membri della famiglia Guazzalotti, molto potente a Prato a causa della protezione dei dirigenti fiorentini, si inimicarono quest’ultimi per un atto di vendetta privata, il Comune di Firenze, col pretesto di mantenere l’ordine mandò il suo esercito di fronte a Prato, e dopo alcuni piccoli scontri, i fiorentini si impadronirono della città e misero un proprio castellano nella fortezza. 

Nel 1351 Firenze divenne padrona di diritto oltre che di fatto, mediante un accordo con il Regno di Napoli, a cui Prato si era data in perpetuo. Così Firenze era riuscita ad ottenere il controllo diretto della città vicina, che pure essendo abbastanza sviluppata demograficamente ed economicamente non aveva un territorio sufficientemente vasto che le permettesse di conservare l’indipendenza. Nel ‘300 e nel ‘400, sono da segnalare realizzazioni architettoniche notevoli. Nel 1317 fu iniziato l’ampliamento del Duomo con l’aggiunta del transetto gotico e dell’attuale facciata, soprammessa a quella romanica. Vennero proseguiti i lavori nella chiesa di San Domenico e di San Francesco, e fu ampliato il palazzo Pretorio. Nel 1484 fu iniziata da Giuliano da San Gallo la chiesa di Santa Maria delle Carceri per volere di Lorenzo dei Medici.

Il "sacco" di Prato

Politicamente i pratesi continuarono a mostrarsi fedeli ai fiorentini, anche quando nel 1434 Firenze passò dalla Repubblica alla Signoria dei Medici. Un avvenimento drammatico fu il sacco del 1512. Nel 1494 i fiorentini avevano cacciato Piero de Medici colpevole di non aver difeso la città dai francesi di Carlo VIII, ed avevano ripristinato l’antica Repubblica. I Medici aspettavano l’occasione favorevole per rientrare a Firenze e questa si presentò nel 1512 quando i francesi alleati dei fiorentini furono sconfitti dalla coalizione promossa da Giulio II e furono costretti a lasciare l’Italia. Allora i Medici chiesero l’appoggio del papa e degli spagnoli per riconquistare la città; il Cardinale Giovanni de Medici partì da Bologna con un esercito di spagnoli e soldati del papa; questi si presentarono davanti a Prato nell’Agosto del 1512 e con un cannone aprirono una breccia nelle mura, entrarono e si abbandonarono al saccheggio. 

In questa occasione, Prato servì da dimostrazione di cosa fossero capaci quelle soldataglie, perciò Firenze spaventata fece rientrare i Medici in città senza combattere. I Medici furono nuovamente scacciati da Firenze, e quando nel 1530 cercarono di rientrarvi con l’aiuto delle truppe imperiali, Prato divenne nuovamente preda dei soldati lanzichenecchi e spagnoli. Dal punto di vista urbanistico le costruzioni più notevoli del ‘500 furono i nuovi bastioni aggiunti alla terza cerchia di mura. Le mura medioevali, alte e relativamente sottili, non erano più in grado di resistere agli assalti delle nuove armi da fuoco, i cannoni, perciò dappertutto furono aggiunte ad esse bastioni o baluardi con terrapieno, che offrivano maggiore spessore contro le cannonate e servivano anche per collocarvi i cannoni che difendevano le mura. 

Cosimo de’ Medici, oltre a far costruire varie fortezze a Firenze, diede l’incarico all’architetto Antonio da Sangallo il Giovane di progettare bastioni per Prato, che risultarono 6 in tutto, alcuni dei quali, come quello di Santa Trinita e quello vicino al vecchio ospedale Misericordia e Dolce, sono tuttora esistenti. La loro costruzione iniziò nel 1536 ed essi, pur andando a vantaggio principalmente del Granduca, furono interamente pagati dai pratesi.

I nuovi bastioni, però, non essendo stati utilizzati, cominciarono ad andare in rovina e verso il 1574 il Granduca Francesco I li fece restaurare dal famoso architetto Bernardo Buontalenti. 

In città la diminuzione della popolazione avvenuta a causa della peste aveva permesso l’abbattimento di vecchie case per la creazione o l’allargamento di varie piazze, come piazza del Duomo o piazza San Francesco e furono costruiti anche nuovi palazzi, in parte riutilizzando torri e case preesistenti. Lo spazio tra la seconda e la terza cerchia di mura era quasi tutto occupato da monasteri e conventi (ne sono stati elencati 17), oltre ai vari enti di beneficenza. L’istituzione della diocesi di Prato, avvenuta nel 1653 per volere del papa Innocenzo X, fu uno dei pochi eventi di rilievo, anche se Prato restava sempre soggetta al vescovo pistoiese. Solo da quel momento, però, Prato potè essere chiamata città, termine usato solo per le sedi di diocesi. Infatti, nel corso di tutto il Medioevo, nei documenti ufficiali Prato era chiamata "terra", che significava "piccola città".

Il sette-ottocento

Durante il periodo Napoleonico, specialmente sotto il governo di Elisa Baciocchi (sorella di Napoleone), l’industria venne incoraggiata, Prato si inserì nel mercato internazionale, dotandosi anche di stabilimenti lanieri a ciclo completo. La città rinnovò aspetto grazie ad una intensa attività edilizia, specie ad opera dell’architetto Giuseppe Valentini (1758-1818).

Prato restò economicamente attiva anche nel periodo della restaurazione dei Lorena e la popolazione aumentò in maniera notevole. Dal 1745 al 1845 la popolazione raddoppiò passando dai 7540 abitanti ai 14.645 in città e dai 18.716 a 32.839 nel distretto. Nella storia del territorio pratese, l’ottocento è un periodo interessante soprattutto perchè si realizzano alcuni importanti collegamenti ferroviari, per esempio il collegamento con Firenze nel 1848, con Pistoia e la Porrettana nel 1852. 

Fra il 1860 e 1870, viene costruita una strada tra piazza del Duomo e la stazione sulle terre del convento di San Giorgio; sfruttandone il chiostro viene realizzata anche l’attuale piazza Lippi.

Si pongono inoltre le premesse della direttissima che verrà terminata nel 1934. L’accesso al centro storico dalla nuova stazione (1926-28) e tutto il sistema di viali vicini, è l’unico intervento urbanistico di grandi dimensioni e ambizione. Compiuto nel periodo fascista resta un fatto isolato nella storia dello sviluppo urbano della città.

Il viale principale troppo largo e senza alcun rapporto col vecchio nucleo distrusse una porzione delle mura e del Cassero per poi bloccarsi in piazza Santa Maria delle Carceri, ma avrebbe dovuto proseguire realizzando l’attraversamento del vecchio centro da piazza San Francesco a via Cavour. Prato era considerata la più importante città industriale dell’Italia centro-meridionale, anche se l’industria tessile era più arretrata di quella straniera. 

Nel 1870 fu installato il primo telaio meccanico e nel 1890 finanziato dai tedeschi, fu costruito il "Fabbricone". Gli effetti positivi della rivoluzione industriale si fecero sentire nell'industria tessile pratese specialmente per opera di Giovan Battista Mazzoni (1789-1867) studioso e tecnico meccanico di grande valore che perfezionò le macchine di filatura e ne progettò di nuove. L'evento determinante per lo sviluppo industriale pratese si verificò alla metà dell'Ottocento quando fu utilizzato il procedimento di rigenerazione dei ritagli di tessuti di sartoria, delle maglie e degli indumenti usati. Questo materiale che proveniva da varie parti del mondo, veniva selezionato con cura e trasformato meccanicamente nella così detta lana rigenerata che consentiva di produrre, anche miscelata con lana vergine, tessuti cardati di ogni tipo a prezzi competitivi. Questi prodotti conquistarono i mercati mondiali e l'attività tessile pratese progredì in modo deciso e costante. La popolazione continuò ad aumentare e nel 1901 gli abitanti del distretto erano 51.000, saliti a 66.000 nel 1931.

La storia recente

Intanto il fiume che non aveva trovato una sua utilizzazione come via d’acqua finisce per essere sempre meno impiegato anche come forma di energia; l’assetto industriale che vedeva gli opifici legati all’asta fluviale viene abbandonato e gli insediamenti produttivi si localizzano ovunque. Questa libertà non viene usata per configurare un assetto, ma per una specie di "horror vacui" si cerca di riempire tutto quello che è disponibile. I suoli scoperti vengono via via invasi incominciando dal centro verso la periferia e gli impianti industriali premono sulla cortina delle mura. Lo "stabilimento" occupa ampiamente l’area disponibile con spazi coperti di notevolissime dimensioni. 

Nelle vicinanze la residenza è rappresentata soprattutto da case a schiera che si dispongono negli spazi vuoti, con trame molto deboli, in mezzo ai compatti sviluppi industriali. Nella continuità e nella compattezza della espansione produttiva non appaiono, oltre all’esigua edilizia residenziale, particolari attrezzature. Sotto questo profilo, la Prato cresciuta al di fuori delle mura è una città senza struttura. Per quanto riguarda i piani regolatori a parte la pianificazione intercomunale, regionale e nazionale, questi assumono come base l’intero territorio comunale. Prato è passata attraverso una serie di piani regolatori che sono il segno della sua cultura e della sua coscienza. Il piano Baroni (1946-1953) che è un P.R. edilizio di espansione di marca ottocentesca; il piano Savioli, adottato nel 1956 e rinviato al Comune nel 1960, che cercò di capire tutto il territorio, considerando tutta una serie di piccoli centri con una loro vita e dimensione; il piano Marconi, adottato nel 1964 ed esaminato dai LL.PP. nel 1967, che ritornava a schemi di espansione; il nuovo P.R.G. di Prato, al quale sta lavorando il Prof. Secchi, che sta coinvolgendo in un fecondo dibattito la città alla ricerca dell'assetto migliore per affrontare il nuovo millennio. 

L'industria tessile, che fino alla metà di questo secolo, si è sviluppata nella linea produttiva tracciata precedentemente dagli anni Sessanta assiste ad un sostanziale rinnovamento. Macchinari e tecnologie moderne permettono sempre più a Prato di rispondere con tempestività alle richieste dei consumi tessili più esigenti. L'impiego di materie prime rigenerate si riduce e si indirizza su materiali qualitativamente superiori provenienti dal recupero di ritagli nuovi di confezionatura (stoffe e maglierie). Parallelamente nel Distretto Tessile pratese si verifica una consistente diversificazione produttiva verso articoli di alta qualità che prevedono l'impiego di fibre pregiate (lane vergini, cachemire, seta, lino, cotone, viscosa, microfibre, ecc.). Anche nel campo della maglieria (filati e capi confezionati) Prato ha conquistato una posizione leader a livello mondiale. Da diversi anni i prodotti tessili pratesi vengono scelti dai grandi stilisti del "Made in Italy". Negli ultimi anni, anche con l'istituzione della provincia, la città ha ritrovato una propria vocazione anche nei settori della valorizzazione del proprio territorio, dei giacimenti culturali, dell'accoglienza turistica, dell'arte contemporanea.
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Un Grande personaggio di Prato - Francesco di Marco Datini (1335 - 1410)

Le vicende della vita e dell'attività commerciale di Francesco di Marco Datini si collegano strettamente alla storia economica e sociale della città di Prato. Perduto il padre da bambino a causa della peste, assai giovane lascia la sua città per Avignone, dove inizia a svolgere l'attività di mercante, commerciando dapprima in armi, quindi anche in spezie, gioielli, stoffe di lana, lino e seta. 

Una volta tornato a Prato amplia i suoi traffici verso le principali vie commerciali, fonda una nuova compagnia a Pisa e un'altra a Firenze, principalmente per la commercializzazione di lane di Minorca, Catalogna e Provenza e di panni di produzione fiorentina e pratese. Il suo raggio di azione si allarga ulteriormente con l'apertura di altre compagnie a Genova, Barcellona, agenzie a Valenza e Maiorca, fondamentali per l'importazione di lana, pelli, sostanze utili per la tintura delle lane (come l'oricello e la grama), oltre che per gli schiavi e le maioliche prodotte da artigiani arabi di Valenza. 

L'attività di Datini, tuttavia, non si limita alla sola mercatura, nel 1396 istituisce a Prato una compagnia di carattere industriale  per la fabbricazione dei panni di lana...
 ...e due anni dopo fonda una banca a Firenze. Il Palazzo Datini, fatto costruire nei pressi dell'antica porta Fuia, sede principale delle sue operazioni, offre una sontuosa ospitalità a molti personaggi illustri dell'epoca, fra cui il signore di Mantova Francesco Gonzaga e Luigi II D'Angiò, re di Sicilia, che concede al mercante il privilegio di aggiungere al suo stemma il giglio d'oro di Francia. Sebbene non sembri curarsi molto della pratica religiosa, si occupa sempre dell'assistenza materiale ai frati di San Francesco, accollandosi le spese dei restauri e della decorazione interna della chiesa francescana.

 Nel 1399 prende così parte al pellegrinaggio dei Bianchi, un movimento i cui aderenti scalzi e vestiti di lino bianco si spostavano numerosi di terra in terra pregando e cercando di conciliare le opposte fazioni. Ormai convertito, Datini fonda il Ceppo de' poveri, (che prende il nome dal tradizionale tronco cavo entro cui i fedeli deponevano le elemosine da distribuire ai poveri, posto all'interno delle chiese), per l'assistenza ai pellegrini e ai malati. A questa istituzione, che sorreggerà per secoli la città con i suoi enormi capitali il

mercante destina, nel testamento, i beni immobili delle aziende e delle compagnie mercantili. Dopo la morte, per rendergli omaggio, le pareti esterne del palazzo furono decorate con le storie della sua vita. La sua immagine è conservata nella lastra marmorea posta sulla tomba in San Francesco e nei ritratti eseguiti nei secoli successivi con intento celebrativo; alla fine dell'Ottocento gli viene dedicata la statua in marmo, eretta nella piazza del Comune.