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Nel mondo della
letteratura, il Novecento è il secolo che rischia di più, che sperimenta
fino al limite, che mette in crisi più volte la funzione della parola
scritta e la sua tradizione per poi più volte recuperarla. Forse lo si
può definire, anche dal punto di vista letterario, un "secolo breve", ma
a guardarlo da vicino sembra lunghissimo, interminabile, diramato in
tutte le direzioni, capace di ritornare su se stesso, fra strade e
sentieri.
Il secolo inizia con l'esaltazione della velocità e termina con un
ritorno alla lentezza, mette in crisi la concezione lineare del tempo e
riscopre, nell'arco di un cinquantennio, lo spazio e il paesaggio, passa
dalla fede nel progresso alla sua sfiducia, promuove la scomposizione
(del racconto, del personaggio, delle forme poetiche) e finisce per
ritrovare integro ciò che sembrava andato a pezzi, nasce nelle grandi
metropoli europee (Parigi, Londra, Vienna, Berlino, Milano, Lisbona,
Atene) e poi, con movimento centrifugo, torna alle periferie, alle
province, ai microcosmi. Il Novecento conferisce alla letteratura una
funzione conoscitiva centrale e questo mandato continua per tutto il
secolo, anche se, soprattutto nel rapporto con la filosofia e la
scienza, più volte il ruolo della letteratura rischia di essere
abbassato a quello di un sottile gioco linguistico, e là dove si era
intravista la ricerca del vero può tornar fuori invece
l'intrattenimento, il kitsch.
All'inizio del secolo le avanguardie sembrano rescindere ogni legame con
il passato, all'insegna della modernità assoluta e della tabula rasa. I
futuristi proclamano nello stesso tempo la fine della letteratura intesa
come mezzo espressivo che segue regole tradizionali e la nascita di una
nuova visione estetica complessiva dove sono coinvolte tutte le arti,
dalla pittura alla musica al cinema, in una coesione che lascia in
secondo piano proprio la parola scritta. Non è un caso che sia la vita
delle nuove città industriali il centro del loro interesse, e che la
parola venga potenziata attraverso nuovissime tecnologie, come la
macchina o l'aereo.
Dopo Marinetti, nessun artista esalterà come lui la
bellezza superiore dell'automobile in corsa e tanto meno fingerà di
scrivere teorie estetiche dalla carlinga di un aereo in volo. Ma la
frantumazione della sintassi e la rottura della logica lineare mostrano
anche un riflusso del futurismo verso linguaggi primitivi, irrazionali,
fatti di evocazioni sonore. È l'aspetto notturno del movimento, quello
che porta Marinetti a recuperare, dopo l'incontro con Mussolini e Julius
Evola, fantasie arcaiche e sogni di palingenesi. Ed è anche quella
componente ribellistica e anticonformista che offre appoggio alle
tecniche sensazionalistiche sfruttate poi dall'industria culturale, come
aveva intuito un secolo prima Tocqueville.
L'apporto più notevole del futurismo, e del conseguente cubismo nel
quale confluisce, consiste nelle sperimentazioni tecniche che,
inseguendo il mito della velocità e della percezione simultanea,
scompongono le forme letterarie con inedite operazioni di frantumazione
e montaggio. Sono innovazioni che, assunte poi dal cinema, ritornano di
nuovo a premere sulla letteratura, in particolare sul romanzo, per tutto
il secolo.
Dopo il futurismo, il surrealismo, fatto di tante anime diverse, porterà
all'eccesso la sperimentazione, rovesciando il rapporto tra mondo della
veglia e mondo onirico a favore del secondo, e prospettando una
scrittura guidata dall'inconscio. Proclamerà il rappresentante maggiore
del surrealismo, André Breton: "Trasformare il mondo, ha detto Marx,
cambiare la vita, ha detto Rimbaud. Queste due parole d'ordine sono per
noi una sola".
Molto di ciò che si era preparato alla fine dell'Ottocento arriva a
maturazione nei primi due decenni del secolo nuovo. L'analisi del
profondo, delle strutture psichiche e percettive, dei meccanismi
dell'io, porta gli scrittori europei a elaborare grandi contenitori
(romanzi, poemi, opere miste) dove questa analisi può inseguire nei
particolari ogni sfumatura, insinuarsi negli interstizi, nelle zone
d'ombra, portare alla luce l'inespresso. I nomi sono quelli di Proust,
Joyce, Woolf, Mann, Kafka, Musil, Pirandello per la prosa, Rilke, Eliot,
Pound, Valéry, Mandel'stam, Ungaretti, Montale, García Lorca, Pessoa,
Gottfried Benn per la poesia.
Con loro l'Europa letteraria, almeno fino agli anni Trenta, sembra una
realtà coesa e sintonica. L'ipotesi che avvicina esperienze letterarie
spesso tra loro dissimili sta nel valore di interpretazione totale del
mondo che tutti questi scrittori sostengono. Anche quando nelle loro
opere viene rappresentato l'assurdo, o l'inspiegabile, si tratta
comunque di aspetti della realtà che hanno un valore esaustivo, e,
soprattutto nel romanzo, i loro personaggi, pur scomposti in livelli
multipli, diventano il prototipo dell'uomo europeo problematico.
Nello
straordinario romanzo "La montagna incantata",
Thomas Mann immagina un personaggio, Hans Castorp, che si trova isolato
in un sanatorio e partecipa ai dibattiti di idee che percorreranno tutta
la prima parte del secolo, tra rivoluzionari e conservatori.
Per quanto riguarda i narratori, l'innovazione fondamentale deriva dalla
presa di coscienza che un evento non si può più narrare secondo una
progressione lineare, secondo una catena logica di cause e conseguenze
come fosse un insieme chiuso. Ora l'evento non si conclude mai, come
avviene nella Recherche di Proust (1913-1927) ma torna ogni volta
osservato da un'angolazione diversa, moltiplicato e con l'effetto di
simultaneità tipico dei sogni. Oppure sono i dettagli, i particolari
ininfluenti a venire a galla, unendosi, come avviene nell'Ulysses (1922)
di Joyce, in catene di immagini (flusso di coscienza) che contengono
tante microsituazioni possibili appena accennate e non sviluppate ma
aperte in tutte le direzioni del tempo.
Dal punto di vista tecnico, questa è la grande e forse l'unica vera
invenzione del Novecento: il montaggio di un insieme di unità (frasi, o
al limite minimo, solo parole) che scorrono sulla pagina come scorrono
nella coscienza, e ricordano il flusso delle merci sul mercato della
nuova economia. Robert Musil, nell'Uomo senza qualità (1930-1933, ma
letto dopo il 1950) descrive le vicende di Ulrich, per il quale è venuta
meno la coerenza tra il prima e il dopo, e il mondo è ormai un insieme
disgregato che il narratore non può più fingere di tenere insieme, così
come il personaggio non può applicare le sue straordinarie qualità a
nessuno scopo reale, anche se persegue sempre il principio
dell'esattezza.
E Pirandello arriva a far raccontare la propria storia a un uomo che in
realtà non è ormai nessuno,
non ha identità se non quella che gli viene
appunto dal raccontare come ha perso ogni identità possibile (Il fu
Mattia Pascal, 1904). Al contrario di quello che avveniva
nell'Ottocento, nel romanzo ormai l'azione è un elemento da ridurre al
minimo, e tutto il secolo cercherà di ritrovare il modo per
riavvicinarsi alla realtà dei fatti senza cadere in un realismo che
ignora la complessità. A risultare vincente, per parecchi decenni, sarà
proprio la grande invenzione del flusso di coscienza, cioè il montaggio
illogico e veloce di singoli pensieri lasciati liberi, che diviene
subito lo strumento privilegiato per rappresentare le malattie
dell'inconscio borghese o per tenere
insieme enciclopedicamente, come in Hermann Broch, la molteplicità
incontenibile dei linguaggi: lirico, naturalistico, drammatico e
filosofico.
Ben presto il
grande antagonista della letteratura diventa il cinema, e
ben presto la letteratura non sembra potersi più permettere ciò che il
cinema riesce a rappresentare efficacemente. Il cinema ha assunto dalla
grande letteratura ottocentesca alcune tecniche (il dialogo, il
montaggio, il trattamento del tempo) e ora le riesce a potenziare grazie
alla sua specificità visiva. Se un film racconta in due ore una storia
complessa come quella che riguarda un eroe, o un ricco uomo d'affari, e
crea l'immagine di un viaggio interstellare, o di un mondo futuro, la
letteratura deve rivolgersi all'invisibile, evocare l'inconscio,
alludere a ciò che sta oltre la realtà, riaprire mondi che sembrano
perduti, e riprendere le grandi narrazioni arcaiche, i miti e le
allegorie, facendole funzionare di nuovo nel moderno.
Come avviene spesso con i nuovi generi, quello che viene sfruttato con
intensità in un certo momento culturale, difficilmente riesce a
sopravvivere a lungo.
Prima della metà del secolo, le grandi forme narrative e poetiche
moderne sono già usurate, non corrispondono più a esigenze collettive.
Mentre la prima guerra mondiale sembrava aver macabramente realizzato
ciò che molte avanguardie auspicavano, l'esplosione delle forme, la
simultaneità, la scomposizione, l'impatto violento del reale sull'uomo,
la seconda guerra mondiale diventa un ricco, emozionante periodo di
formazione esperienziale che, finita la guerra, alimenta racconti,
poesie, meditazioni.
Due sono i momenti centrali: la Resistenza contro i regimi totalitari e
la tragedia della Shoah, dalla quale escono alcuni dei racconti più
intensi del secolo, da Primo Levi a Jean Améry, Danilo Jorge Semprùn, Imre
Kertesz e la poesia di Paul Celan e di Nelly Sachs.
Lo sradicamento, l'inspiegabilità del male, il senso di colpa sono i
temi di queste opere, che si ricongiungono alla linea portante della
letteratura dell'assurdo e vedono, alla metà degli anni Cinquanta, nel
romanzo e nel teatro di Samuel Beckett il loro culmine.
Sono gli anni in
cui Artaud sognava il suo teatro della crudeltà, tra ebbrezza e
violenza.
Un'umanità monca e ansiosa di esprimersi attraverso la
propria anomalia fisica si ricongiunge così con un'umanità ferita e
oltraggiata. Se da una parte abbiamo linguaggi completamente slogati e
sospesi, al limite del balbettio infantile o folle, dall'altra la lingua
intensa e criptica elaborata da Celan rappresenta l'unico strumento per
trovare una voce adatta a esprimere un'esperienza oltre il comunicabile,
di là dal "soffocamento" della vita quotidiana. E ancora nel 1962 René
Char parlerà di una "parola come arcipelago", alludendo alla
frammentazione, all'isolamento, alla dispersione.
Dal momento che le esperienze vissute durante la guerra sono cariche di
significati, non sembra necessario sottoporle a elaborazione eccessiva.
E spesso sono personaggi giovani, alle soglie dell'adolescenza, a
diventare protagonisti delle nuove avventure. Si crea così una vera e
propria categoria antropologica, quella del mondo giovanile, che prende
sempre più piede durante la seconda metà del secolo, fino a imporsi
nelle due contestazioni del 1968 e del 1977. Come dirà Italo Calvino,
lettore di Conrad e Kipling, a proposito della sua prima opera "Il
sentiero dei nidi di ragno", gli scrittori cercano in questo momento di
rendere l'intensità collettiva delle vicende, la forza diretta del
racconto orale, il rapporto nuovo con il paesaggio.
I modelli
letterari vengono spesso dall'America.
Si ritorna così al racconto
tradizionale, alla poesia narrativa, alla scrittura di meditazione, a
forme dall'apparenza neutra la cui intensità è direttamente
proporzionale ai fatti tragici che vengono evocati. Si forma una memoria
sociale in cui la letteratura, come poi il cinema, acquista una funzione
predominante, di conservazione e di denuncia. Non è un caso che alcuni
grandi scrittori della prima metà del secolo siano soprattutto
intellettuali impegnati a trattare temi di portata politica e sociale:
Albert Camus, George Orwell, Antonio Gramsci, Arthur Koestler, Ignazio
Silone, Elio Vittorini, Simone de Beauvoir, Simone Weil, Jean-Paul
Sartre.
Dopo la metà del secolo, forse anche per un esaurirsi rapido
dell'intensità liberata nel decennio centrale, la letteratura è sempre
più intenta a guardarsi e indagarsi, a riutilizzare le tecniche
esasperandone la portata. Nel 1956, il successo improvviso di un romanzo
come "Il dottor Zivago" di Boris Pasternak sembra riproporre un ritorno
alla tradizione ma in realtà mostra come, sotto la superficie, si sia
frantumata l'oggettività realistica e il romanzesco tolstoiano sia
diventato oggetto di una operazione raffinata, ai limiti della parodia.
La trama degli incroci continui tra le vicende dei personaggi denuncia
la convenzionalità del racconto, su cui domina una concezione epica
della natura e della storia.
All'inizio degli anni Cinquanta si è già fatta strada, soprattutto in
Italia, l'esigenza di un'uscita dalle strettoie del realismo, imposte
spesso per ragioni ideologiche. Si consolida la fama di un grande
scrittore anomalo, Carlo Emilio Gadda, autore di esperimenti narrativi
fondati sul principio della deformazione e dell'accumulo polifonico,
anche se saldamente ancorati alla tradizione del naturalismo francese.
Gadda può essere avvicinato all'altro grande irregolare francese Louis
Ferdinand Céline, non per gli argomenti trattati ma per il tentativo di
elaborare una prosa emotiva, al limite visionaria, costruita come un
flusso di parole che risvegliano un movimento vorticoso di immagini. Con
Gadda, e con gli scrittori che si vogliono suoi allievi, in particolare
Giovanni, Alberto Arbasino e Pier Paolo Pasolini, nasce un nuovo modo
di guardare alla cultura italiana, sia essa quella borghese ricca e
industrializzata (Arbasino) sia quella popolare e in via di estinzione
come quella di Pasolini, che porterà la sua ottica disperata fin dentro l'esperienza
cinematografica.
All'inizio degli
anni Sessanta, la proliferazione delle teorie, delle
analisi critiche, l'ansia dei metodi e delle nuove discipline fanno
della letteratura uno spazio di indagine privilegiato. Spesso le nuove
opere nascono a ridosso delle teorie che interpretano le opere vecchie,
in uno scambio soffocante che ricorda i matrimoni tra consanguinei delle
famiglie aristocratiche. Da questo momento ogni racconto sembra
costruito sulla memoria di altri racconti, alludere a qualcosa di
precedente, chiudersi nel perimetro delle propria autosufficienza,
mentre la poesia spesso si riduce a complicato virtuosismo linguistico,
a struttura sonora, a evocazione di linguaggi specifici. Anche se, dopo
le esperienze paralizzanti delle neoavanguardie, è proprio la poesia a
riscoprire spesso le realtà particolari, i microcosmi nazionali, i
linguaggi sommersi, e a rilanciare a livello collettivo l'urgenza di
nuove meditazioni sull'io, sulla storia, sulla natura, sull'oralità
della parola: si pensi a René Char per la Francia, a Seamus Heaney per
l'Irlanda, ad Andrea Zanzotto per l'Italia.
La letteratura prende l'aspetto di un raffinato bricolage, capace di
evocare ogni tipo di discorso, politico, filosofico, artistico senza
che si riesca più a scorgere un suo carattere specifico che non sia
quello di un'ironia saggistica. Le esperienze dell'École du regard
avevano riassunto l'epoca in cui l'Europa si era trovata in piena
"civiltà dei consumi" e l'individuo sembrava quasi assorbito dagli
oggetti che lo circondano.
Così Robbe-Grillet faceva coincidere interamente l'atto del narrare con
la descrizione minuziosa della realtà, rinunciando per sempre alla
finzione del personaggio e della trama, o lasciandone la traccia
indebolita sullo sfondo. E la poesia era diventata, sul modello
recuperato di Pound, una lunga enumerazione di caotici linguaggi che
spezzano per sempre l'idea di un linguaggio lirico unitario ed
espressivo di uno stato riconoscibile del soggetto.
In questo modo il grande peso della soggettività, messa in crisi in
molti ambiti filosofici, viene allontanato, o perlomeno messo tra
parentesi. Restano i frammenti del suo essere. In Italia, un grande
poeta premio Nobel come Montale dedica l'ultima fase della sua
produzione (la raccolta Satura, del 1971) a questa entrata del
quotidiano e del dimesso nel mondo della poesia, dove la figura stessa
del poeta sembra riprodurre il grigio borghese senza qualità, a cui è
rimasto come unica difesa un riso sardonico di fronte allo sfaldarsi
delle cose.
Alla
ricerca di un difficile equilibrio
Alla fine degli anni Settanta sembra rinascere sotto varie forme la
possibilità del racconto, così come la poesia viene presa da una nuova
urgenza di comunicare, soprattutto in pubblico, diventando performance,
spettacolo.
Nella
"Vie: mode d'emploi" (1978) di
Georges Perec la descrizione di un caseggiato parigino di dieci piani
viene trasformata da un narratore esterno e onnisciente nel racconto di
tutte le vite degli individui che vi abitano e di tutti gli oggetti che
li circondano, facendo di innumerevoli descrizioni altrettanti
micro-intrecci che spesso si collegano e interferiscono tra loro: la
vita non più come libro ma come catalogo. Il modello adottato da Perec è
quello del puzzle, il gioco di ricostruzione di una figura scomposta in
frammenti irregolari. Nel 1980, Il nome della rosa di Umberto Eco sembra
ridare forza all'insieme delle prospettive umanistiche che si alleano
per sostenere un intreccio di indagine e ricerca spostato nel Medioevo
ma continuamente allusivo al presente. Nel suo caso il puzzle è
costituito dagli indizi che devono risolvere un giallo dal valore
metafisico (nella linea che va da Chesterton a Brecht), ma nello stesso
tempo il termine può essere riferito all'incastro di rimandi
storico-eruditi che definiscono l'atmosfera del racconto, fruibile a
livelli diversi: l'indagine, la ricostruzione storica, l'allusione
filosofica.
È l'inizio di una nuova epoca per il romanzo, che prende sempre più
piede negli ultimi vent'anni del secolo per merito di alcuni autori le
cui opere acquistano diffusione europea: Christa Wolt Thomas Bernhard,
Milan Kundera, lan McEwan, Josif Brodskij, Czeslaw Milosz, Martin Amis,
José Saramago, Javier Marias, Umberto Eco, Antonio Tabucchi, Michel
Tournier, Marguerite Yourcenar, Michel Houellabecq.
Al di là delle poetiche che si rifanno al postmodernismo, di cui viene
assunto come emblema lo scrittore argentino Borges, e che implicano una
parodia di tecniche e forme, un gioco continuo e a volte irridente con
le citazioni del passato, sembra ritornare in vita l'idea della
letteratura come ricerca e indagine conoscitiva, senza niente di
definitivo o di predeterminato. Arriva così al suo estremo l'ipotesi che
aveva mosso la letteratura moderna, la visione dell'individuo come
pluralità di esistenze, come incrocio di realtà possibili, addirittura
compresenti negli stessi luoghi. Solo che ora non si tratta più di un io
sprofondato nel tempo, moltiplicato in piani di visione successivi ma
simultanei, né di un flusso di immagini che riassume la percezione densa
e insostenibile della vita metropolitana.
Il personaggio con cui si chiude il secolo è interamente portato sulla
superficie, costruito come un collage di immagini e una collezione di
istantanee. Non a caso l'ultima opera di Italo Calvino è dedicata a un
individuo perplesso, il signor Palomar, che vorrebbe mettersi in
rapporto col mondo attraverso piccole porzioni di esso, e fallisce quasi
sempre nel suo compito.
E solo negli ultimi anni si afferma in tutta Europa la fama di uno
scrittore modernista come il portoghese Pessoa, inventore di personalità
multiple ognuna caratterizzata dall'uso di uno stile diverso: a lui il
Nobel José Saramago dedica uno dei suoi romanzi più affascinanti, Gli
ultimi giorni di vita di Riccardo Reis. Nello stesso tempo diventano
internazionali alcuni autori che rappresentano il passaggio tra lingue e
culture diverse, come il praghese francesizzato Milan Kundera o il russo
americanizzato Vladimir Nabokov, o il giapponese anglicizzato Kazuo
lshiguro, supportati inoltre dall'industria cinematografica e
giornalistica.
La traduzione da una lingua all'altra, l'uso di linguaggi specifici, il
passaggio dalla scrittura al cinema sono i segnali più rilevanti del
destino della letteratura tra la fine del secolo e l'inizio di quello
successivo: l'essere un ponte di comunicazione tra esperienze diverse,
tra mondi piccoli e grandi, tra centri e periferie, tra punti di vista
marginali e opinioni condivise pubblicamente. Così la letteratura è
ancora alla ricerca di nuovi equilibri e di nuove esperienze tra i due
poli del locale e del globale. |
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