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Camilleri - Padre di Montalbano

È vero, Camilleri non ha scritto solo gialli, ma a me piacciono solo quelli e a patto che abbiano come protagonista il commissario Montalbano.

Sedurre con il giallo, questo riesce a fare Andrea Camilleri

Insieme alla storia usa la seduzione linguistica, gli schemi iterativi e i personaggi comuni

La Sicilia diventa una cartolina, talvolta una caricatura, ma sempre depoliticizzata

Infine Camilleri invita i lettori a diventare, insieme a Montalbano, “teorici del giallo”

 

Prima di parlare dei romanzi polizieschi di Andrea Camilleri, occorre fare una premessa. Ci muoviamo nello spazio del popolare, nel genere di massa, giudicato spesso come inferiore e collocato a margine della cultura alta.

Una dettagliata disamina del testo, della fabula, dei personaggi e dei meccanismi narrativi interessa solo gli studiosi.

Nel presente saggio mi propongo invece di analizzare alcuni elementi strutturali dei gialli camilleriani per metterne in evidenza le modalità di seduzione e individuare eventualmente il tipo di lettore (non solo comune, secondo l’accezione riduttiva del termine) cui punta lo scrittore.

Per iniziare a spiegare il successo dei gialli di Camilleri, risulta chiaro che la serie con Montalbano propone qualcosa d’altro rispetto a un intrattenimento intellettualmente sterile.

Proviamo a ricostruire l'immagine del mondo così come risulta dagli elementi utilizzati nel romanzo

 

La seduzione linguistica, gli schemi iterativi e i personaggi comuni

La decennale carriera di tragediografo, l’esperienza e la sensibilità teatrali sono un fattore decisivo nella formazione del Camilleri scrittore.

Da uomo di teatro, Camilleri è abituato ad avere personaggi veri, non macchiette o funzioni, non figurine qualunque, dotati anche di un dialetto specifico che è l’essenza della loro natura.

Per questo il linguaggio originalissimo e i personaggi fortemente caratterizzati vanno considerati insieme. La loro lingua è il loro pensiero, constata Camilleri, e usa un linguaggio che è una variante del dialetto siciliano perché essendo siciliani di nascita, non si può non tenere conto soprattutto della lingua della propria “tribù”, una lingua distinta da quella nazionale che è troppo neutra e inespressiva, utile solo a compilare una domanda in carta bollata.

La lingua esprime il costume sociale e politico dell’isola, gli odori, i cibi, il sole, ma anche la crudeltà, la violenza, l’omertà, la mentalità, le locuzioni gergali. D’altra parte, scrivere in dialetto siciliano significherebbe escludere dalla fruizione delle proprie opere il grande pubblico (“in un giallo ci sono già troppi enigmi perché se ne aggiungano anche di linguistici”).

Il frutto della ricerca di un mezzo linguistico, capace di esprimere sia i concetti (prerogativa della lingua, secondo Pirandello) che i sentimenti (prerogativa del dialetto), è l’invenzione di un dialetto inesistente definito dall’autore un “italiano bastardo”.

Di esso ci piace l’espressività, la vivacità dei calchi del parlato quotidiano e ci diverte la stilizzata colloquialità e proverbialità.

È un linguaggio colorito, pittoresco. Ma quello che ci seduce davvero è il piacere che si prova quando con agio si viene a padroneggiare una lingua nuova, perché il dialetto “mescidato” (cioè meticciato, creolizzato, come a volte lo si chiama) è in Camilleri sorprendentemente comprensibile.

La lingua vigatese viene spiegata dal narratore o dagli stessi personaggi, le espressioni dialettali sono commentate, parafrasate, accompagnate da diversi sinonimi di cui almeno uno è comprensibile, o poste in un contesto che le rende facili a capirsi.

L’operazione linguistica, poi, interessa solo il lessico, mentre la sintassi rimane ancorata a quella italiana (tranne una accessibilissima concessione al vernacolare nell’uso del passato remoto o nella collocazione del verbo al termine della frase). Il lettore è difatti coinvolto da quello che è un innocente, cioè elementare, facile giallo linguistico e le sue capacità intellettive ne escono lusingate. Non si rimane spiazzati se non per poche pagine. Poi si impara a districarsi, si acquista familiarità e si capisce il vigatese.

 

Per parlare dei personaggi (ma il discorso vale anche per i temi e i motivi dei gialli di Andrea Camilleri) conviene ricordare la forza suadente e l’efficacia della ripetizione che, abbinata all’innovazione (meglio se minima), piace e reca conforto.

La regola sembra applicata per intera da Camilleri.

Le iterazioni continue, il ritorno e il riconoscimento del già noto lusingano il lettore facendogli identificare in un contesto o in una situazione nuova, o leggermente cambiata.

Gli elementi risaputi compaiono sia in una serie di testi con un gioco di richiami da romanzo a romanzo (che della serie con Montalbano fanno un sequel), sia replicando gli stessi elementi all’interno di un testo (ricorrenze intratestuali).

 

I personaggi principali sono tutti seriali, ritornano di romanzo in romanzo tutti, tranne Montalbano, con le stesse abitudini, poco o per niente mutati.

Siccome hanno ciascuno una determinata funzione da svolgere in relazione al protagonista, sono spesso psicologicamente ingenui e portano avanti in maniera caricaturale determinati vizi o virtù, spesso in coppia antitetica con un altro personaggio.

Anna Tropeano, donna sicula (quindi dai costumi riservati), è contrapposta alla svedese Ingrid (sensuale e disinvolta).

Livia, la fidanzata "leale", ma lontana, “continentale” che vorrebbe irretire il maschio nei lacci matrimoniali, si confronta con la governante Adelina, un’ottima cuoca, un tipo di donna che non pone problemi e non crea tensioni.

Non v’è (forse ad eccezione di Clementina, l’ex-insegnante di Montalbano, una figura materna, dignitosa e intelligente) un personaggio femminile dotato della stessa dignità di Montalbano, quindi in tal senso Camilleri non rinnova gli schemi del giallo, genere tradizionalmente maschilista, né cerca di sovvertire gli stereotipi isolani vigenti in materia.

 

Il vice-commissario Mimì Augello è un rivale del commissario in privato (da smodato donnaiolo, dimostra troppe attenzioni a Livia) e al lavoro (aspira al posto dell’altro).

Il collaboratore fidato e coraggioso, l’amico leale di Montalbano, Fazio, è invece un ottuso. Nutre una passione maniacale per la stesura minuziosa di indagini, verbali, rapporti, dovuta forse al suo complesso da impiegato dell’anagrafe.

Alcuni personaggi, quasi caricaturali, destano ilarità, come Catarella, il centralinista del commissariato, incapace di fare altro e forse incapace di fare anche questo. La sua robusta ignoranza e il fatto di conoscere esclusivamente il dialetto vigatese, lo costringono a comunicare ricorrendo a una variante di linguaggio fatto di vocaboli storpiati, attinti dal burocratese, dal popolare e dal dialetto siciliano. Per riuscire a comunicare con il telefonista, Montalbano cerca di servirsi del linguaggio dell’altro costituendo così delle scene distensive e spassose.

Sono dei personaggi stereotipati, ridotti a sentimenti e a valori rudimentali, e, osserviamo, sono delle persone comuni. Li conosciamo e riconosciamo di puntata in puntata, ci affezioniamo e li amiamo.

 

Tra di loro spicca la figura del commissario, cui il lettore si affeziona ancora di più: solitario, sensibile all’ingiustizia arrecata ad altri (meno importante delle sue vedute politiche – sappiamo tuttavia che è di sinistra, è un ex-sessantottino che disprezza i pentiti e detesta i trasformisti – è il fatto che Montalbano è sempre pronto a difendere i deboli), leale e onesto, ma anche bisbetico e permaloso, con repentini sbalzi d’umore a seconda del variare delle condizioni atmosferiche.

 Ha i suoi vizi e le sue virtù: è insomma un eroe del tutto comune. Ama il proprio lavoro ma è insofferente verso la burocrazia e i metodi sterili di indagine, non è asservito alla mafia. È intuitivo e istintivo (una delle maggiori doti possedute dal nostro commissario è il suo formidabile istinto, un fiuto animalesco), sincero ma anche camaleontico e irascibile; contrario all’uso della forza anche se impaziente e diffidente; risoluto e razionale ma anche un bravo commediante che sa bluffare e mentire all’occorrenza.

Allo stesso tempo è modesto (il contrario dell’arrivista Augello), non tiene alla carriera e alla promozione (in particolare se la promozione andasse a coincidere con la compromissione dei suoi ideali). Diventa timido, come le persone comuni, alla luce dei riflettori e balbetta davanti alle telecamere. Trasandato nel vestire, rifiuta in genere le pubbliche relazioni e le conferenze stampa.

 

Il protagonista di Camilleri è poi vero anche in questo: invecchia.

E invecchiando diventa più scettico, più svogliato, cambia i propri rapporti con gli altri. Da sempre tollerante e non violento, il sopraggiungere della vecchiaia ne diminuisce l’entusiasmo del detective, crescono invece il senso della stanchezza e del disgusto verso la realtà circostante che lo rende sempre più deluso e impotente. Quel che egli riesce a conservare è il fermo senso morale, l’incorruttibilità.

 

In privato, lo “sbirro” dal volto umano, anche se attratto dal gentil sesso, è celibe e non è un donnaiolo.

Mangia, beve e legge.

Le doti culinarie e il gusto per la buona cucina di chi del mangiare fa un rito diventano un criterio di valutazione degli altri personaggi.

Chi è capace di cucinare è simpatico.

Chi tace mangiando crea un feeling con il commissario.

Ma attenzione: la lettura è ancora più importante del mangiare. Montalbano (come Maigret di Simenon) ha una casa piena di libri, li commenta, ne cita gli autori e crede nel valore dei libri, il che non è un dato irrilevante all’interno del meccanismo di seduzione del lettore.

Il fatto che il protagonista simpatico legge, deve aumentare nel lettore l’interesse a leggere altri libri, compresi i gialli di Camilleri.

 

L’ambientazione dei libri di Camilleri è siciliana.

Il fatto piace ai lettori, ma dispiace a molti critici tra cui Giulio Ferroni che definisce la rappresentazione di Camilleri della realtà politico-sociale della Sicilia “di pura maniera: un Meridione da cartolina (macchiettistica e stereotipata, incapace di toccarne i problemi autentici; una Sicilia rassicurante) con esiti di involontaria parodia quando ricorre ai più usurati clichés fatti propri da una certa banale letteratura e cinematografia”

Secondo Marcello Sorgi, la “sicilitudine di Camilleri è autentica, ma un po’ datata”.

Secondo me la sua sicilianità è essenziale e tende a enfatizzarla.

Lo scrittore s’inventa una città immaginaria e inesistente, ma fatta ugualmente come un crogiolo di una tale quantità di caratteristiche (pur più usurate) e di mali isolani da diventare la città siciliana per eccellenza.

Le doti dei siciliani, presentate inizialmente come virtù (diffidenza, rifiuto di cambiare), diventano dei difetti.

Per esempio, l’amicizia tra i siciliani richiede la lealtà e la complicità, e implica il timore del tradimento al punto che una lite con un nemico si può risolvere più facilmente rispetto ad una lite con un amico; in questo secondo caso infatti entrerebbe in gioco il sentimento del tradimento.

Ma siciliane sono anche, e prima di tutto, le radici culturali dello scrittore che si ritiene figlio di autori siciliani: “Dico sempre che quando ho le pile scariche vado da Sciascia e Pirandello, i miei elettrauti, e mi rileggo un loro libro. In fondo, la mia sicilianità è una questione genetica, spirituale, culturale e filosofica. Una cosa seria”.

E si crede un padre degli scrittori siciliani verso cui confessa di avere un atteggiamento mafioso: “io degli scrittori siciliani vorrei essere padre, complice, amico, tutto. Sugnu mafiusu rispetto agli scrittori siciliani…”. La sua prosa presenta tuttavia delle differenze da quella dei suoi padri letterari. In Camilleri la mafia (che ha visto in Sciascia uno dei maggiori denunciatori) è un tema marginale, o comunque non costituisce la prima ragione del delitto, mentre i moventi più comuni sono il denaro, le passioni, le vendette personali. Camilleri semplicemente non ritiene giusto esaltare i mafiosi a livello letterario. Non bisogna conferire loro la dignità di personaggi letterari. Se ne dovrebbero occupare i carabinieri, la polizia e la magistratura, dice a Lodato. Quanto a Camilleri, egli vorrebbe depoliticizzare la Sicilia, e forse anche l’intero paese.

 

Il giallo è un genere cui Camilleri è approdato per razionalizzare la scrittura.

Glielo consigliò Sciascia stesso suggerendo che la gabbia più vera per uno scrittore è il romanzo giallo. Il giallo è la forma letteraria più onesta, perché non si può barare con il lettore. Oltre che per motivi di apprendistato narrativo, Camilleri si serve comunque del genere per sovvertirne le regole, come prima di lui hanno fatto Gadda, Dürrenmatt, Vàzquez Montalbàn.

La serie con Montalbano è un omaggio al giallo globale. Lo stesso Camilleri ammette, abbiamo già detto, l’ascendenza sciasciana e pirandelliana, eppure, anche dal punto di vista della tipologia del giallo, dell’autore de "Il giorno della civetta", Camilleri ha tutto e nulla. Lo scrittore in modo spregiudicato strumentalizza gli ingredienti canonici del giallo (compreso quello del giallo storico sciasciano): riduce l’inchiesta poliziesca vera e propria a favore di un’indagine psicologica, dà molta attenzione alle vicende personali dei personaggi. Le premesse ideologiche cedono agli interessi psicologici. I lettori sono resi spettatori e complici di tali trasformazioni del genere di largo consumo.

 

Diversamente da Sciascia, Camilleri non vuole risalire alla verità. Il male nel mondo di Salvo Montalbano non è proprio di una fazione politica, di una classe, di una regione o di un’epoca storica. È umano. Eterno. E la verità è ambigua, per cui sembrerebbe che l’autore non condivida la dialettica schematica tipica, secondo Umberto Eco, della prosa popolare in genere. Si è manichei per due motivi: per motivi operativi e umani. Il romanzo si serve della contrapposizione semplice e elementare perché la cerca l’uomo comune che in tali contrapposizioni si riconosce.

Se Camilleri non riproduce semplicemente il modello manicheo è perché la lotta tra il bene e il male, e soprattutto il trionfo del primo sul secondo, non è scontato. Il suo detective non diventa perciò un superuomo, né un giustiziere machiavellico. Giustizia e verità trionfano raramente. Le indagini del poliziotto camilleriano non portano spesso a scoprire se non a quello che è una verità possibile.

 

Resta comunque il fatto che il giallista baciato in fronte dalla fortuna del mercato ha clamorosamente confutato l’opinione di Alberto Savinio – espressa negli anni ’30 – il quale riteneva il giallo italiano non riuscito perché mancante dell’elemento romanzesco che avrebbe dovuto viceversa accompagnarsi al filone poliziesco. Facendo questo e riproponendo una formula nuova del giallo, in cui anche la ricerca linguistica è lungi dalla sperimentazione di marca gaddiana (non è un gioco linguistico fine a se stesso), Camilleri sconfina in pura ilarità e seduce il lettore facendogli apprezzare il genere del giallo capace non di denuncia politico-sociale ma di intrattenimento.

Il piacere deriva dal fatto che il lettore è reso partecipe e testimone del tutto, comprese le trasformazioni della forma del genere.

 

Un certo impegno sulla realtà è un atteggiamento oggi tornato di moda, dopo decenni di evasione imperante. Quello di Camilleri, riflesso nelle sue fabule, è un impegno debole.

Al di là dei romanzi, Camilleri-intellettuale nutre una forte “passione civile”, ne sono prova soprattutto i suoi interventi su “MicroMega”, dove spiega tra l’altro che la sua Sicilia non è una terra assopita e rassegnata che in tanti (escludendo Sciascia e Pirandello) hanno descritto prima di lui. È una terra in continuo movimento, sempre ribelle contro qualcosa o qualcuno; raccontare ciò con ironia o provocare il riso al lettore non significa mancare d’impegno né tanto meno mancare d’impegno nelle questioni civili.

Camilleri non trascura l’interesse per l’attualità, sostiene semplicemente che il giallo ha dei compiti civili da assolvere. In La voce del violino, mette in bocca alla ex-insegnante di Montalbano, Clementina Vasale Cozzo, un’apologia del giallo, considerato erroneamente come un genere di seconda categoria: tutta la letteratura è un giallo perché tutta la letteratura senza distinzioni cerca le radici del male.

A chi lo aggredisce, come Vincenzo Consolo (secondo cui Camilleri sarebbe colpevole di aver tradito la tradizione impegnata di Sciascia e di gran parte della letteratura siciliana), Camilleri ribatte dicendo di avere un’idea diversa della letteratura e dei suoi obiettivi.

I veri compiti della letteratura sono quelli di “avere una funzione di conoscenza, però senza darlo a vedere, perché se lo diamo a vedere diventiamo dei maestri di scuola, oppure facciamo della propaganda per questa o per quell’idea; bisogna non darlo a vedere e, meglio ancora, possibilmente divertendo”.

 

Una cosa è orchestrare rappresentazioni realistiche del mondo, un’altra credere di poterlo cambiare. Camilleri si limita infatti alla denuncia dell’affaristica e mafiosa classe politica siciliana e italiana in genere, tuttora in buona salute e le cui qualità sono concentrate nella figura di Silvio Luparello, campione della trionfante nuova classe dirigente al potere, o in quella dell’avvocato Rizzo. Montalbano non vuole perseguitare e punire i rei. Si limita alle indagini che, pur brillanti, spesso non portano all’arresto del colpevole, alla condanna del malvivente (vuoi perché il reato cade in prescrizione o è coperto da segreto di stato, vuoi per la compassione del commissario) e tutto si dilegua. Più che scovare il colpevole si vuole capire la molla, rivelare la causa scatenante del crimine che è spesso umana prima che politica.

 

Camilleri risulta magistralmente consolatorio ai lettori comuni, ma non solo.

In primo luogo perché le immagini di giustizia gestita da altri (il lettore può mettersi la coscienza in pace) gli fanno dimenticare, almeno momentaneamente, che nella realtà la giustizia gli è sottratta. In più, nonostante le mille cose che accadono, l’ordine della realtà non è alterato ma riconfermato.

La consolazione è mistificatrice, ma efficace. Il giallo camilleriano scopre così il suo volto non rivoluzionario, ma consolante e conformista. Se si contesta è solo per riaffermare definitivamente l’ordine (sociale, di costume, politico) momentaneamente turbato.

La società di Camilleri, pur turbata e corrotta, resta ciononostante in equilibrio. Si tratta ora di trovare un modo per far accettare il mondo com’è. Il giallo di Camilleri seduce senza garantire una finale e univoca soluzione del mistero, cioè senza fondarsi sulla premessa dell’inevitabile e dell’imprescindibile scoperta del vero.

Si ha la piena consapevolezza che il ricco prevarica sul povero, che il potere è fondato sulla frode, ma non si auspica né si profetizza la lotta sociale, né si vuole sovvertire l’ordine della società.

Camilleri propone una soluzione minima, una quasi-soluzione: oppone la propria giustizia e dirittura morale all’ingiustizia comune. La sua stessa quest  (ricerca)ricompensa i buoni e ristabilisce l’armonia.

Consola i lettori con l’immagine o con l’illusione della giustizia, mettendo al contempo a nudo (denunciando) i problemi.

Seduce con gli schemi iterativi, con il gioco linguistico, con “l’eroismo comune” dei protagonisti, con un’immagine depoliticizzata della Sicilia e, infine, lodando i lettori per la capacità di riconoscere le trasformazioni del genere. Il catalogo degli strumenti impiegati per sedurre l’oggetto prescelto ne descrive il tipo.

Il lettore immaginato da Camilleri è uno che vuole essere divertito e intellettualmente lusingato, commosso e spaventato, per poi essere consolato e rassicurato.

Lo stesso vale per il telespettatore.