Beirut 1982

Per un tempo che a molti sembrava immemorabile e che invece risaliva ad un passato recente, Beirut era stata una delle contrade più gradevoli del nostro pianeta: un posto comodissimo per viverci e per morirci di vecchiaia o di  malattia.

Oltre all’ottimo clima a Beirut regnava una grande tolleranza e negli innumerevoli luoghi religiosi si celebravano senza problemi i riti dei 19 culti ammessi dalla Costituzione. Esisteva un regime più o meno democratico, le libertà civili erano rispettate.

La gente si ammazzava per vendetta o gelosia, furto o camorra, non per odio comandato, partito preso, fanatismo o esigenze militari.

Nel 1946 s’era concluso il mandato francese e insieme all’indipendenza questo aveva lasciato un benessere che amalgamava i vari gruppi. Li incorporava attraverso la fede nell’unico dio cui gli uomini credono senza limiti e senza riserve: il dio denaro.

Era anche una bella città, sebbene non possedesse monumenti eccelsi: mare, ville, villette, giardini e parchi con i cedri del Libano.

Dotata di efficienti infrastrutture urbanistiche, portuali, aeroportuali e commerciali, Beirut poteva dirsi fino agli anni 70 una città ricca.

E pazienza se il benessere era inquinato da un pugno di ultramiliardari mafiosi che controllavano l’economia. Pazienza se tra costoro si distingueva un certo Pierre Gemayel cioè il papà di Bachir e Amin, e un certo Kamal Jumblatt cioè il papà di Walid.

Ammiratore di Mussolini e fondatore di un corpo paramilitare conosciuto come la Falange il primo.

Precursore del traffico di hascish che prelevava nel Bekaa col  suo aereo personale il secondo, nonché patriarca dei Drusi. Nonostante ciò Beirut era un luogo quasi felice.

Ma un brutto giorno erano arrivati i palestinesi.

Erano arrivati con la loro rabbia e il loro dolore e i loro solfi. Molti, moltissimi soldi. E grazie ai soldi s’erano comprati il permesso di stabilirsi in tre zone della periferia musulmana: Sabra e Chatila, due quartieri attigui alla Citè Sportive, e Bourji e Barajni, un quartiere a metà di rue de l’Aerodrome.

Qui, usando la medesima logica degli israeliani che gli avevano sottratto la patria, s’erano installati al posto degli sciiti che a Sabra e Chatila e a Bourji el Barajni ci vivevano da sempre.

Li avevano sfrattati dalle loro case, cacciati, asserviti. Gli avevano preso  i cortili, cancellato le strade per fabbricarvi nuovi edifici e, non paghi della prepotenza, erano dilagati oltre il territorio concessogli per insediarsi anche in alcuni quartieri cristiani.

Infine, sordi agli screzi che l’ulteriore invasione accendeva, avevano instaurato uno stato nello stato: una nazione con le  sue leggi, le sue banche, le sue scuole , le sue cliniche, il suo esercito.

Un autentico esercito fornito di uniformi e caserme e carri armati e cannoni a lunga gittata. Una macchina militare cui mancava solo la Marina e l’aviazione ma che grazie alla mafia locale riceveva ogni tipo di equipaggiamento compreso il materiale necessario per scavare un’altra città. Perché a poco a poco sotto il suolo della città rubata avevano scavato un’altra città, invisibile e inespugnabile. Un labirinto di catacombe che custodivano migliaia di armi e munizioni, di gallerie che contenevano camerate per i combattenti e sale chirurgiche e centrali radio, accessi segreti e tunnel ben arieggiati che a volte si stendevano per chilometri e sboccavano sulla spiaggia del litorale.

Contemporaneamente avevano rafforzato i loro campi nel Libano meridionale, in particolare quelli alla frontiera con Israele, e senza curarsi delle rappresaglie spesso feroci di Gerusalemme, avevano intensificato gli attacchi ai Kibbuz.

Allora Beirut si era ribellata. O meglio, si erano ribellati i gruppi che potevano permettersi un simile lusso: i cristiani, i falangisti di papà Gemayel.

I primi scontri degenerarono in battaglie e queste in massacri, come il massacro di Damour, la città cristiano-maronita dove i palestinesi avevano trucidato per rappresaglia dozzine di vecchi e donne e bambini. Per evitare i massacri viene firmato un armistizio con cui Beirut viene divisa in due: la zona cristiana o Beirut Est e la zona musulmana o Beirut Ovest divise da una così detta Linea Verde.

Ai Palestinesi rimase la maggior parte della superficie, la maggior parte della costa i quartieri più prosperi. Beneficiandoli l’armistizio li rendeva padroni assoluti, ne aumentava l’aggressività e la protervia, ne facilitava il dominio della frontiera con Israele e gli attacchi ai kibbuz,

Sicché un altro brutto giorno arrivarono gli israeliani.

Erano venuti con un esercito fiancheggiati dalla Marina e dall’Aviazione, noto per la durezza con cui aveva sempre affrontato il nemico e in pochi giorni avevano raggiunto la zona Est di Beirut.

Qui erano stati bloccati dai palestinesi che insieme agli alleati siriani tenevano la linea verde con i denti. Inutile tentare di sfondarla: penetrarla ad esempio nel tratto della pineta, meno difficile perché meno ingombro di case. Ogni albero nascondeva un guerrigliero deciso a non retrocedere di un passo, l’ippodromo pullulava di truppa scelta e di artiglieri semovente, il Museo opponeva una trincea invalicabile. Altrove lo stesso. L’avanzata dell’esercito noto per la sua durezza s’era convertito in assedio e l’assedio era durato più di 2 mesi. Per quasi 10 settimane Beirut Ovest era stata sotto i bombardamenti aerei e navali. Anche Beirut Est era martellata dai mortai, dai cannoni e dai razzi degli assediati.  Grazie alla città sotterranea che chiudeva nel suo ventre armi e munizioni sufficienti a resistere un  anno, i Palestinesi non si arrendevano.

A corto d’acqua e di cibo, stanchi di vivere nelle gallerie e nei tunnel, due volte odiati dagli sciiti che fuori morivano come mosche, s’erano rivolti agli occidentali perché conducessero trattative con Gerusalemme e da Gerusalemme avevano ricevuto un aut-aut  irrevocabile: o evacuare Beirut e il resto del paese o rassegnarsi a un bagno di sangue.

Avevano scelto di evacuare purché la cosa avvenisse con lo scudo delle forze multinazionali e dopo aver minato alcune gallerie della città sotterranea, averne murato gli accessi principali, quasi 10.000 se ne erano andati per sparpagliarsi in Siria o in Tunisia o in Libia o nello Yemen del Sud.

Erano rimasti solo i vecchi, i mutilati, i bambini, le donne quelli che si definivano non combattenti: altre 10.000 persone ora ben contenute entro in confini di Sbarra, Chitarra e Bourji el Barajni. Poi anche le Forze Multinazionali venute a proteggere l’evacuazione, con un contingente di americani, uno di italiani e uno di francesi, avevano lasciato Beirut.

Gli Israeliani vi s’erano insediati da vincitori, col loro beneplacito il figlio minore di papà Gemayel era diventato presidente ed era calata una specie di pace.

Della bella e piacevole città che era stata, adesso Beirut era piena di macerie e macerie, cadaveri e cadaveri. Bourji el Barajni, il quartiere più colpito, sembrava un deserto di sassi. Meno demolite Sabra e Chatila dove molti erano sopravvissuti anche grazie ai rifugi clandestini scavati sotto le case. Due settimane dopo però avevano rimpianto di non essere morti sotto l’assedio. Infatti in giovane presidente figlio di papà Gemayel viene assassinato con una scarica di tritolo insieme a 60 seguaci e, non sapendo con quale gruppo o avversario prendersela, i falangisti s’erano scatenati contro i palestinesi di Sabra e Chatila ormai alla mercé di chiunque volesse fargli pagare gli anni di prepotenze e la colpa d’aver portato la guerra a Beirut.

I falangisti di Gemayek erano piombati alle 9 di mercoledi sera, 1° settembre e con la complicità degli israeliani avevano bloccato i 2 quartieri per evitare ogni via d’uscita.

Poi fieri della loro fede in Gesù Cristo e in San Marone e nella Madonna, protetti dai figli di Abramo che gli illuminavano la strada con i riflettori, erano irrotti nelle case.

S’erano messi ad ammazzare ed avevano continuato giorno e notte fino al venerdì mattina. Trentasei ore filate.

All’alba di Venerdì, stanchi di dagli la caccia e ammazzarli uno a uno, avevano minato le case nelle cui cantine s’erano nascosti i superstiti. Quasi tutte le case di Chatila. Poi avevano lasciato spavaldamente il quartiere. I morti di quell’orrore forse mille.

In preda al panico il governo aveva richiamato le forze multinazionali di pace.

4.000 tra americani, italiani e francesi più 100 inglesi di rappresentanza, che allo sbarco si illudevano di rimanere per poche settimane.

Invece stavano li da più di un anno e lungi da aver riportato la pace affogavano in una guerra nuova.

Nella zona Ovest infatti ora spadroneggiavano gli sciiti.

Il partito filokomeinista che li raggruppava, il partito di Amal, costituiva un altro stato dentro lo stato.

Il neopresidente, fratello di quello assassinato, amministrava soltanto la zona est e l’esercito. Un esercito diviso tra chi portava la croce e chi non la portava.

Quasi che ciò non bastasse, l’allucinante mosaico di gruppi e gruppuscoli  aveva partorito la setta komeinista dei figli di Dio rivelatasi lanciando due camion kamikaze imbottiti di esplosivo contro americani e francesi che provocarono 400 morti tra i soldati.